Non c’è generazione in Italia senza almeno un liceale con una copia sgualcita di Delitto e Castigo tra le mani. Non c’è film o serie tv in cui il protagonista, se serio e riflessivo, non venga inquadrato su una panchina con gli occhi fissi su Guerra e pace o su Le anime morte. Non c’è club del libro o gruppo di amici in cui il solo nominare Anna Karenina non susciti più di un sospiro. E non c’è corso di sceneggiatura o di scrittura creativa che non citi prima o poi il fucile appeso al muro che, secondo Čechov, non può astenersi dallo sparare.
Čechov, Dostoevskij, Tolstoj, Gogol’. E poi Esenin, Majakovskij, Blok, Pasternak, Mandel’štam.
Non esiste probabilmente una letteratura che, al pari della russa, susciti tanta ammirazione collettiva a livello internazionale. Diciamo i russi con una disinvoltura con cui non diremmo mai i tedeschi, i francesi, gli americani o tantomeno gli italiani. Non ammettiamo che gli scrittori di queste letterature occupino lo stesso spazio simbolico collettivo. Con i russi, invece, lo facciamo. Non del tutto a torto, ma nemmeno del tutto a ragione. Eppure, più o meno razionalmente, la Russia letteraria e un magnete potente e attrattivo, un luogo da osservare, da ammirare o temere, verso il quale tendere o al quale attribuire lati oscuri che proviamo ad allontanare da noi stessi. Tiziano Bisi, nel suo Dalla via Emilia a San Pietroburgo (Quodlibet, 2021), mette insieme un po’ tutte queste cose in un libro di difficile collocazione tra il reportage, il diario letterario e gli echi del romanzo picaresco.
È il racconto di un viaggio mistico un po’ scalcagnato che il narratore/autore ha compiuto partendo dalla sua Bologna, attraverso l’Est Europa e giungendo a San Pietroburgo, ma anche oltre. Fino al profondo nord per giungere ai limiti estremi dell’enorme corpaccione della Federazione russa. Quello di Bisi in realtà non è un singolo viaggio, ma la summa di diverse peregrinazioni e di diverse suggestioni, tutte legate dalla Russia. Lo raccontano al meglio le parole dell’autore, con cui abbiamo fatto una chiacchierata:
«Parte della mia vita e il libro Dalla via Emilia a San Pietroburgo sono un tutt’uno indivisibile. Io mi sono messo in viaggio nell’Est Europa proprio per scriverlo, questo libro. In sostanza, ho deciso di scrivere Dalla via Emilia a San Pietroburgo per poter vivere quello che ci avrei scritto.
Posso dire di avere esplorato, per circa un decennio e in una modalità on the road – a bordo di treni, pullman, in autostop e a piedi – buona parte del mondo, cosiddetto, occidentale. Esaurito il quale, mi sono diretto verso l’Est Europa. Nel 2007 sono arrivato in treno a Budapest. Poi, sempre in treno e in pullman, è stata la volta di Kiev, Cracovia, Varsavia. Nel 2008, con un viaggio in treno di quattro giorni sono arrivato a Mosca. E a Mosca ho comperato un biglietto di seconda classe per Vladivostok, sul mare del Giappone, novemila chilometri più a Est.»
Di questo vagare scomposto Bisi non fa segreto. Ci accompagna per le città che ha visitato, portandoci con sé a bordo di quei pullman e treni, senza nasconderne le scomodità e le spiacevolezze, senza lesinare su quei dettagli da nulla che sono ciò che rende vivo e reale un racconto di viaggio. Le storie del suicidio indotto del poeta Sergej Esenin o delle deviazioni dall’ortodossia del romanziere Maksim Gor’kij abitano le stesse pagine degli aneddoti su gente incontrata e mollata dentro stazioni di servizio o di affittacamere fraudolenti. E nessuno di questi elementi sembra fuori posto vicino agli altri. Ad avviso di chi scrive, le pagine più belle del libro arrivano quando la vecchia capitale zarista è lontana più di mille chilometri. Quando accompagniamo il protagonista in un viaggio verso Murmansk, dove la Russia e la sua identità si avvicinano alle estreme propaggini della Norvegia. Così lontano dai suoi sogni e dalle sue proiezioni, il Bisi di carta e inchiostro si spoglia un po’ della sua corazza da bohémien marinettiano, sarcastico e incendiario, e cede a un’umanità non priva di tratti romantici.
Tuttavia, come il titolo precisa, il vero fulcro di tutto è San Pietroburgo; Piter, come la chiamano i suoi abitanti, la città voluta da Pietro il grande, strappata con violenza e un po’ di hybris alla natura avversa e sorta sul sangue di chi è morto per erigerla. Molto più di Mosca, capitale medievale, poi sovietica e infine attuale, San Pietroburgo nel suo lungo interregno è stata la città zarista per eccellenza, quella visitata dagli ufficiali d’alto rango e abitata da quel ceto impiegatizio che ha popolato i romanzi dell’epoca d’oro del romanzo russo.
