Nel 1607 Michelangelo Merisi da Caravaggio ha dipinto una delle opere più belle e tragiche della storia dell’arte: Le sette opere di misericordia. Nel 2019 una giovane scrittrice ecuadoregna ha scritto un romanzo che si finge una narrazione letteraria di quelle stesse opere di misericordia e che, in realtà, ne è la perfetta negazione. Il romanzo si intitola Questo mondo non ci appartiene, è l’opera prima di Natalia García Freire ed è arrivata in Italia lo scorso febbraio grazie a edizioni SUR, con la traduzione di Lara Dalla Vecchia.
Freire, classe 1991, è giornalista, oltre che insegnante di inglese in una scuola elementare e di scrittura alla Universidad del Azuay; ha pubblicato articoli su riviste come BBC Mundo, Univisión, Plan V, BG Magazine e Letras del Ecuador. Dopo qualche anno trascorso nel mondo del giornalismo, come ha dichiarato in diverse interviste, ha sentito l’esigenza di avvicinarsi a un altro tipo di scrittura. Così nel 2016 la decisione di iscriversi al master di Narrativa della Escuela de Escritores, dove ha cominciato a prendere forma il progetto di romanzo del suo esordio pubblicato, dopo tre anni, dalla casa editrice La navaja Suiza.
Protagonisti di Questo mondo non ci appartiene sono Lucas e il suo tentativo di confronto con il defunto padre, don Miguel: un tentativo tanto disperato quanto lucido di rimettere insieme i pezzi della storia della sua famiglia e della sua casa.
Quella di Lucas sembrava un’infanzia qualsiasi, lenta e inconsapevole, fino all’arrivo di due sconosciuti, Eloy e Felisberto – due nomi non casuali che richiamano due scrittori cui Freire sembra guardare molto, Felisberto Hernández e Tomás Eloy Martínez: il primo per la scrittura visionaria, il secondo per il legame tra il mondo dei vivi e quello dei morti.
«Ho un brutto presentimento, Lucas. Sento puzza di guai. Guai grossi», gli confida sua madre Josefina, oracolo distratto ma incontestabile, mentre con dedizione pianta le violacciocche nel loro giardino. Il padre di Lucas accoglie questi uomini come un personaggio biblico che si preoccupa di adempiere ad almeno quattro opere di misericordia: dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, ospitare i pellegrini, vestire gli ignudi. Lo stesso don Miguel non sembra però rispettare il principio del buon cristiano di curare gli infermi: dopo una violenta crisi, la madre di Lucas cade in uno stato catatonico e di incoscienza, e l’unica cosa che suo marito riesce a fare – o vuole fare – è rinchiuderla in una stanza con le finestre sbarrate e la porta perennemente chiusa a chiave.
Nonostante gli impediscano di vedere l’amata madre, Lucas non si arrende e riesce a entrare di soppiatto nella stanza-prigione: la donna è ormai solo il fantasma di sé stessa. Il padre decide di interrompere anche le lezioni del professor Erlano, che lascia al suo giovane allievo un libro sugli insetti che ha già «l’odore della lontananza». Lucas si rifugia spesso nella grotta di roccia dietro al bosco di Polypelis, dove, nel silenzio e nella solitudine, riesce a percepire i movimenti dei ragni e delle formiche, a studiarli in ogni loro più insignificante dettaglio. Adora quelle creature, lo affascinano, così come le adorava Josefina – al contrario di suo padre che continuava a ripetergli «questa mania deve finire». Il giorno in cui il professor Erlano viene cacciato, Lucas decide che deve andare via di casa.
Pochi giorni dopo arriva lo zio Eugenio che, preoccupato per le condizioni della cognata – la sesta opera: visitare i carcerati –, propone al fratello di portarla in un istituto di igiene mentale che possa occuparsi di lei in maniera adeguata. Intanto Lucas si avventura nella stanza di Felisberto ed Eloy insieme alle cugine Teresa e Alba. Qui, in una scatola, i tre ragazzini trovano un disegno in bianco e nero che «raffigurava una folla di uomini dai volti abbozzati con tratti rapidi che gli conferivano un’aria confusa, alcuni avevano addosso stracci neri e altri erano completamente nudi o erano avvolti in coperte che lasciavano intravedere le natiche»; a margine una scritta sbiadita che diceva Manicomio. Quel giorno Lucas si convince che non c’è più tempo, deve andare via il prima possibile. Ad assolvere l’ultima delle sette opere di misericordia è lui, che scaverà con le proprie mani la fossa per suo padre, costretto da Felisberto ed Eloy: seppellire i morti. Nel giardino non ci sono più le violacciocche, ma solo desolazione e sconforto.
