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James Joyce, in una lettera del maggio 1906 all’editore inglese Grant Richards, spiegava alcune motivazioni alla base di Dubliners, sostenendo che Dublino gli «pareva essere il centro della paralisi», là dove per paralisi si intendeva il laido immobilismo morale in cui sguazzava l’Irlanda in quegli anni e di cui la capitale sembrava essere un valido emblema. E ad aver speso quelle parole è un uomo che ha dedicato una parte considerevole della sua vita a scappare da Dublino e un’altra parte, altrettanto considerevole, a tornarci a colpi di letteratura, con opere ben radicate nella tradizione occidentale. Ancora oggi, il 16 giugno, si festeggia il Bloomsday: tanti appassionati si riuniscono per seguire passo dopo passo l’interminabile camminata di Bloom per Dublino, fermandosi in luoghi specifici a leggere brani dell’Ulisse (un fenomeno di massa, di orgoglio nazionale per la città, sottilmente in contraddizione nei confronti di un autore stabilmente canonizzato tra i classici, obbligatoriamente inserito nei programmi scolastici, ma davvero poco incline a venire incontro alla massa).
Probabilmente per John McGahern (Knockanroe 1934 – Dublino 2006) le cose non stavano del tutto così. Dublino magari è anche il centro della paralisi, ma soprattutto è solo un punto nevralgico nella mappa di una terra bagnata da una malinconia senza rimedio. Una terra osservata in punti diversi e raccontata con incredibile asciuttezza, con un’essenzialità che rivela una precisa e ricercata adesione alle immagini evocate. Per chi avesse il desiderio di accostarsene, una validissima sintesi dell’immaginario di McGahern, del suo modo di porsi nei confronti dell’Irlanda e della materia narrativa su cui lavora, si trova in Cose impossibili di tutti i tipi, una selezione di racconti recentemente proposta da Racconti Edizioni nella traduzione di Stefano Friani.
Forse, ed è un paradosso, non è il caso di parlare strettamente di racconti, e non perché il libro si discosti, nel suo più immediato offrirsi alla lettura, dal genere della narrazione breve. Il fatto è che invece di una scelta di testi brevi, a dir la verità, sembra di leggere una specie di romanzo frammentato in più situazioni che convergono in una sola direzione, perché unica è l’atmosfera che si percepisce pagina dopo pagina, dove la molteplicità delle voci si ricongiunge in una precisa sensazione fatta di amarezza, di fallimento, di conflitti irrisolti col passato; un doloroso disegno dell’Irlanda su cui pende una continua indecisione esistenziale, un senso di inevitabile sconfitta, di solitudine, di dubbio sul perché le cose siano andate in una certa maniera. «Il silenzio d’attesa del bar divenne troppo simile a un’eco del vuoto che percepiva attorno alla sua vita»: così si legge nell’ultimo racconto, il più lungo, Il funerale in campagna, storia del ritorno di tre fratelli, per un lutto, alla cittadina d’origine della famiglia materna.
Questi sentimenti così laceranti e gravosi non sfociano direttamente in un discorso a tinte sociali. La politica è quasi completamente assente, e non vengono fatti particolari riferimenti a momenti specifici della storia irlandese; tuttavia la fortissima conflittualità tra padre e figlio, che ritorna in più di una vicenda, non può non far pensare, più in generale, a un confronto con le generazioni precedenti, al fallimento, o al tradimento, di certe aspettative. In Orologio d’oro, forse il testo più bello della raccolta, la relazione della coppia protagonista comincia su Grafton Street, una delle vie più importanti e visitate di Dublino, e prosegue nell’appartamento della vicina Hume Street, proprio davanti al parco di St Stephen’s Green. Peccato che su questa giovane coppia che si proietta verso il futuro e pensa al matrimonio gravino i pessimi rapporti con i familiari, cioè col passato, specie per quanto riguarda lui. Il contrasto tra il protagonista (anche narratore) e suo padre è il vero centro del racconto. È in estate che il figlio va a trovare l’intrattabile genitore, residente in campagna con la seconda moglie. Qui non mancano scontri verbali, battutacce da parte del padre (che si dimostra molto indisponente con la ragazza, quando la conosce) e un risentimento che difficilmente si riesce a nascondere. Simbolo di questo rapporto gravemente usurato e in procinto di avviarsi alla fine è l’orologio d’oro del titolo. Si tratta di un vecchio orologio non più funzionante che il padre aveva ricevuto dal suo genitore, nel pieno rispetto di un rituale di passaggio di memoria, ma che non è interessato a tramandare al figlio. È quest’ultimo a prenderselo nonostante sia rotto (e il malfunzionamento di un oggetto familiare, per giunta necessario alla misurazione del tempo, suggerisce una volta di più l’idea di qualcosa che si è spezzato, di una continuità che è stata arrestata). L’orologio viene riparato grazie all’interessamento dell’ormai moglie del protagonista, ma durante l’ultima visita alla casa del padre, sul finire del racconto, il ragazzo mente a tal riguardo, affermando che sia ancora rotto. Non