Sempre Bisi:
«Si tratta di una città divisa in rajon, quartieri letterari. Dostoevskij lo trovi, ancora oggi, in Sennaja ploschad’, la piazza Sennaja. Questo quartiere, sin dall’Ottocento, è soprannominato il “Triangolo delle Bermude”, perché ci sono delle forze demoniache che lo governano. Qui, può darsi che nevichi, eppure, nel medesimo istante, a nemmeno un chilometro di distanza, per la prospettiva Nevskij, dove si aggirano ancora oggi le carrozze e gli impiegati, i chinovniki, di Gogol’, splende il sole. Un sole, quello di Gogol’ e quello che bacia la città di San Pietroburgo nelle notti bianche, freddo, disturbante. Un sole che piuttosto che rivelare, confonde. Girato l’angolo, a circa metà del viale Litejnyj, ecco Anna Achmatova, che ci narra, oggi come ieri, la storia della città come una concatenazione di orrori. Più in là, nella via Rubinshtejna, in mezzo a tutto quel baccano, è sufficiente un istante di silenzio, per accorgersi che c’è ancora Dovlatov, seduto al tavolino di un bar, a raccontarci di vodka, rogne, vicende assurde. Mentre alla fine della prospettiva Nevskij, oltre il ponte sulla Neva, si spalanca l’isola Vasil’evskij. Laddove lui avrebbe voluto morire, c’è l’anima di Brodskij».
Come detto dall’inizio, quello di Bisi è un libro che viaggia contemporaneamente su due binari, quello delle evocazioni letterarie e quello della vita vissuta. Due binari che non corrono paralleli, ma si incontrano e si annodano in vari punti, all’ambiziosa ricerca di quell’anima russa che l’autore definisce «incomprensibile, inavvicinabile, per la nostra ragione filosofica e scientifica, cartesiana» e che forse va cercata altrove rispetto al solito.
«Il piombo è ciò di cui io vado in cerca, come un novello alchimista. Il segreto del mio viaggiare è tutto qui: tramutare il piombo in oro».
Quel piombo che va cercato nei ranghi di un esercito di sventurati, viaggiatori incauti, ragazze schive, capotreno costrette a smerciare paccottiglia, medici fatti ammazzare. Quello che accomuna tutte queste persone è che, a ogni livello, sembrano avere qualcosa da dire sulla Russia. Il portato di un destino personale che sembra inscindibile dalle sorti della nazione, l’eredità di quelle cucine di kommunalki, avvolte di fumo di sigaretta e animate da discussioni.
«Io mi considero, principalmente, un osservatore. Per l’appunto mi piace passeggiare per i lungo canali e per le prospekt di San Pietroburgo e di lì mi piace guardare gli occhi della gente. Ed è nei loro sguardi che io ci trovo la mia verità sulla Russia. Ma la mia attenzione è selettiva. Si sofferma solamente su chi ha un’anima, su chi vive borderline, su chi ha dei sogni, su chi ha delle idee, su chi mostra delle emozioni, su chi non si piega. Su chi ha scelto di manifestarsi nella propria irriducibile individualità, su chi ha deciso di gettarsi nel mondo, nell’insicurezza, contro l’ignavia, contro l’azzeramento dell’emotività e la robotizzazione del genere umano in corso».
L’avventura russa di Bisi è una fuga dall’ignavia. Una fuga che nasce dalla sua Bologna e dall’ambiente, asfittico, dove sente di vivere. Dalla via Emilia a San Pietroburgo è un titolo dagli ovvi riferimenti gucciniani. C’è tuttavia un sottile gioco di preposizioni che segna una differenza tra Bisi e il cantautore modenese. Guccini apre le sue strade evocative tra la via Emilia e il West. Il nostro narratore va dalla via Emilia, in un movimento che non ha nulla di reciproco, ma una sola netta direzione senza ritorno. Un ritorno che però, un po’ a sorpresa, si compie. Il libro si chiude a Bologna, lì dove era partito. In quella che può sembrare una retromarcia o una resa, ma assume un sapore diverso.
«Io non ho una Terra promessa a cui aspirare, né una Itaca a cui far ritorno. Io sono uno sradicato. Io sono da molti anni orfano di madre e di padre e di patria. Ecco, per un certo periodo della mia vita, la Russia mi ha entusiasmato, ha rispecchiato la mia visione immaginativa, ma io non appartengo alla Russia. Non sono uno specialista, odio le specializzazioni, anche quelle letterarie. “Siate nel mondo, non del mondo”, così si raccomandava il Cristo. Il mio “essere nel mondo” è una “fuga”, rimbaudiana, perenne. Così, oggi, il mio orizzonte si è spostato nella penisola balcanica. Il mio prossimo libro parlerà di quei luoghi, di quelle genti».
Da questa rivendicata non appartenenza, i russofili più attenti potrebbero far derivare piccole mancanze e pensare che il libro di Bisi sia indirizzato a tutti meno che a loro. Nella mappa letteraria che prefigura, mancano nomi da Olimpo del novecento letterario sovietico, Venedikt Erofeev su tutti, ma sono assenze di cui l’autore giustamente non si sente colpevole. Alla nostra proposta di indicare dei russi da portare nello zaino per un viaggio, Bisi nicchia e invita ognuno a girare il proprio film. Una risposta che potrebbe avere un retrogusto di eccessiva diplomazia o di ignavia, se solo non si conoscessero le attitudini dell’autore. Forse proprio qui sta la chiave per godersi al meglio la lettura di Dalla via Emilia a San Pietroburgo. Non come una guida definitiva all’anima russa, cosa che non ha la presunzione di essere, ma come di un nuovo e originale tassello di cui comporre un diorama narrativo di immagini dalla Russia e per la Russia. Un tassello che ancora non c’era.
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