Vettori di divenire: prosaicamente: epifanie. Prosaicamente nel senso in cui il contesto di un bugiardino ci obbliga a scindere l’effetto dal processo. Se, prosaicamente, l’effetto è l’immagine – alla lettera: l’apparizione del nuovo, del mostro o dell’altro – noi qui osserviamo una cosa distinta e precedente: l’apertura improvvisa, il vuoto dello spazio, il buco.
Se osserviamo il processo siamo costretti a introdurre una temporalità propria ad esso. In narratologia si usa ormai, come fosse acqua calda, scindere il tempo della storia e il tempo del racconto – scindere, come ha insegnato Šklovskij, fabula e intreccio. Ora noi siamo costretti a introdurre, per quello che è – acqua calda, niente – un’altra temporalità, una interna al processo: il tempo della composizione.
Si tratta, in essenza, di una dimensione temporale dai contorni labili e cangianti: il processo muta. Ed è osceno pensare che questa temporalità debba interferire con le altre due, più canoniche, ormai cristallizzate: è una mescolanza di elementi interni ed esterni al testo che andrebbe nascosta, sotterrata, per buon gusto. Così, di fatto – prosaicamente – è andata, anche quando si è optato di mostrare gli ingranaggi segreti della narrazione: giustificare il
tempo performativo della composizione a priori o a posteriori, tuttavia sempre fuori dal testo (con post-scriptum o un prologo alla Borges, nel migliore dei casi), come appunto un’oscenità. Ma non c’è niente di più interno al testo di questo tempo, e il suo legame con la posizione della voce narrante è quanto di più essenziale e veritiero si dia nell’artificio della finzione. Si tratta dell’opera stessa in quanto divenire – ed è forse in questo punto che si precisa l’intuizione di Piglia in Formas breves, quando scrive che il venire fuori della vera voce del narratore è la condizione della chiusa di un testo (cfr. «Nuevas tesis sobre el cuento»).
Due esempi di opere recenti in cui l’interferenza del tempo della composizione con gli altri due è un elemento strutturale dell’opera: Twin Peaks The Return e Canti del caos. Due esempi classici: il ciclo epico cosiddetto omerico (le distrazioni omeriche); Il castello e Un medico di campagna (cfr. la posizione degli aiutanti di K. così come il narratore, e poi K. stesso, la riferiscono: sono uomini che attendono K. al Castello; o che lo raggiungono lì; che K. non ha mai visto; o che sono andati a scuola insieme a Frieda; cfr. i cavalli impossibili di «Un medico di campagna» – le oscillazioni kafkiane: gli «ingannevoli suoni del campanello notturno»).
Lacan, in una dimensione squisitamente extraletteraria, scopre per sempre (scusino la ridondanza in un bugiardino) il tempo della composizione in «Il tempo logico e l’asserzione di certezza anticipata» (Scritti, I): questo terzo elemento (tertium datur!) squarcia la bidimensionalità artificiosa e posticcia degli altri due; esso è all’opera, nei processi intersoggettivi, indipendentemente dalla consapevolezza degli agenti – come una possibilità; chi riesce a farne uso, cioè ad agganciarsi ad esso, è chi tematizza la sua esistenza, la sua interferenza con le altre due temporalità – chi si abbandona ad esso. E se è vero che «il ritmo artistico è un’infrazione del ritmo prosaico» (Šklovskij, «L’arte come procedimento»), riscriviamo la celebre tesi di Šklovskij: scopo dell’arte è squarciare la piattezza bidimensionale, posticcia, del tempo tematizzando il divenire stesso dell’opera, la temporalità del processo, abbandonandosi al tempo della composizione e del divenire.
Alfredo Zucchi, Sant’Anastasia (NA), agosto 2020
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