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Un reticolato di strade e palazzi, disordinato; un reticolato luminoso che singhiozza, si arresta, si spegne esattamente lì, a sud della città, un confine invisibile che separa la luce dal buio, l’elettricità dagli accendini, la disonestà pulita, praticata negli uffici, dalla disonestà sporca, quella dei ratti. È questo il nostro quartiere. E poi eccolo, Mister Tamburino, il punto più nero di questa città, all’incrocio fra la strada che conduce all’ospedale e quella che vi invita al cimitero. Mister Tamburino non suona un tamburino, il battito che sentite è quello della morte. Mister Tamburino vi regala cristallo impuro; non c’è modo di specchiarsi, al massimo vi aiuta a sciogliere i sogni, a farli ribollire in un cucchiaio già annerito e piegato dal vuoto che avete nelle vene bucate. Mister Tamburino è un agente di viaggio senza ritorno. Nessuno sa chi sia per davvero, né da dove provenga, è nato assieme al quartiere; Mister Tamburino è il quartiere. Aveva un cane, una volta, un meticcio bianco della sua stessa flemma, dal passo lento, di chi non ha fretta, poiché il tempo non gli importa. American Pie si chiamava il cane. L’uno non esisteva senza l’altro. Poi però una sera di fine anno, mentre noi sparavamo fuochi d’artificio, Mister Tamburino sparò al suo cane. E nessuno seppe perché.

Mister Tamburino continua a vendere cristalli impuri, continua a offrire pacchetti viaggio senza ritorno, ne ha regalato uno anche a noi una sera che nostra madre ci cacciò da casa perché aveva da fare con qualcuno che poteva essere papà; stropicciò i soldi nel palmo della nostra mano e ci disse di andarci a fare un giro. E noi quel giro lo facemmo, e poi ci fermammo a fissare Mister Tamburino che scambiava un cristallo impuro, un pacchetto viaggio senza ritorno, per un po’ di denaro. Anche noi volevamo un pacchetto viaggio. Ci siamo avvicinati, nervosi, Mister Tamburino era uno imprevedibile, se aveva sparato al suo cane, poteva farlo a chiunque. Mister Tamburino non ci parlò, ci fece segno con la testa, come a dire di andarcene, ma noi volevamo il pacchetto viaggio.

No, ci disse lui.
Ecco i soldi.
No, ripeté.
Per favore.
Perché, domandò.
Non ci saranno altri viaggi, qui.
Mister Tamburino ci guardò e fece sì con la testa.
Vieni con me, disse.

Girammo l’angolo, arrivammo sotto la finestra di casa nostra, precisamente lì dov’era la stanza da letto della mamma che urlava piacere con un altro papà a pagamento; forse quello era il suo pacchetto viaggio, non aveva bisogno di Mister Tamburino, lei. Anche se per la verità noi l’avevamo vista, eccome, scambiare cristallo impuro, sotto quella stessa finestra, sotto quell’unica finestra, perché la stanza da letto era anche la cucina, era anche il salotto, era persino la nostra cameretta. Sotto quel davanzale smozzicato, Mister Tamburino sciolse i sogni, suoi e nostri, in un cucchiaio annerito. Abbiamo lasciato mamma con un altro papà a pagamento, abbiamo superato questo reticolato di elettricità e accendini. Ecco Mister Tamburino, ecco noi a terra, quella che esce dalla nostra bocca è schiuma, di mare, il viaggio è iniziato.

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↔ In alto: foto prottoy hassan / Unsplash.

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