La nonna non si alza da tre anni.
Sotto le lenzuola il suo corpo sembra sempre più corto, come quello dei neonati che non sono alti o bassi, ma solo lunghi o corti.
Le sue giornate sono scandite – sul vocabolario c’è scritto così – dai gesti che non riesce più a fare, ma di cui ha comunque bisogno. Deve essere svegliata, deve essere cambiata, lavata, pettinata, nutrita, deve essere distratta.
È mia madre a fare tutti questi gesti. A volte, quando è troppo stanca o troppo triste o troppo arrabbiata, vorrei farli io ma la nonna non accetta nessuno oltre lei.
Spesso la chiama mamma. Lo fa quando si sveglia di colpo e si spaventa, come di pomeriggio, o quando le fa male la pancia e vuole che la madre – mia madre, sua figlia – la aiuti a sentirsi meglio.
La chiama mamma anche di notte, quando ha paura e non vuole più essere aiutata, ma solo protetta, e le sue grida stridule ricordano a mia madre che non può tirarsi indietro.
Ogni mattina, quando viene svegliata per non lasciarla dormire fino a tardi, la nonna apre gli occhi e dimentica tutto della notte appena trascorsa. Di aver stretto forte la mano della figlia chiamandola mamma, di aver gridato aiuto e di aver pregato di morire, non ne sa più niente.
Guarda mia madre e la incolpa, le scarica addosso tutto il peso della sua condizione come se ogni dolore dipendesse solo da lei.
Lo fa con ogni parte del suo corpo, con una forza che mi chiedo sempre dove nasconda.
Per primi, gli occhi. Appena incrociano quelli di sua figlia diventano severi, esigenti, pieni di acqua e di rosso negli angoli. Basta che mia madre alzi troppo la tapparella per farli spalancare di colpo: spiano ogni movimento, giudicano ogni distrazione e puniscono ogni piega del viso che mostri stanchezza o nervosismo.
Poi, le mani. Rifiutano le carezze, graffiano i polsi delle infermiere, strappano i fazzoletti con cui le viene pulita la bocca. Si agitano senza nessuna idea di cosa stiano cercando e cadono in grembo stremate.
Poi, i capelli, che mia madre pettina in modo che la nonna si senta ancora quello che era. Ma appena le porge uno specchio lei li scompiglia, li intreccia, rovina tutto.
Solo dopo viene la bocca, quando mia madre è già troppo stanca per dare peso a ogni parola.
Cucinare il pranzo è diventata la sua pausa. La preparazione è lunga perché il cibo deve essere prima cotto e poi frullato. La mamma afferra il coltello più lungo e infilza il petto di pollo, lo sminuzza, lo butta nella padella. Prende una patata, una carota e una zucchina, le riduce in cubetti e le butta in un’altra padella. L’olio sfrigola e la cucina è piena di aria che vibra e scoppietta. Rovescia la carne e le verdure in una ciotola di vetro che prima usavamo per l’insalata, poi, poco alla volta, nel recipiente del frullatore. Preme il manico piegando le spalle e la schiena e mi sembra che ci metta tutta la sua forza, ma forse non è così.
Io di solito sono seduta alla mia scrivania, studio quello che mi hanno assegnato da studiare e aspetto che il pranzo sia pronto anche per noi, dopo la nonna.
Mia madre si avvicina e mi accarezza la testa e i capelli che mi scendono sulle spalle, perché sa che mi piace. Mi chiede come sto e io rispondo bene e lei mi dice che sono brava e che devo sempre impegnarmi per stare bene. Mi sorride e io noto tutto lo sforzo che ci mette. Voglio aiutarla ad aiutare la nonna, ma lei dice sempre di no, non è compito mio, io devo pensare alle cose della mia età. Quali sono le cose della mia età? Un giorno glielo chiederò, ma forse allora sarò troppo grande.
