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Era lui, Machi, ti dico, sono sicura di averlo visto che risaliva il mio binario ma in direzione opposta, appena è arrivato l’Eurocity. Ho letto tutti i suoi libri e so com’è fatto, è uno dei miei autori preferiti, anche con la mascherina non mi potevo sbagliare dopo che l’avevo visto in faccia, e mi aveva visto in faccia anche lui, sempre con la mascherina, è stato solo un attimo ma credo che si fosse accorto che l’avevo riconosciuto, perché ha fatto quell’espressione un po’ curiosa che si fa a chi ci guarda con interesse ma senza ostilità, e anzi nel mio caso non solo con interesse ma proprio con meraviglia, ma è stato così, un attimo, lui era chiaramente di fretta e il binario era troppo affollato per farsi strada tra i valigioni degli altri e fermarlo, quindi l’ho semplicemente guardato passare, così, prima di fronte, poi di profilo, poi di schiena, vestito scuro in piena estate, con una borsa a tracolla di pelle dove di sicuro aveva un computer o un tablet ultraleggero e almeno un libro, chissà di chi, pensavo, e mentre lo pensavo se n’era già andato, ma vedi, Machi, è anche per incontri così che sono stata contenta di ricominciare a viaggiare dopo un anno di clausura, davvero, non ce la facevo più, cioè avevo bisogno di vedere Raffi dopo tre mesi e andare a Berlino mi ha fatto bene, ma non è solo quello, viaggiare, Machi, e vedere gente, e stare di nuovo in una città, questo mi ha fatto bene, perché Bologna con la pandemia era diventata davvero invivibile, in un senso diverso, però, da come poteva sembrare invivibile prima, col mio relatore che ora, col fatto di non saper usare il computer, aveva una scusa in più per non presentarsi ai meeting e Paola e Francesca che mi hanno piantata lì e sono tornate in Puglia perché non volevano stare in una “città vuota”, dimmi tu se è normale che una coppia che a Bologna convive, felice, decide di tornarsene a casa, separata, a stare dai rispettivi genitori, anche se okay, a Bari c’è il mare e hanno sempre vissuto a venti minuti di distanza una dall’altra da quando facevano il liceo, però a me sembrava comunque una cosa assurda, anche perché così sì che diventa una città vuota, se tutti se ne vanno come fate voi certo che diventa vuota. Ma questo non gliel’ho detto. Non gliel’ho detto e onestamente al binario della stazione di Monaco, col lockdown finito da un po’ e dopo il mio bel mesetto a Berlino con Raffi, neanche ci pensavo più, anzi ero contenta di sapere che le avrei trovate, al ritorno, e, anche se ero un po’ stanca e neanche a metà del viaggio, in generale la stazione di Monaco mi metteva di buon umore, ho fatto bene a viaggiare in treno anziché in aereo, pensavo, ho la mia borraccia piena d’acqua, i miei Tuc, le mie banane e il mio libro di Carrère, proprio come quando ci facevamo i viaggi io e Raffi, oppure io, lui, Paola e Francesca, uno zaino da campeggio a testa come ce l’avevano un sacco di ragazzi radunati al binario, tanta acqua, qualche snack, un libricino, scarpe da trekking e via, c’era di nuovo quell’atmosfera, Machi, finalmente, dopo un anno, c’era anche lì al binario della stazione di Monaco, e anche se di sicuro tutta quella folla significava che il treno sarebbe stato overbooked, e anche se già si stava tutti a smocciolare dai nasi a penzoloni fuori dalle mascherine mezze calate, ero comunque di buon umore, stanca ma felice, come si dice, perché almeno adesso stavo di nuovo viaggiando, e mentre aspettavo, respirando col naso anch’io fuori dalla mascherina l’aria calda di agosto che saliva a mareggiate dal fondo del binario, ripensavo a tutte le nostre scarpinate ventose, mie e di Raffi, di Paola e Francesca, sui Sibillini, sulla Marmolada, in Slovenia quando abbiamo distrutto la golf, e anche quell’estate che ci siamo girati in cerchio l’unica autostrada d’Islanda, Machi, che spettacolo, solo erba e pietra vulcanica per chilometri e chilometri, e una solitudine dove per qualche ragione non ti senti mai sola, un silenzio che parla, a modo suo.

