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Dall’estrema inquietudine di tipo analogico e oracolare che animava le prime prove (si pensi al «buio logico» e all’oltranzismo oscuro di Millimetri, che pure diventerà un libro di culto per molti poeti delle generazioni successive), la poesia di Milo De Angelis si è progressivamente spostata verso una orizzontalità di tipo discorsivo, inaugurata con maggiore chiarezza da Biografia sommaria (libro di incubazione decennale, e di straordinaria potenza espressiva, tanto da potersi quasi considerare un secondo decisivo esordio), fino ad assestarsi nella cifra tendenzialmente narrativa degli ultimi libri. Giunto a una fase più conciliante della piena maturità, l’ultimo De Angelis si è felicemente consacrato a una misura tonale sorretta da un dettato sempre più pianeggiante e da un parlato tanto affabile e schietto quanto concitato, abitato dai consueti agguati visionari e istanti solenni. Eppure non c’è stato nel tempo alcun cedimento – neppure di un millimetro, verrebbe da dire – a qualsiasi tentazione sentimentalistica o facilmente consolatoria, nessun abbassamento di tono, nessuna rinuncia a una pronuncia mediamente ‘alta’ nel nominare persino l’oggetto più usuale o la parola più comune e corriva. De Angelis è uno dei pochissimi autori italiani che riescono ancora a frequentare disinvoltamente una retorica sacerdotale, a utilizzare spudoratamente un lessico talvolta patetico, a parlare con una certa enfasi di «anima», «eterno», «infinita moltitudine», senza impaludarsi o trascinare il lettore avveduto nel poetese più stucchevole e ammiccante. Questa è la singolarità forse più riconoscibile e al contempo più sorprendente, ogni volta, della scrittura di Milo De Angelis che conferma, di libro in libro, il suo irriducibile statuto di poeta sostanzialmente tragico e sempre al di qua di ogni comoda appartenenza correntizia com’è stato, del resto, più volte evidenziato da molti rilevamenti critici.

Linea intera, linea spezzata è la naturale prosecuzione di un resoconto biografico, epico e quotidiano, che procede per paragrafi narrativi, piani sequenza, enunciazioni, dintorni elegiaci, ricognizioni diaristiche – nel solco perenne di un teatro della memoria insieme fisico e mentale in cui tendono a compenetrarsi incessantemente momento presente e momento passato. Il titolo è mutuato dai simboli dell’I Ching che diventano metafora dell’esistenza umana e del suo compimento, ma che sembrano suggerire anche una precisa linea di lettura della poesia stessa, capace di far coesistere simultaneamente presenza e assenza, ciò che è provvisorio e ciò che è permanente: condizione tipica, oltre che essenziale, della parola poetica di De Angelis, grazie soprattutto all’impostazione della voce che mantiene inalterato, negli esiti migliori di questo nuovo libro, il suo timbro pressoché inconfondibile. Luoghi, persone, cose, numeri (molto spesso scritti in lettere e non in cifre) sono infatti a portata di sguardo, puntualmente nominati, ma attraversati di continuo da una tensione che li trasfigura o li sposta verso una dimensione spaziale e temporale in qualche modo assoluta: «Tutto è come sempre, / ma non è di questa terra». Nella consueta alternanza di monologo e dialogo, il poeta si muove dentro e fuori il margine di una costante rivelazione, tende a convivere in piena luce con l’enigma, invece di interpretarlo. «Oscuramente» è un avverbio che ricorre, d’altro canto, con una certa frequenza nella poesia deangelisiana, quasi a sancire una corrispondenza mai del tutto decifrabile tra l’oggetto e il suo nome, tra le cose stesse che accadono e si ripetono, come la «storia sempre uguale» che «l’uomo con l’impermeabile» racconta «alla ragazza vestita di rosso che beve / dallo stesso bicchiere e sorride lievemente», negli ultimi versi di uno dei testi più felici della sezione eponima.

C’è sempre qualcosa di ultimativo e, insieme, di vagamente diacronico nei testi di De Angelis, anche nei versi che registrano con precisione sismografica un movimento in presa diretta o mettono in campo un gesto in apparenza pacifico e minimale, ma che si fa subito eroico, improrogabile e definitivo. Che sia, appunto, «un gesto / che sembrava un saluto ma è un addio» o «una collisione / che durerà per sempre» sulla pista di un autoscontro, il senso della fatalità è sempre tangibile e incombente. Persino «alla fine dell’ultimo trimestre», nel congedarsi dal liceo per le vacanze estive, aggirandosi nei corridoi diventati all’improvviso spettrali, il poeta sentenzia senza appello nel verso finale: «tutto è silenzioso per sempre».