Io aiuto nel tenere in ordine la casa. Lavo i piatti e le posate, quando la mettiamo sbatto la tovaglia, raccolgo le briciole con la scopa. Mia madre si raccomanda sempre di stare attenta al coltello grande, ma ormai ho imparato a maneggiarlo bene.
Un giorno sì e uno no passo lo straccio sul pavimento della cucina e delle nostre camere, mai in quella della nonna. L’acqua che butto è sempre nera.
Pulisco anche le ante e i pomelli dei mobili in cucina, perché spesso restano unti e so quanto se ne vergogna mia madre, anche se è raro che qualcuno se ne accorga. Mi inginocchio per passare la pezza su quelli più bassi, poi salgo in piedi su una sedia per quelli più alti. Ce n’è uno che non riesco mai a raggiungere. È sporco, alcune macchie non verranno mai via.
Poco tempo fa un’anta si era rotta. La mamma aveva preso la cassetta degli attrezzi in balcone ed era salita in piedi su una sedia come faccio io. Avevo paura che cadesse. Aveva infilzato la vite e l’aveva inserita nel foro del perno. Un paio di volte le era scivolata, io l’avevo raccolta e l’avevo posata nella sua mano. Al terzo tentativo ci era riuscita e aveva avvitato stretto più che poteva, girando con tutte e due le mani.
Dalla camera la nonna aveva iniziato a chiamarla e lei aveva lasciato gli attrezzi sul ripiano della cucina. Il cacciavite ha il manico rosso e la punta d’acciaio a forma di stella. A volte, ci premo il dito contro per un po’ e fa male.
Prima di servire il pranzo alla nonna, mia madre prende una scatola di medicine, schiaccia due volte la protezione di alluminio – è un suono che mi riempie di tranquillità – posa due pillole sul tagliere, le riduce in polvere e le sparge nel cibo frullato. Dopo, la nonna dorme quasi tre ore e mia madre si può stendere sul mio letto. Queste sono le uniche ore in cui io e mia madre possiamo stare insieme, perché, per il resto della giornata lei deve occuparsi delle faccende di casa di cui non posso occuparmi io e la sera deve stare nella camera di sua madre per tenerle compagnia. Alla nonna stare da sola fa paura e fa rabbia.
Finita la cena – identica al pranzo – mia madre mi dà un bacio e se non è troppo stanca o troppo triste o troppo arrabbiata mi sorride. Poi entra in camera della nonna e si chiude la porta alle spalle. Io passo tutte le sere da sola, leggo molto, guardo fuori dalla finestra.
Mia madre non mi chiede mai cosa penso, ha paura che sia qualcosa di non adatto alla mia età. Quando siamo insieme è lei che mi spinge a pensare a cose che non penso mai da sola. Mi chiede in che paesi vorrei viaggiare, quali frutti vorrei assaggiare, se mi piacerebbe più avere un cane o più avere un gatto.
Io non so rispondere a queste domande ma mi piace immaginarle e lei ride con me e il suo viso si distende e si rilassa. Allora rido anche io il più possibile, come la bambina che lei vorrebbe. Le chiedo di accarezzarmi la testa e i capelli, perché so che le piace.
Una mattina sono venuti due medici. Uno dei due è il vecchio medico che ci segue da anni, da quando ero piccola ma anche da quando io non c’ero.
La nonna si fida solo di lui, anche se ormai è calvo e ha il collo come quello dei polli. Nell’ultimo anno lo abbiamo visto poco, ma durante le sue visite la nonna sorride e parla bene, fa di tutto per sembrare sana.
Il vecchio medico è venuto solo per accompagnare l’altro medico – più giovane di lui, più alto e meno grasso – perché in realtà lui non può fare molto per mia nonna, non ha mai potuto.
