Vita e morte sono legate indissolubilmente da un rapporto di esclusione. Se c’è vita non c’è morte e viceversa. Si arriva a farsene una ragione quando si è consapevoli dell’assenza di una o dell’altra, ma quando regna l’incertezza della presenza di entrambe allora le cose si complicano per chi resta ad aspettare.
«Io, nella mia giovinezza, pensavo di continuo alla morte. La mia, quella degli altri. Se pensi molto alla morte pensi anche molto alla vita, diceva nonna Fabrizia.»
In Atti di un mancato addio, prodotto della giovane penna di Giorgio Ghiotti e pubblicato da Hacca nel 2021, chi aspetta è Edoardo, voce narrante del romanzo, insieme agli amici Cecchi, Massi, Trottola, Roberta e Mastino. Attendono il ritorno di un amico amato, Giulio, che un giorno è sparito, incamminandosi sulla via Tiburtina, senza più tornare e senza che nessuno lo vedesse.
L’incertezza di non poterlo piangere ma di non poterlo neanche vedere e vivere costringe amici e familiari in un limbo di tristezza e speranza che sospende il tempo.
«La scena era ridicola. Massi perdeva tempo, girava intorno. Le cose tristi che accadevano agli altri lo rendevano timido.»
Tra i quartieri di San Lorenzo e di Monteverde, la città di Roma assiste a questa sparizione, accompagnando i ragazzi con i suoi scorci e monumenti più belli. Talvolta togliendo un po’ di tristezza dai loro occhi, in altri casi aggiungendo malinconia. I ricordi, legati indissolubilmente ai luoghi, scorrono come un fiume, in una sequenza di scene dal sapore poetico ed estremamente evocativo, dove spesso realtà, immaginazione e introspezione diventano tutt’uno.
«Giulio è caduto al suolo come cade una statua. Aveva ancora le mani nelle tasche quando l’ho raccolto. Era talmente leggero, un legno rotto a galla sul mare. Sembrava uno di quei manichini nella vetrina dell’Upim. Ho iniziato a gridare perché aveva delle ferite secche sul collo e dei lividi sui polsi.»
Il grido disperato di Edoardo è espressione di un sentimento provato nei confronti dell’amico scomparso che va oltre la semplice amicizia. Si tratta dell’amore, di quello puro, che porta il giovane a visualizzare le fattezze di Giulio in molti angoli della città. Sensazione che si ripete anche per il suo primo amore Matteo. Edoardo vive un amore non corrisposto anche con quest’ultimo che spesso si inserisce in modo evanescente nel racconto. Giulio e Matteo sono rispettivamente il presente e il passato, due sentimenti che la voce narrante non ha avuto occasione di vivere completamente.
Ghiotti concepisce l’opera in due “atti”, Il Branco e Sparire, costruiticon lo stesso punto di vista narrativo e incentrati sulla medesima persona, ma che pongono il focus su due aspetti diversi della vicenda.
Nella prima parte del romanzo, Il Branco, l’autore delinea, infatti, le figure degli amici di Edoardo, quella comitiva formata da Massi, Cecchi e Trottola, in un modo che lascia intendere anche la presenza di Giulio e la sua esistenza, ma senza parlarne direttamente. Un po’ come se questi personaggi costituissero il bordo di una maschera che, come un negativo, crea il contorno della figura di Giulio. Una narrazione sospesa, fatta di pause e di digressioni, come a «perdere tempo» per dirla alla maniera di Massi.
Vediamo Giulio nei racconti di Edoardo, nei suoi ricordi, nel suo disperato tentativo di individuare il suo amico. Lo ritroviamo in ogni faccia intravista ai margini di Roma, lo rintracciamo anche nelle battute di Cecchi, di Massi, di Trottola e nel viaggio a Bologna sulla tomba di Lucio Dalla.
Nel secondo atto, Sparire, l’autore pone la figura di Giulio sempre al centro, ma stavolta lo fa in maniera più incisiva. Si possono definire le sembianze del ragazzo in modo più preciso, soprattutto grazie alla serie di azioni che seguono la sua scomparsa e che vengono descritte con più dettagli, pur mantenendo tutta la poeticità di una storia raccontata da un punto di vista estremamente personale e introspettivo.
L’incontro con i genitori di Giulio a Santa Maria, paese natale del ragazzo, è il primo passo concreto verso la certezza che qualcosa deve essere accaduto, il primo tentativo di metabolizzare un non ritorno.
Poi avviene il miracolo: la comparsa di Fatima, la ragazza amata da Cecchi, apparsa sulla porta di casa con «quel guscio rotto schiuso da un anno»: un bambino.
Per un attimo la speranza prende il posto della tristezza, facendo spuntare un raggio di sole in mezzo a una tempesta. Un bambino, una nuova vita da vedere, da toccare, da poter “reimpostare”.
Il nome scelto per questa creatura che sconvolge l’esistenza del gruppo degli amici romani è Giulio, soprannominato “Giulio piccolo”. Senza creare una vera e propria sostituzione, ma quel poco che basta per evocare un’esistenza passata attraverso una nuova vita, così da sperare in una sorta di reincarnazione, affinché chiunque possa vedere nel nuovo qualcosa del vecchio.
«Eccola comparsa nel mondo questa tua forma bambina, questi chili umani tutti occhi e domande e obiettivi: raggiungere una sedia, catturare l’oggetto (la preda) del momento. Rifiuto l’idea che è solo un nome, per giunta arbitrario come sempre le parole, a unirvi.»
Il doppio registro che Edoardo utilizza, parlando inizialmente di Giulio in terza persona e poi rivolgendosi direttamente a lui, crea un effetto di entrata e di uscita del soggetto nel racconto stesso. Questo espediente provoca il medesimo effetto nel lettore che, in un primo momento, si sente coinvolto in un dialogo che ha per oggetto Giulio e successivamente viene violentemente escluso da esso come se il ragazzo scomparso arrivasse e prendesse improvvisamente parte alla conversazione, attirando di colpo tutta l’attenzione su di sé.
Tra le tante narrazioni che passano davanti agli occhi del lettore ne emerge una al di sopra di tutte: il tentativo di non lasciar andare una persona amata nell’incertezza della sua vita o della sua morte, ma nella certezza della sua assenza. Il “mancato addio” come la fine che non c’è stata e non si sa se ci sarà: una storia infinita.
Lo stile poetico del romanzo aiuta questa dimensione onirica e introspettiva a esprimere se stessa, ma la forte componente folkolristica – data dai riferimenti alla canzone popolare e Lucio Dalla, da Nina che viene trovata nel fiume come la Ninetta del Barcarolo sul Tevere e l’esperienza quotidiana della vita romana – riporta alla realtà che è relativa per ognuno e alla consapevolezza dell’esistenza di un’esperienza di memoria collettiva che ha come oggetto luoghi, elementi e soprattutto persone.
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