«Perdonami se a volte mi distraggo e mi soffermo, senza posa, sulle cose che tu ritenevi inutili. Ma ora in mezzo a tutti quei lombrichi starai pensando che alla fine non erano così poco importanti. Non è vero?»
Come ha dichiarato Freire in un’intervista, l’idea di dare voce ai dubbi e alle incertezze di un bambino è nata dalla sua stessa esperienza. L’infanzia non è solo spensieratezza, ma anche incertezza e inquietudine. Dare voce allo stato d’animo di Lucas corrisponde al tentativo dell’autrice di risolvere dubbi e paure del passato, e farlo attraverso la voce di un bambino ha significato non solo avvicinarsi il più possibile alle sensazioni di quei momenti, ma, soprattutto, parlare di un odio incondizionato senza il timore di essere giudicata.
«A volte mi pongo domande di cui non so le risposte, e allora me le invento. Cosa succede alla cera di una candela che si scioglie? Dove va a finire? Si trasforma in un incubo, durante la notte».
La storia della famiglia è la storia della casa, specchio della decadenza di chi ci vive. «Tutte le case devono essere piene di segreti?», si chiede il bambino che non riesce a capire cosa sta accadendo. Chi sono quegli uomini e perché suo padre li ha accolti? Perché sua madre è prigioniera nella sua stessa casa? Freire non dà risposte ma solo indizi, e il giardino fiorito di violacciocche che si trasforma nella tomba del padre è forse il più efficace di questi. Per usare una metafora calviniana, i personaggi sono vittime di una «lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, che non risparmia nessun aspetto della vita. Come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa», allo sguardo di Lucas. Gli unici esseri inattaccabili sono gli insetti che rappresentano la sacralità della natura e di tutto ciò che ci circonda e che a noi sopravvive.
In Questo mondo non ci appartiene non ci sono coordinate spazio-temporali precise, i personaggi si muovono in una sorta di sospensione, una dimensione a sé stante che spesso si ritrova nella letteratura sudamericana. Come se questa parte di mondo dipendesse da un tempo-altro dove tutto evolve, o involve, secondo una non-logica.
C’è qualcosa di profondamente spirituale in questo romanzo che restituisce al lettore la storia della decadenza della famiglia di Lucas e della sua casa come una trascrizione per immagini letterarie di quelle sette opere di cui si narra nella Bibbia. Ma qui non c’è misericordia né redenzione, e Freire sembra rinnegare l’esistenza di un regno dei cieli in favore del dominio della natura. La decadenza passa attraverso le membra, attraverso la pelle morta della caviglia di don Miguel che Lucas intravede il giorno in cui la madre viene portata via. Il titolo originale dell’opera, Nuestra piel muerta, è un monito all’accettazione della mortalità del corpo e della morale.
«Quando l’angelo dell’inferno si è reso conto di essere stato bandito, ha creato un regno più potente di quello dei cieli. Anch’io darò vita a un regno, padre».
«Da un mistero è venuta, verso un altro è partita. Restiamo ignari dell’essenza del mistero», scrisse Carlos Drummond de Andrade a proposito della poetica di Clarice Lispector; una citazione che spiega bene quanto Freire si inserisca nel contesto della letteratura sudamericana a lei contemporanea, e non solo. In lei ricorrono topoi come il dialogo con la natura, il legame con l’inframondo e l’esistenzialismo, che passano attraverso una scrittura materiale – che ha il sentore della vegetazione e la consistenza della terra – e immagini grottesche, spesso disturbanti. Come altre scrittrici sudamericane, Freire non è intimorita dal perturbante diventato segno distintivo di quella generazione di cui fanno parte Guadalupe Nettel, Mariana Enríquez, Samanta Schweblin o Moníca Ojeda. E proprio come la sua connazionale Ojeda in Mandibula, Freire sembra voler convincere il lettore che «quando viene meno l’idea del bene e del male, l’unica cosa che rimane è la natura e la sua violenza».
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