Quando è arrivato il treno, mi sono avvicinata anch’io, viaggiatrice tra viaggiatori di ritorno dalle vacanze, allo sportello aperto del vagone, uno qualsiasi, pronta a lottare come sempre contro l’invadenza fisica degli altri passeggeri, cercando di farmi spazio nonostante tutti fossero più alti, più grossi e più forti di me, come al solito, e in qualche modo grazie al fatto che viaggiavo solo con uno zaino e che sono piccolina sono riuscita a svicolare in mezzo a tutti questi corpaccioni e a trovarmi un posto a sedere, e ero abbastanza contenta, cioè ero preoccupata di beccarmi il covid, ovviamente, con tutta quella gente, ma almeno me lo sarei beccata da seduta. Non è una gran consolazione, però ero contenta, pensavo, mi sono seduta, ora tiro fuori il mio libro di Carrère sullo yoga e mi metto a leggere. Ma aspettavo, un po’ per riprendere fiato dopo la sudata che mi ero fatta per salire con lo zaino da campeggio, grande quasi quanto me, e un po’ perché, non avendo il posto prenotato ero quasi sicura che qualcuno mi avrebbe costretta a cambiare sedile, e infatti dopo neanche due minuti che me ne stavo lì a appannarmi gli occhiali con l’alito compresso nella mascherina ecco che arrivano un signore sulla cinquantina e la moglie, lui panciuto in polo grigia della panciosità dei bevitori di birra, lei con questo capello rosso che il caldo e lo stress avevano ridotto a una specie di pagliericcio pronto a prendere fuoco, entrambi accaldati e bisognosi di sedersi. Mi avevano detto in tedesco che quelli erano i loro posti, oh, sorry, is that one free? Avevo chiesto indicando il posto in cui avevano poggiato uno di quei trolley illegali da quaranta chili che in aeoroporto non si vedono mai, nein, mi fa la moglie, no free. No free. Non mi piace discutere, quindi mi sono alzata recuperando il mio zaino incastrato con grande perizia tecnica tra i sedili, lasciando il mio posto ai due signori che a guardarli veniva quasi il dubbio che si muovessero nella simbiosi di due parenti, piuttosto che di marito e moglie, forse perché succede così, quando si sta insieme da tanto, non lo so, ci si contagia, un po’ come cane e padrone, e ci si confonde a vicenda, nei limiti dell’accettabile, ecco. Comunque mi sono spostata e sono andata a cercare un altro sedile, considera che intanto tutti i passeggeri erano stati caricati e il treno aveva cominciato a muoversi, molti si stavano già rassegnando a trascorrere almeno parte del viaggio in piedi, in corridoio, e solo qualche coraggioso si avventurava ancora alla ricerca di un posto a sedere, e tra loro c’ero io, che qua e là raccattavo un sorriso solidale attraverso le mascherine di altri viaggiatori nelle mie stesse condizioni. A un certo punto ho visto un sedile, uno di quelli schiacciati fra due isole a quattro posti, occupato solo da uno zaino peraltro piuttosto piccolo, e approfittando della nostra espansività di mediterranei all’estero sono andata a chiedere se il posto era libero. Ovviamente appena ho visto chi era il passeggero mi sono pentita: un bambino, forse pure in viaggio da solo, visibilmente spaventato dall’italiana sudata e tatuata e mascherata che veniva a chiedergli il posto. Sai che i bambini mi stanno abbastanza simpatici, Machi, ero mezza contenta di avere un bambino di fianco piuttosto che uno qualsiasi dei tipi di prima, da cui potevo aspettarmi lamentele sul sovraffollamento, sul caldo e soprattutto l’uno sull’altro, insomma, il genere di discorsi che fanno le coppie in treno quando danno voce alla loro irritazione da convivenza forzata, mentre il bambino almeno avrebbe potuto essere interessante, se non altro perché i bambini riescono sempre a tirar fuori qualche uscita geniale, qualche frase strana a cui ripensi dopo, ma questo qui sembrava impegnatissimo in qualche videogioco nello smartphone, quindi sicuramente non mi avrebbe chiesto chi ero, cosa facevo o da dove venivo. Che peccato, avevo pensato, mentre un altro passeggero mi chiedeva di lasciargli il posto prenotato, stavolta con gentilezza giustificata di anziano in difficoltà. Ho sorriso e mi sono alzata, commentando a mezza voce a una signora che già mi aveva visto esiliata dal mio primo sedile e mi guardava con compassione: the adventure continues.

