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Se si volesse dire a cosa somiglia il monologo di Helen Moran, protagonista di Scusate il disturbo di Patty Yumi Cottrell (uscito per 66thand2nd annus horribilis 2020 nella traduzione di Sara Reggiani, e vincitore in patria del Whiting Award 2018), lo si potrebbe paragonare a una seduta dallo psicoanalista. Un flusso di coscienza che mescola fatti, impressioni, ricordi, oltre a una valanga di giudizi, facendo di Helen un narratore assolutamente inaffidabile, nonostante il suo soprannome al lavoro (fa la sorvegliante in una comunità di ragazzi problematici), “Sorella Affidabilità”. Una narrazione-fiume, lineare come tutte le indagini, e infatti a suo modo – a modo di Helen – lo è, ma non altrettanto fredda, per nulla imparziale. Gelida, semmai: una doccia d’onestà e d’autoironia.

Sul lettino di uno strizzacervelli potrebbe starci anche un matto ma tutto, in quel frangente, ha un senso; la sua storia non è mai stata più connessa e lui stesso, nel raccontarla, ne ride. Se autoanalisi è guardarsi l’ombelico, il gioco è scrutarlo come un insetto, e non si potrà che trovarlo buffo o disgustoso.

Così Helen Moran, trentaduenne di origini coreane, non si autocommisera né si dispera: i suoi singhiozzi sul divano nuovo Ikea della coinquilina, in uno schifoso monolocale senza bagno di New York, sono quasi comici, e d’altronde il mondo le si capovolge addosso come nel più crudo umorismo. Nel capovolgimento Helen, che tanto centrata non è, vede l’abisso: ma come biasimarla. È una giornata di fine settembre e suo fratello adottivo, un paio di anni più giovane, si è suicidato senza alcun preavviso. A darle la notizia è la telefonata di un parente lontano.

Ma perché l’ha fatto? Helen, che tutto sommato sembra conoscerlo bene, quel fratello senza nome – conquista solo un’iniziale alla fine del romanzo, e per giunta quando è lui a scrivere di sé – non se ne capacita, e lo sbigottimento si mischia alla curiosità morbosa e all’invidia, perché lui sì, ha avuto il coraggio. O non ha avuto quella forza che lei invece ha e che, come lei stessa dice, insisteva perché restasse in vita.

Parte così l’indagine: le ragioni che conducono al suicidio sono sei, ripete spesso Helen. L’avrà letto da qualche parte. Ma «sei era solo un altro modo di dire abisso». Se dopo aver appreso la notizia Helen torna a casa, nella cittadina di Milwaukee, Wisconsin (lo stato non viene mai citato, precipitando l’impronunciabile Milwaukee in un nulla comico e maledetto) è proprio per «guardare nell’abisso». Masochismo e catarsi. Non le interessa partecipare al funerale, discutibilmente cattolico, né offrire sostegno ai genitori, anche loro adottivi. Forse lo farebbe tanto per ricoprire il ruolo di Sorella Affidabilità, ma loro hanno ingaggiato un consulente del dolore – roba americanissima – e lei in quella casa «non da poco» non ha più un posto. Non parla con i genitori da anni. Dei genitori critica l’ossessione per il risparmio, il rigore di alcuni metodi educativi, forse la troppa semplicità, ma in fondo cos’altro, la scarsa comprensione? Tutti i genitori commettono errori e poi nemmeno lei ha saputo comprendere il fratello. Non hanno risparmiato negli affetti, adottando due bambini coreani che la notte sognavano di risvegliarsi bianchi.

Helen, che pure nei suoi discorsi spesso sbanda o appare impulsiva, compie, tornando a casa, una scelta lucidissima: sceglie di affacciarsi sulla zolla di terra dove è germogliato il dolore, suo e del fratello, e sembra ammettere che la colpa – anche se lei pur nel disprezzo costante cerca spiegazioni, non condanne – non è nella terra, e forse nemmeno nel concime né nelle piante circostanti, piuttosto è un dolore esistenziale. Le ragioni del suicidio, come le dirà poi qualcuno, sono sei più una ragione filosofica. Che non si sa qual è, ma ognuno può intuirla a modo suo.