I due medici e mia madre si sono chiusi nella camera della nonna. Io sono rimasta fuori, ho origliato per un po’ senza capire bene e allora sono tornata a finire i compiti. Poco dopo mia madre ha accompagnato i due medici alla porta d’ingresso. L’ho sentita salutare. Hanno salutato anche loro, ma con il tono di chi chiede scusa, il portone si è chiuso e non ho sentito più alcun suono. Poi, i passi di mia madre lenti verso la mia camera, fin dietro di me. Mi ha poggiato le mani sulla testa e ha fatto un lungo sospiro, così io ho capito che il medico giovane non è venuto a fare qualcosa ma solo a spiegare che non c’è più niente da fare.
Di notte, quando penso che tutti dormono, trovo il coraggio per fare qualcosa che non ho mai fatto. Esco dalla mia stanza e raggiungo a piedi nudi quella della nonna. A ogni passo trattengo il respiro perché so che svegliarla nel cuore della notte vuol dire non chiudere più gli occhi.
Afferro la maniglia di ottone e la stringo forte per non farla cigolare. Apro la porta poco alla volta, quel tanto che basta per fare capolino, poi entro con tutto il corpo. Nella sua camera, oltre al letto movibile, c’è una brandina dove dorme mia madre, ma ora è vuota. La nonna russa. Resto immobile a guardarla.
Accosto la porta e cammino verso la cucina. Mia madre è seduta con gli occhi chiusi, i capelli sciolti come non li porta mai, una sigaretta accesa sul posacenere.
Appena si accorge di me – cosa fai sveglia? – apre la finestra per scacciare il fumo grigio. Mi sembra che il suo viso stia per sbriciolarsi, mi siedo accanto a lei e sono io ad accarezzare i suoi capelli. Mia madre resiste per un po’, poi lascia cadere le spalle e poggia la testa sulle mie ginocchia. Sento tutto il suo peso. Con un filo di voce mi chiede scusa. Le dico che dovrebbe riposarsi e pensare a sé stessa e, anche se non capisco bene il senso di queste parole, mi sembrano giuste. Penso che sia proprio questo che non vorrebbe, quando mi spinge a pensare a cose della mia età.
Continuo ad accarezzarla fino a quando si addormenta e, allora, mi appoggio sopra di lei.
La mattina dopo, mia madre mi fa una richiesta che non mi ha mai fatto: vuole che inviti una mia compagna di scuola a pranzo. Io non voglio, ma lei insiste e allora accetto. Per me è molto difficile scegliere chi invitare, ma non voglio deludere mia madre. Mi sforzo di immaginare quale compagna sia adatta: Michela vuole correre e giocare ovunque, Giulia ha paura di ogni cosa, Paola racconta i segreti di tutti a chiunque. Silvia invece è una ragazzina silenziosa, mangia poco e non piange quando viene sgridata. Non so come dovrei invitarla e allora glielo chiedo e basta – vuoi venire a pranzo a casa mia? – e lei dice di sì con la testa e aggiunge che deve avvisare a casa sua e anche io le rispondo di sì con la testa. Torniamo insieme a piedi senza mai guardarci, parliamo dei voti di questo o di quello.
Quando arriviamo a casa il pranzo è già sulla tavola. Dalla camera della nonna non arriva nessun rumore e allora capisco che lei ha già mangiato. Mia madre fa molte domande a Silvia, se le piace la scuola, quale materia preferisce, se pratica qualche sport. Lei risponde in maniera gentile, prima di iniziare a parlare fa sempre di sì con la testa. La mamma mi guarda per spingermi a partecipare, allora mi sforzo di dire qualche parola – anche a me piace scienze.
Riponiamo i nostri piatti sul lavello, poi la mamma ci invita a giocare un po’ prima di fare i compiti. Io sono in imbarazzo perché non so cosa proporle e allora le chiedo come passa il tempo a casa sua. Lei mi racconta che le hanno regalato molte bambole, anche se a lei non piacciono più così tanto, e ora non sa più quale scegliere. Nemmeno a me piacciono le bambole, le confido. Silvia mi risponde con un piccolo sorriso.
