Judith Schalansky (Greifswald, 1980) è scrittrice, designer e insegnante di tipografia. Il libro, nella sua concezione, è un oggetto complesso in cui «testo, immagine e fattura si fondono perfettamente»; è «il migliore di tutti i mezzi di comunicazione», il solo in grado di «ordinare il mondo come nessun altro, e a volte perfino rimpiazzarlo», nonostante la carta maceri e l’inchiostro sbiadisca. Schalansky non si illude di poter aggirare la deperibilità materiale, né, tantomeno, di farlo all’insegna di una frattura tra forma e contenuto: non è possibile immaginare per il libro una vita dopo la morte del suo supporto fisico, perché una storia non può esistere senza di esso, e non può farlo in una dimensione successiva alla scrittura (la stampa e la messa in circolazione del volume), né in quella precedente (la sua progettazione). Per questo motivo, ogni suo aspetto grafico e formale deve essere studiatissimo.
Il piano di Schalansky – la progettazione minuziosa dell’oggetto-libro – poteva essere passato in sordina, perché apparente scelta obbligata, con Atlante delle isole remote (Bompiani, 2013, trad. it. F. Gabelli), o ancora preso come vezzo originale in Lo splendore casuale delle meduse (nottetempo, 2013, trad. it. F. Pantanella); Inventario di alcune cose perdute (nottetempo, 2020, trad. it. F. Pantanella), però, non lascia alcun dubbio a riguardo.
Quest’ultima, recentissima uscita consente così di inquadrare con lenti nuove la produzione precedente dell’autrice. Se, per Schalansky, il mondo è «immenso archivio di se stesso», e la tassonomia il tentativo di dare oggettività al caos, meglio si inquadra la fragilità di Inge Lohmark, l’inflessibile professoressa di biologia protagonista dello Splendore casuale delle meduse, che nella nomenclatura e nell’incasellamento ha trovato rifugio da una figlia oltreoceano e da un marito devoto solo agli struzzi che alleva. Ma si comprende meglio anche Atlante delle isole remote: come l’Inventario racconta di dodici cose scomparse dal mondo, l’Atlante costruisce microstorie intorno a cinquanta isole remote – le isole, per intenderci, che sulle carte sono spesso riquadrate e inserite a margine del foglio, perché troppo lontane persino per reggere la scala di rappresentazione. Quanto arriva al lettore, in questi casi, non è una raccolta – di cosa, poi? Racconti? –, ma rimanda sempre a una dimensione altra, inventariale, cartografica, e acquista in questo modo un’unitarietà specifica, data proprio dal travaso in un genere diverso, non meno letterario, né meno poetico.
Il remotissimo e il perduto diventano degli escamotage per inserirsi nel meccanismo narrativo e sviscerarne continuamente il marchingegno sottile; leggiamo con lo stesso piacere inclassificabile e perverso con cui possiamo assistere a un’operazione chirurgica, alla costruzione di un orologio o di un qualsiasi altro macchinario complesso. Le caratteristiche di prima e seconda lettura si fondono: non apprezziamo solo cosa accade, ma anche, istantaneamente, come si presenta sulla pagina.
Che i libri di Schalansky siano oggetti calibrati al millimetro, in cui l’intarsio dei dettagli non solo è importante, ma macroevidente, lo dimostrano soprattutto tre aspetti: la fattura materiale del libro, la sua (s)composizione interna e lo stile dei racconti.
Nero su nero
Una prima, raffinata, scelta autoriale, consiste nell’aver fuso l’omogeneità del testo a quella del suo supporto: ogni racconto è lungo sedici pagine. È un sedicesimo tipografico, una delle unità minime più comuni per la stampa. Schalansky, in sintesi, non consente nessuna incursione di una storia altra all’interno del blocco di pagine, ogni racconto inizia e finisce con l’iniziare e il finire di queste – il libro e la sua storia, il libro è la sua storia.