Questo buco incomprensibile di dolore è l’«abisso», parola ricorrente nel romanzo, ma non quanto «adottivi» (351 ripetizioni). Il fratello non è mai solo “mio fratello” e i genitori mai semplici genitori. Un tic del linguaggio, una cantilena ossessiva che tradisce la personalità maniacale insieme alla volontà più che esplicita di sottolineare la propria distanza e non-appartenenza. L’espediente stilistico è riuscitissimo, e al lettore sembra davvero di entrare nella testa di Helen, di sentirla mentre si parla da sola, catalogando tutto, e non ne è mai infastidito. Sono le persone in particolare che non riescono a liberarsi degli epiteti, manichini nel mondo bidimensionale di Helen – i suoi ragazzi sono sempre e solo «problematici» e la coinquilina sembra finta, un tappabuchi sul copione, nient’altro e mai meno de «la mia coinquilina Julie».

Helen entra ed esce dalle parole e dai suoi stessi racconti: per lei “suicidio” è il «guscio vuoto di una parola che utilizzavo in relazione a mio fratello adottivo», insomma solo un altro modo di indicare una morte inaspettata; mentre gusci-rifugio sono le citazioni letterarie che occhieggiano a tratti, con le loro note discrete. Clarice Lispector, Thomas Bernhard, Kafka… Helen assorbe ciò che la circonda come una spugna (e poi butta fuori acqua sporca). Come quando, un tempo artista emergente, fu accusata di plagio, anche se lei non voleva copiare nessuno, solo «prendere parte alla conversazione». Ma può esistere una cosa del genere? Quand’è che uno spettatore, un inquilino, un figlio adottivo si trasforma in un parassita?

«Parte dello scopo della mia indagine era fare luce sulle lacune e le crepe, sui dettagli della sua esistenza che non combaciavano, sui particolari fuori posto eccetera. Mi sembrava di essere tornata a quando sbirciavo con la torcia nelle cuciture del mio materasso infestato di parassiti, tranne che al posto dei parassiti ora cercavo dettagli sorprendenti e imprevisti della vita di qualcuno, le stranezze. Qual era il principale motore della sua esistenza?, mi domandai».

Helen sogna un letto senza parassiti, una vita in cui sentirsi accolta, nonostante l’evidente schizofrenia o bipolarità. Vuole essere libera di stare al margine senza sentirsi di troppo, senza la nausea per quel suo corpo senza origine e scopo che nasconde sotto abiti salvati dai cassonetti. Il dolcevita nero che compra per il funerale e che tanto desidera è il lusso, morbido sulla pelle, di poter esibire il proprio dolore.

Anche se per Patty Yumi Cottrell, anche lei di origini coreane e adottata da americani, questo è un anti-memoir, c’è senz’altro del vero nella critica sociale che serpeggia nel libro. Lei sa cosa vuol dire apparire diversi, si schiera al fianco delle minoranze; nella bio in bandella si legge che ha scelto di identificarsi con il pronome “loro”. New York, per esempio, dove ha vissuto, è «una città talmente ricca da potersi permettere di finanziare la poesia, possiede anche le risorse necessarie per aiutare le persone a rimettersi in piedi, ma io propongo un nuova via, un approccio radicale che fa a meno dell’intromissione delle associazioni non-profit, del governo e di tutte quelle persone che, seppur mosse da buone intenzioni, non sanno cosa significhi essere voi».

Helen dice a un certo punto di aver fatto a pezzi la sua bussola morale, per sopravvivere: dietro l’immagine innocente di un’orientale in pantaloni cachi che tutt’al più rompe il dispenser delle salviette nei bagni dell’ufficio o si fa un po’ d’erba, non si può non intravedere, come nella controluce di un fulmine, un Joker disperato e sghignazzante sulla metro. L’emarginato fa paura, e la società si difende con l’indifferenza dall’odio e dalla troppa pietà.

«Scusate il disturbo», quindi. Una scusa che Helen formula con rabbia e che, in italiano, prende forza dalla doppia accezione della parola “disturbo”, che potrebbe essere anche quello mentale. Nessuno infatti, dopo aver letto le duecento pagine del romanzo, le risponderebbe mai “Quale disturbo?”. Lo schiaffo è il titolo originale, Sorry to Disrupt the Peace. Perché dopo aver inalato tanto male di vivere e ingiustizia, dopo aver odiato e amato Helen ed essersi domandati quanta gente è come lei, chiunque si chiederebbe piuttosto “What peace?”.

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