Anche quando attraversa uno dei tanti paesaggi notturni della periferia milanese, popolati da figure reali e da fantasmi non meno reali, o descrive febbrilmente un gesto atletico o la corsa di un autobus, il poeta si mette sulle tracce di un destino, di una sostanza fatale a cui la parola si può accostare soltanto per approssimazione. L’allusione a qualcosa di già scritto, o che comunque precede la stesura definitiva, è un cardine ricorrente che si traduce fin dai primi libri nella ritualità delle ossessioni tematiche e delle varianti, delle reiterazioni e dei rimandi interni. Il richiamo ineludibile è molto spesso a un qualche contesto anteriore, originario, tanto imprescindibile quanto incommensurabile, trattandosi di «un tempo che hai misurato mille volte / ma non conosci veramente». Come lo stesso De Angelis, d’altronde, scrive nel corso di una dichiarazione di poetica: «I tempi si confondono. Il passato remoto si fa passato prossimo e poi infinito presente e futuro anteriore. Tutto è così presente da essere perduto. Tutto è così remoto da essere imminente». E così, per esempio, in Belle époque, per una sorta di cortocircuito storico, «Quando arrivi al gasometro tutto è pronto / per la visione», ma «ti ritrovi / in un altro tempo, all’improvviso, / tra due secoli».

Pur nella sua continua e stupefatta ricerca epifanica e nelle sue sconfinate esplorazioni, dunque, la poesia di De Angelis ha una peculiarità concentrica (anche questa più volte richiamata dalla critica) che finisce per condurci sempre e comunque «in quel silenzio frontale dove eravamo / già stati» (per citare uno dei suoi luoghi più celebri, e da cui non a caso proviene il titolo scelto dallo stesso poeta per l’autoantologia donzelliana congedata nel 2001). Forse c’è davvero un «disegno nascosto» o un «ordine che ci precede», come indica Eraldo Affinati – uno dei suoi lettori più fedeli e appassionati – nell’introdurre l’Oscar che raccoglie la produzione di De Angelis fino a Tema dell’addio: un ordine a cui il poeta obbedisce nell’atto stesso della creazione, se è vero che «si va a capo sotto dettatura» (ed è lo stesso poeta, in sede autoriflessiva, a ricordarcelo).

Aurora con rasoio, l’ultima delle quattro sezioni del libro, è un repertorio dei suicidi che costituisce un capitolo a sé stante sulla «serietà della morte», dove il verso si allunga ulteriormente per entrare nel dettaglio del vissuto terminale di ogni personaggio. La figura del suicida, più o meno esplicitamente, compare fin dall’esordio nella poesia di De Angelis (un testo – sopra tutti – esemplare è «T.S.», contenuto in Somiglianze), ma qui siamo più dalle parti di una Spoon River dai confini metropolitani. Ogni aspirante suicida, nella sua umanissima fragilità, presenta le sue credenziali eroiche e sembra essere mosso da un lucido intento programmatico, rinunciatario o liberatorio che sia, divenendo quasi un eletto, una specie di prescelto. In ogni poesia di questa sezione si avvertono contemporaneamente il passo della cronaca nera e la postura scenica. Non c’è nessun approccio pietistico: l’elemento tragico prevale, come sempre, sull’impianto emotivo. Un’aula giudiziaria, la corsia di un ospedale, il parcheggio di un aeroporto, la cella di un penitenziario o una camera fiabescamente carica di ricordi infantili, di echi e di presagi, fanno sia da ambientazione che da campitura introspettiva a queste vite interrotte in cui il risvolto più macabro e scandaloso, a volte, è che l’accesso alla morte avviene in punta di piedi, silenziosamente: «E allora facciamo silenzio, mio piccolo amore, slacciamo / i sandali, togliamo il braccialetto di cuoio: / chiuderemo la porta e scenderemo, scenderemo / con i nostri pochissimi anni nell’occulto che ci chiama, / mentre il pavimento prende il colore della notte, / scenderemo noi due, scenderemo noi soli, perderemo / la vita».

Una volta di più, «tutto è silenzioso per sempre». Rispetto però al nichilismo ragionato al quale giunge il suicida intervistato da Vittorio Sereni, con tutto il peso del suo disincanto, una diversa consapevolezza illumina i morti volontari celebrati da De Angelis, che in alcuni casi appaiono addirittura segnati antifrasticamente da uno spirito vitale o da una prospettiva, se non di rinascita, di continuità o di privilegio gerarchico.

D’altra parte, si può pure essere «suicida per amore della vita», come annota Guido Morselli nel suo diario. E l’atto del morire – oltre che un «infinito presente», come già in Biografia sommaria – può ancora una volta rappresentare, «nella stretta musicale di un abbraccio», un passaggio aurorale, l’inizio di un ricongiungimento. Quel «silenzio frontale dove eravamo / già stati», che la parola poetica può abitare soltanto transitoriamente, è forse lo stesso a cui saremo destinati, prima o poi, a tornare.


Libri citati:

Milo De Angelis, Linea intera, linea spezzata, Mondadori «Lo Specchio», 2021

Milo De Angelis, Millimetri, Einaudi, 1983; il Saggiatore, 2013

Milo De Angelis, Tutte le poesie (1969-2015), Mondadori «Lo Specchio», 2017

Milo De Angelis, Poesie, introduzione di Eraldo Affinati, Oscar Mondadori, 2008

Milo De Angelis, Dove eravamo già stati. Poesie 1970-1999, Donzelli, 2001

Milo De Angelis, Poesia e destino, Cappelli, 1982; Crocetti, 2019

Guido Morselli, Diario, prefazione di Giuseppe Pontiggia, introduzione e note di Valentina Fortichiari, Adelphi, 1988

Milo De Angelis, Biografia sommaria, Mondadori «Lo Specchio», 1999

 

 

 

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