Ci sediamo alla mia scrivania per studiare. La scosto dal muro, in modo che possiamo sederci entrambe, e tolgo i miei libri per farle spazio. Una di fronte all’altra, con la testa china sugli esercizi. Le chiedo se vuole un bicchiere d’acqua o una mela, lei risponde sì grazie per educazione. Ogni tanto la mamma si affaccia e ci chiede come va, noi muoviamo le teste quasi all’unisono e diciamo tutto bene. Quando chiudiamo i libri, Silvia guarda l’orologio e mi avvisa che deve tornare a casa. Usciamo in corridoio e lei si ferma a osservare la porta chiusa della stanza della nonna, vorrebbe chiedermi perché è l’unica che non le ho mostrato, ma non lo fa. Io e mia madre la guardiamo mentre prende l’ascensore. Lei mi mette una mano sulla spalla come se fosse contenta di me e mi dice hai visto? Ti sei fatta un’amica. Io non capisco a cosa si riferisce ma annuisco e le stringo la mano.
Qualche settimana dopo, arriva il compleanno della nonna. È l’unico giorno felice dell’anno, la porta della sua camera resta aperta e lei mi permette di entrare per tenerle la mano e farle gli auguri. Le bacio una guancia, lei mi stringe con tutte le sue forze, anche se io non sento niente.
Io e la mamma le abbiamo comprato un regalo. Non è stato facile, perché la nonna odia gli sprechi e per lei niente è necessario. Dopo averci pensato a lungo abbiamo deciso per una nuova camicia da notte, perché la sua è tutta consumata e quindi non avrebbe potuto dirci che non ne aveva bisogno. È lilla, piena di piccole margherite. È molto calda e comoda. Speriamo che la nonna, avvolta in questa camicia, si senta amata.
Io la aiuto a scartare il pacco, mentre la mamma taglia una fetta di torta per ognuna di noi. A me non piacciono i dolci, ma so quanto lei voglia festeggiare questo giorno come desidera. D’altronde, ogni anno, penso sempre che sia l’ultima volta che devo farlo. Dopo, sarò libera di non mangiare dolci mai più, a nessuna festa di compleanno.
Abbiamo passato una buona giornata, la nonna non ha mai offeso la mamma e non ha mai urlato di rabbia o di disperazione. Eppure, ora che la giornata volge al termine, sembra tutto svanito: la nonna è più triste del solito e la casa ancora più buia di quanto non sia stata prima.
Allora, mi sono fatta una promessa: anche se mia madre non vuole, io non posso continuare a vivere come se questo male non fosse anche il mio. Penso che la nonna dovrebbe andarsene. Lasciarci sole e permetterci di vivere senza la paura di aver sbagliato ogni cosa. Tutte le persone dovrebbero comportarsi così, scegliere il momento giusto per salutare e incamminarsi per una via che sono gli unici a conoscere. A volte mi viene il dubbio che dovrei accompagnarla verso questa via, perché forse aveva dimenticato come raggiungerla. Oppure, dovremmo essere io e mia madre ad andare via e mia nonna non soffrirebbe più, senza nessuno ad ascoltarla.
Da quel momento è passato un altro anno, e io sono entrata in camera della nonna ogni notte. Non è più capitato che mia madre non ci fosse. Quando apro la porta, sento i loro respiri che si fondono. Non capisco quale dei due insegua l’altro, ma lì dentro, al buio, non riesco più a distinguerli. Cerco di respirare alla loro stessa velocità, ma finisco sempre fuori tempo.
Resto ferma, in piedi. Solo una volta mi sono seduta sul bordo del letto della nonna, perché la brandina di mia madre è così piccola che l’avrei svegliata.
Ho allungato una mano sul suo volto, sopra la sua bocca, l’ho ritratta quando ho incontrato il suo respiro gelido, per paura di restare intrappolata.
Passo le notti a guardarle, prima l’una e poi l’altra. Mi viene voglia di toccarle, stendermi sopra di loro e dormire tutte insieme, ma sembrano due statue di pietra e non voglio sentire freddo.
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↔ In alto: foto Louis Hansel / Unsplash.
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