La prima musica da grandi che ho scelto me la ricordo, avevo nove o dieci anni. Ogni mattina dai sedili posteriori del pulmino per la scuola aspettavo di vedere la macchina di papà che faceva i fari, io scendevo di corsa giurando che quello era proprio un mio genitore e mi precipitavo in macchina. Ecco, queste mattine avevano due costanti: il succo di frutta alla pesca e la colonna sonora. Mio padre mi lasciava scegliere la musica per il viaggio, e io procedevo alla liturgia: prendevo il cd Giubbe Rosse di Franco Battiato, lo infilavo nell’autoradio e mandavo avanti fino alla seconda traccia, Alexander Platz, da ascoltare in loop, «come vera principessa prigioniera del suo film».
Se da ragazzina le suggestioni mi cullavano senza una reale comprensione e cantavo per puro esercizio di lingua, da adulta ho ritrovato quelle canzoni quando guardavo a oriente, studiando e viaggiando, immersa nei resoconti sognanti di vita coloniale, fra esploratori e scrittori sbandati, spezie, mistici e mevlevi. In certe strofe sembrava quasi di leggere brani di un mistico sufi, il Mathnawī di Rūmi per esempio: «ho consumato la mia vita, respiro dopo respiro; ho consacrato la mia vita alle note acute e basse».«Vivere più a sud per trovare la mia stella, e i cieli e i mari, prima dov’ero?» canta Battiato in Giubbe Rosse, chissà se le stelle sono le stesse che sognava Isacco di Ninive il nestoriano, il mistico cristiano così amato dai levantini, che passeggia tra le rive dei due fiumi della Mesopotamia, terra e canzone; chissà se anche lui dormiva «su un sacco a pelo per non perdere i contatti con la terra».
«Anch’io a guardarmi bene vivo da millenni», venendo dritto dalla civiltà più alta dei sumeri: ecco il tutto che si compie nell’eterno samsara di morte e rinascita, Battiato lo fa dire pure a Eraclito in greco nell’intro a Di passaggio: «è la medesima realtà il vivo e il morto, il desto e il dormiente».«Cosa resterà di me, del transito terrestre? di tutte le impressioni che ho avuto in questa vita?» si chiede in Mesopotamia, in cui aspira alla «mente illuminata» come quella nell’Odissea di Nikos Kazantzakis, «mi fa pena la stirpe umana sballottata del vento, / e le arti che escogita per opporsi alle Morte!»
Come un instancabile Ulisse, in viaggio nella valle tra i due fiumi ci va davvero, primo artista a forzare l’embargo in Iraq per il concerto a Baghdad nel 1992. All’indomani di Desert Storm, suona al Teatro nazionale di Baghdad diretto da Giusto Pio, Antonio Ballista e Mohammad Othman. Attacca il concerto con L’ombra della luce, ma in arabo classico; gliela traduce Ali Rashid all’epoca portavoce dell’Olp in Italia. Ha l’aria di essere quasi una preghiera: «difendimi dalle forze contrarie, la notte, nel sonno quando non sono cosciente, quando il mio percorso si fa incerto». La canta seduto, circondato dall’orchestra irachena. «Ah! Ricordarmi il modo tonale e il ritmo dell’Iraq mi ha velato il momento amaro in cui occorrerà lasciare questo mondo», scriveva sempre Rumī, che ha navigato la Mesopotamia fino alla Turchia, dando vita a quella mevleviyè sufi dei dervisches tourners «che girano sulle spine dorsali» di Voglio vederti danzare. Si avverte allora la tensione al misticismo, allo spazio del sogno, quell’anelito di riparo nel trascendente. La perfezione è il riposo mentre «sfilano lontane carovane» in Serial killer, vagheggiamento di un fauno con le bombe a mano a tracolla: «non avere paura perché porto il coltello tra i denti e agito il fucile come emblema virile. Non avere paura della mia trentotto che porto qui sul petto. Di questo invece devi avere paura: io sono un uomo come te».
Corteggia i classici, Battiato, il proemio dell’Iliade non accompagna più le solide mura di Troia coi greci alle porte, ma i profughi afghani «che dal confine si spostarono nell’Iran», e il cantami, o diva non è una preghiera sull’ira del figlio di Peleo, ma un’invocazione all’erotismo dei nativi americani: il collage di canzone e poesia da Omero ai Rolling Stones si completa in Cuccurucucù. Se Franco Battiato fosse una casa editrice, sarebbe Adelphi: con quella loro idea di viaggio come cura, sempre a est sulle tracce dei vecchi affari coloniali come William Darlymple, o tra i ghiacci di Fergus Fleming. Il viaggio epico e brutale è quello di Shakleton, cantato come «una catastrofe psicocosmica», una missione di salvataggio nella Georgia australe del 1916 per salvare dai ghiacci l’equipaggio abbandonato, «mentre i 22 superstiti dell’isola Elefante sopportavano un tremendo inverno». Non è un caso che Battiato considerasse Roberto Calasso tra i migliori scrittori italiani, quelli che avrebbero superato la prova del tempo, e grazie a lui il cantante ha conosciuto Fleur Jaeggy che sarebbe stata autrice di alcuni suoi testi, quello in tedesco di Oceano di silenzio oppure Splendide previsioni, o proprio Shakleton tra le tante.
Trova un senso il verso «Gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori della dinastia dei Ming» in Centro di gravità permanente quando finalmente nei miei studi approdo alla missione gesuita in Cina, seguendo le orme dei cristiani nestoriani di quell’Isacco di Ninive cantato in Mesopotamia. Il gesuita Matteo Ricci, in Cina nel sedicesimo secolo, in effetti vestiva come un bonzo buddhista per farsi ricevere a corte: fu lo studioso confuciano Qu Taisu a consigliargli di abbandonare quelle vesti e indossare l’abito degli intellettuali, introducendolo nella ristretta élite dei mandarini.
«Per terre ignote vanno le nostre legioni a fondare colonie a immagine di Roma, Delenda Carthago, con le dita colorate di henna su patrizi triclini si gustano carni speziate d’aromi d’Oriente» canta Battiato, palesandomi di fronte le legioni che su ordine del Senato – Ceterum censeo Carthaginem delendam esse – annientano Cartagine. E davvero di Cartagine non c’è più traccia ora, solo qualche villa di lusso, piscine e campi da tennis in mezzo ai rimasugli e ai cocci, dove prima regnava la schiatta di Annibale. Le carni speziate d’aromi d’Oriente sono ancora là, e a Cartagine si arriva con la TGM da Tunisi; il trenino continua fino a La Marsa, dove ho trovato una libreria zeppa di meraviglie d’erudizione e orientalismo custodite da un libraio di rara grazia.
Ha ragione Battiato quando canta «nei villaggi di frontiera guardano passare i treni, le strade deserte di Tozeur», le strade sono ancora deserte tra oasi di palme che resistono ai secoli e dromedari di passaggio, nessuno a fare trainspotting ora che le cave di fosfati sono rimaste abbandonate. Ci sono poi stata a Tozeur, i treni quasi non passano più.
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↔ In alto: illustrazione © Florinda Giannino.
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