Seconda particolarità, più evidente ma non meno elegante: Inventario di alcune cose perdute è incorniciato da quattordici pagine nere, recto e verso. Di queste, le dodici che separano i racconti presentano, sempre stampata in nero, la riproduzione della cosa perduta di cui si sta per parlare. Decifrare l’immagine richiede uno sforzo visivo, un getto di luce, inclinare la pagina, strizzare gli occhi, ma per questa fatica il lettore ringrazia. Judith Schalansky non si limita a offrire allo sguardo, nero su nero, l’immagine di qualcosa ormai scomparso da giorni o millenni, ma innesca una riflessione sul potere della scrittura, il nero su bianco. È la scrittura, infatti, a rendere tangibile l’oggetto, non l’immagine; solo tramite il racconto noi arriviamo, realmente, ad ammirare il manto della tigre del Caspio, ad aggirarci tra le rovine di Villa Sacchetti, a leggere i libri perduti di Mani o studiare le voci di un’enciclopedia appese ad alberi dati alle fiamme.
Nero su bianco
La concezione di libro come marchingegno si rivela, su un secondo piano, andando a sezionarne i contenuti. Ogni cosa ha l’evidente dovere di significare. Ecco allora che sottotitoli prefazioni e indici, tutti di pugno autoriale, si offrono al lettore con un grado di essenzialità pari a quello della narrazione vera e propria.
La Prefazione di Inventario di alcune cose perdute, anch’essa di sedici pagine, può essere interpretata come tredicesimo (o primo) racconto, che indaga morte e oblio come vettori fondamentali dell’esistenza umana. Ricordare ogni cosa è una tortura indicibile – Schalansky cita Temistocle: «Ricordo anche quello che non voglio e non posso dimenticare quello che voglio»; eppure, l’oblio non è arte, non è scienza, non è calcolo, e l’uomo non ha alcun potere su di esso: «Le enciclopedie affermano di conoscere i nomi di quasi tutti coloro che furono colpiti dalla damnatio memoriae».
Citare i nomi dei condannati non significa però riportarli in vita. Tutto ciò che la scrittura può fare, sottolinea Schalansky, è rendere esperibile. Scegliere come oggetto qualcosa di scomparso o lontanissimo, allora, doppia la difficoltà del rapporto tra vita e scrittura: toccare con mano è innecessario alla scrittura («scribere necesse est, vivere non est»), ma diventa, allo stesso tempo, obiettivo della lettura.
Come Hubert Robert anima le macerie che ritrae, o Jules Verne narra di mondi irraggiungibili (mai raggiunti?), l’autrice concepisce Inventario di alcune cose perdute. La rovina, nell’essere «un luogo utopico in cui passato e futuro diventano una cosa sola», si rivela il luogo narrativo per eccellenza, poiché la narrazione è l’unica altra dimensione che consente di inserirsi contemporaneamente su più piani temporali; la cosa narrata può esistere e allo stesso tempo essere andata perduta. E può farlo senza problemi.
Le sfumature
Un’isola circoscritta, minuta, remota non può che dar voce a un racconto altrettanto circoscritto; ogni pagina è uno sbarco. Inventario di alcune cose perdute pone invece, dal punto di vista stilistico, qualche ulteriore complicazione. Non si può mettere a confronto il ruggito di una tigre con un pittore di rovine, l’abbattimento di un palazzo ricco d’amianto con i carmi scomparsi di Saffo. I dodici racconti necessitano ciascuno di uno stile diverso. C’è l’indugio e c’è la lettura sbranata, la linearità da resoconto saggistico e la conclusione mancata, la prima persona e un impersonale narratore onnisciente, presente e passato, protagonisti umani o animali… Anche la sintassi subisce uno stravolgimento continuo: a un periodare sciolto e voluttuoso – che a volte, forse, tra virgole e lineette rischia di spaesare il lettore –, si sostituisce il taglio di una frase secca. L’impressione finale è che quanto effettivamente inventariato trascenda i confini dell’Inventario, e che Judith Schalansky consegni al lettore un bilanciato, estesissimo e completo manualetto di catalogazione universale.
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