La cordigliera che separa Cile e Argentina è fatta di ben altro che montagne e laghi e vulcani. È retta dal passaggio perpetuo di uomini e donne che sono emigranti o viaggiatori, discendenti di un posto o di un altro, dall’identità mescolata e non più rintracciabile o dalle caratteristiche chiare e inevitabili, colpevoli di renderli ovunque individuabili e segnati.
Alejandra Costamagna è una scrittrice cilena di lontane origini italiane, considerata tra le principali autrici latinoamericane, vincitrice del Premio letterario Anna Seghers. Con Il sistema del tatto, pubblicato in Italia da Edicola ediciones (2020), è stata finalista al Premio Herralde de Novela e vincitrice del Premio del Circulo de Criticos de Arte.
Il romanzo trae origine dalla biografia personale e familiare dell’autrice, come le stessa ha spiegato durante una chiacchierata con l’editore italiano Paolo Primavera online sul canale Decameron – Una storia ci salverà. La sua famiglia si è infatti sviluppata attraverso tre rami di migrazioni: quella del bisnonno, emigrato dal Piemonte all’Argentina nel 1910; quella della prozia, spedita in Sudamerica nel 1949 per sposare uno sconosciuto cugino approdato lì prima di lei; e quella dei genitori, trasferitisi dall’Argentina al Cile alla fine degli anni sessanta per motivi politici.
Un passato fatto di viaggi per mare e attraverso le Ande, di scelte più o meno forzate o obbligate, di veri e propri esili. Il sistema del tatto nasce quindi con l’idea di essere una sorta di documentario sotto forma di romanzo con l’obiettivo di scoprire e conoscere chi e cosa che fa parte di quello che abbiamo alle spalle. In un alternarsi di passato e presente, attraverso le voci di più personaggi, Alejandra Costamagna racconta la storia di Ania, la chilenita, donna inquieta di 40 anni che lavora a Santiago del Cile nelle case degli altri – ne cura le piante, si occupa dei loro animali – dei quali arriva a vivere temporaneamente la vita.
Forse il suo futuro consisteva nell’occuparsi delle case altrui diventandone un’abitante transitoria. Nel trasformarsi a poco a poco in quegli altri che sostituiva. Prendere le loro abitudini, mangiare seduta al loro posto, accarezzare i loro animali, masturbarsi nei loro letti. Imparare le loro usanze, inventarsi un manuale per ogni singolo caso.”
Finché suo padre le propone di tornare in Argentina per l’ultimo saluto al cugino morente. Il viaggio di Ania è un punto di arrivo. A Campana tornerà bambina ad ogni incontro, con le persone della sua infanzia, con le case vissute, con gli oggetti rimasti. Resterà la donna che è diventata: nella scelta della solitudine, nel preferire il silenzio, nell’incomprensione verso il proprio padre, nel desiderio di scoprire di più delle figure che hanno popolato le estati della sua infanzia. Le voci che la accompagnano sono quelle del cugino Agustin, che dal silenzio dell’ultimo letto prende parola per rivivere i pomeriggi d’estate, i libri dati in prestito alla chilenita, gli alberi su cui arrampicarsi, la difesa di una bambina che non sa di essere considerata colpevole perché appartenente a un altro luogo. La voce di Gariglio, l’amico d’infanzia del cugino, indistinguibili nella sua memoria, l’uno l’ombra dell’altro. La voce della prozia Nelida, la donna forte e silenziosa della famiglia che nascondeva piccoli enormi segreti.
Per tutto il periodo in cui Ania resta a Campana si ha la sensazione di un’attesa perenne – della morte, della scoperta di qualcosa di nuovo o di molto vecchio – e soprattutto l’impressione di una quotidianità sospesa in mezzo a personaggi fantasma, che ci sono ma stanno per non esistere più, che sono esistiti ma che sembrano ancora presenti, che ricompaiono sotto forma di ombre, di quaderni, di appunti o rumori.
Il sistema del tatto è un romanzo dalla costruzione ibrida, che ricorda in parte, dal punto di vista strutturale, L’archivio dei bambini perduti di Valeria Luiselli (la Nuova Frontiera, 2019). È fatto di narrazione ma anche di intrusioni fotografiche, di lettere sgrammaticate, di definizioni enciclopediche e di stralci di manuali e di documenti d’epoca che aiutano a conoscere il contesto della memoria in cui si muovono la protagonista e i suoi predecessori. Alcune pagine sono infatti dedicate al Manuale dell’emigrante italiano in Argentina del 1913 che contiene indicazioni e consigli, crudeli o commoventi, per chi si apprestava ad emigrare dall’altra parte del mondo, con l’intenzione di suggerirgli come comportarsi, come se le differenze culturali e geografiche fossero riassumibili in poche righe, come se l’integrazione fosse raggiungibile seguendo indicazioni scritte e non un percorso unico e complesso come dimostrano le pagine della storia familiare di Ania e della storia in generale.
E durante il proprio percorso di donna e di discendente di migranti e migrante essa stessa, senza meta da un punto all’altro della propria vita, prima della fine e prima di lasciare un posto che sa che non rivedrà più, la mente di Ania fa riflettere su come anche i vecchi manuali o le vecchie scatole di ricordi possono avere qualcosa da insegnare a distanza di un secolo.
Le piacerebbe fare delle aggiunte al manuale di Nelida. Delle avvertenze: non entri in competizione con il cane o con la moglie di suo padre, non si cerchi nelle fotografie appese alle pareti altrui, non viva la vita degli altri, non aspetti i morti dove nessuno li ha chiamati, si procuri un giardino e lo innaffi ogni sera, non consideri le montagne come incidenti geografici ma come diramazioni biografiche, pianga ai funerali altrui quanto ai propri, soprattutto ai propri, salga al piano di sopra come chi scala una vetta. Questo deve fare trovare il coraggio di salire di sopra e confrontare il ricordo con la rovina.“
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