solo: da un viaggio in Canada ha portato un orologio da polso nuovo di zecca come regalo al padre, il quale pensa bene di buttarlo in una botte piena di acqua e solfato di rame. Il rituale è stato ribaltato (il dono viene dal figlio, non dal padre) e allo stesso tempo rifiutato, perché è ormai impossibile una qualsiasi forma di rapporto: «A scioccarmi fu che non provai né sorpresa né shock» dice scoprendo la fine che ha fatto l’orologio da polso, una scoperta che avviene in una notte fortemente illuminata dalla luna, avvolta da un fastidioso silenzio che pesa moltissimo e suggerisce non solo una totale estraneità dell’ambiente circostante alle dinamiche umane, ma anche la spettrale presenza della morte. «Stetti in quel silenzio illuminato dalla luna come aspettandomi qualche parola o verità, ma non ne arrivò nessuna, non ne arriva mai nessuna; e mi divertii a ripensare a quella parte di me che ancora si aspettava qualcosa, a starmene là fuori come un idiota in tutto quel silenzio illuminato dalla luna». Nessuna epifania porta un significato ultimo agli eventi, nessun cambiamento è possibile, a cominciare proprio dalle persone. Qualcosa si è interrotto per sempre, e ciò è dovuto principalmente alla rigidità del padre che non alla rassegnata presa di coscienza del figlio. Questa interruzione, o rottura, può essere portata avanti solo al prezzo di un’amarezza indescrivibile resa ancor più dura dall’indifferenza del tempo che procede inesorabile: «E quando infine calai l’orologio dentro al veleno, lo feci con tanta attenzione per non schizzare o increspare e disturbare la quiete, e il tempo, difficile sorprendersi, continuava a correre; il tempo che non doveva correre ad alcuna conclusione».
Si tratta di un racconto che sintetizza bene alcuni elementi su cui ruota l’economia del libro: una scrittura asciutta e diretta anche quando indugia su figure emblematiche, il ruolo della coppia, il tempo, la presenza della morte, la dialettica città-campagna (la Dublino centrale di Grafton Street e i campi in cui vive il padre) e quella padre-figlio su cui è stato il caso di dilungarsi.
Anche un’altra storia d’amore ha Grafton Street come palcoscenico principale, e pure qui l’uomo deve tornare in campagna a fare i conti con un padre sgradevole. La prospettiva è tuttavia un po’ diversa: in Sierra Leone, così il titolo, il protagonista ha una relazione con una donna già impegnata con un suo conoscente, ed è principalmente sull’impossibilità di questo legame di saldarsi in qualcosa di più importante che ruota la narrazione. Dall’altra parte, la vicenda del padre e della sua seconda moglie, Rose, a cui riserva atteggiamenti poco gradevoli. La fine dell’avventura amorosa («Fuori su Grafton Street ci separammo con facilità come due foglie spedite lontano da una qualche folata improvvisa») anticipa la triste occasione della scomparsa di Rose, che porta il protagonista a riflettere sul peso delle scelte, sulla varietà di opzioni che si aprono nella vita di una persona, su quale possa essere la strada giusta da seguire: «Tornai nella stanza per guardarla in faccia. Anche il suo viso era finito. Non mostrava più se era stata felice o infelice. Sarebbe stata più felice con qualcun altro? Chi può dire con quale persona si troverà la felicità o l’infelicità?».
Ancora la morte, ancora l’essere schiacciati dal peso delle scelte fatte e non fatte. È ammirevole la sicurezza con cui McGahern ha saputo prendere di petto la durezza della vita. Per quanto ogni novella sia intrisa di malinconia e di malesseri, per quanto il panorama offerto sia grigio come spesso è il cielo irlandese, non si ha mai l’impressione che la scrittura ceda al dolore, preferendo semmai guardare dritto negli occhi il problema. Le narrazioni di questo autore sono strettamente legate ai personaggi, si muovono in funzione dei movimenti, degli sguardi e dei rivolgimenti sentimentali dei suoi uomini e donne, e se alcuni di questi sono impossibilitati a uscire dalla condizione in cui si trovano, altri, pure se in balia di rimpianti e amareggiati dal sentimento della fine delle cose, sembrano non voler cedere del tutto e rispondere in maniera quasi rabbiosa. Così, nel finale del racconto eponimo, James Sharkey, di ritorno dal funerale dell’amico Tom Lennon con in testa il suo inseparabile cappello, è travolto dalla smania di cambiare, di recuperare quanto perso in passato, di raggiungere nuovi obiettivi, «e finché non si calmò, e rientrò a casa, la sua mente era corsa al desiderio di cose impossibili di tutti i tipi».
Le cose forse non mutano, specie in Irlanda, sembra suggerire McGahern, e lo stesso Sharkey, per quanto abbia la voglia di cambiare tutto non è lecito pensare che ci riesca. E probabilmente non è poi così importante saperlo. Perché a prescindere da quanto lontano possa arrivare una persona, da quanto gravoso sia il carico di rimpianti e angosce che porta con sé, è impossibile sfuggire alla micidiale morsa tra passato e futuro (e tra vita e morte) che accompagna qualsiasi esperienza umana. Prenderne atto non è un errore.

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