A questo punto avevo deciso che tanto valeva vedere se c’era qualche cantuccio libero in uno di quegli infraspazi a T vicino alle porte del vagone, dove di solito anche sui regionali sovraffollati di ritorno da Bologna vanno a riposarsi i passeggeri rassegnati a non trovare posto a sedere. Mi è già capitato di viaggiare in piedi, questo viaggio forse sarebbe stato un po’ più lungo, pensavo, ma almeno a ogni fermata sarei riuscita a cambiare un po’ d’aria, e poi non mi dispiaceva l’idea di fare quattro chiacchiere con altri passeggeri in esilio, tanto in queste situazioni o ci si incazza per il treno sovraffollato o ci si rilassa pensando che alla fine siamo un po’ tutti sulla stessa barca. Per quanto mi riguarda, Machi, di solito prevale il lato solidale. E poi non si sa mai, magari si fa qualche incontro interessante, Raffi alla fine l’ho conosciuto perché facevamo la stessa tratta in autobus quasi tutti i giorni, quando studiava anche lui a Bologna. Con un po’ di fatica mi sono avvicinata alla porta e cominciavo a sentire la stanchezza accumulata delle due settimane a Berlino, se devo essere sincera, perché sì, sono stata bene e sono stata contenta di vederlo, cioè avevo bisogno di vedere Raffi dopo il lockdown infinito di quest’anno, però con il nuovo lavoro alla Zendesk ha quasi sempre avuto un sacco di cose da fare, certe volte doveva programmare anche fino al pomeriggio tardi e se si metteva anche a rifinire qualche lavoro di grafica non si usciva proprio. Lo vedevo, cuffie in testa, a strofinarsi gli occhi per le troppe ore di schermo, faceva del suo meglio per chiudere tutto in fretta e portarmi un po’ a spasso ma un sacco di volte arrivava la sera completamente distrutto e io neanche me la sentivo di tirarlo fuori dall’appartamento, che poi da dove viveva prima fino in centro ci voleva più di mezz’ora, fai conto, quindi niente, la sera anziché andare a ballare ce ne stavamo a letto a mangiare e a vedere Netflix, per cui Berlino l’ho girata più che altro di giorno, più che altro da sola, più che altro a piedi, mi sono fatta delle camminate lunghissime perché la città è veramente enorme, piena di spazi aperti e con queste costruzioni che salgono su da terra come se fossero spuntate così, da sole, fuori dai marciapiedi lungo strade infinite, è molto diversa dalle nostre città, dove le case sono ammassate una sull’altra, appiccicate una all’altra, Berlino è come se fosse esplosa, come se fosse scoppiata fuori dal nulla, già fatta, tutta intera com’è, sopra un piano perfettamente piatto e senza nulla sotto. Prendi Bologna, prendi Roma, si vede subito che sotto hanno altre Bologne e altre Rome, Berlino no. Camminarsi da sola una città così, puoi immaginare, è come farsi un’escursione ogni giorno, non che mi dispiaccia ma ti distrugge le gambe. E poi c’è stato il trasloco da casa degli amici di Raffi fino a Kreuzberg, una cosa infernale, cioè io a Raffi gli voglio bene e tutto, dopo quattro anni lo so come è fatto, ma per queste cose è veramente troppo disorganizzato, cioè le fa ma è sempre un casino, in due mesi aveva già accumulato tanta di quella roba nuova, due schermi per il computer, un ventilatore a cilindro, una lampada per il letto, un microonde che, dico, non potevi aspettare di essere in un’altra casa almeno per il microonde? Evidentemente no. E poi la stanza con questi asciugamani sempre tra i piedi e i pantaloni piegati a fisarmonica sul pavimento nel punto in cui se li è calati per toglierli, e i sacchetti di Burgermeister che restano in camera a fare muffa per giorni e i piatti da lavare, cioè tutte cose che a vent’anni andavano anche bene, ma adesso che ha un lavoro dovrebbe darsi una svegliata perché la gente che vive con lui non può pulire la scia di roba che si lascia dietro e io non sono sua madre, gliel’ho dovuto anche dire, non sono tua madre, e lui si è incazzato come ogni volta che dico qualcosa su sua madre, Machi, sul fatto che a casa sua lui e suo padre stanno seduti sul divano mentre la madre gli sparecchia i piatti con gli avanzi, ma vabbè, lasciamo perdere, alla fine abbiamo fatto pace come al solito, di litigate così ne abbiamo fatte a decine in quattro anni, ne abbiamo fatte talmente tante che a malapena mi ricordo per che cos’erano. Oramai mi annoio anche solo a ripensarci. Ecco se c’è un problema con Raffi, più che le litigate, è questa cosa qui, cioè che mi sembra di finire a dirgli sempre le stesse cose, solo che di solito non ci penso, non mi ricordo nemmeno quali sono le “stesse cose” che gli ripeto tutti i giorni, perché Raffi è lì, ci ho vissuto insieme un anno e mezzo e a gennaio, oramai ho deciso, Machi, a gennaio lo raggiungo, a questo punto mi sembra che le cose possano essere solo così, cioè che Raffi c’è, e c’è talmente spesso che piano piano sta diventando un elemento dello sfondo, capito, faccio fatica a ricordarmi cos’è che non va con lui finché non me lo rimette davanti, e poi subito riscompare e non me lo ricordo più fino alla prossima litigata. È strano, no, come cambiano le cose col tempo? Cioè dei primi giorni, dei primi mesi, delle prime camminate mi ricordo proprio i dettagli, ho in testa tutta una mappa di dettagli di posti dove siamo stati, tutta una Bologna che ci siamo camminati e inventati noi, fatta di graffiti che commentavamo insieme e magliette giallo-acido bucherellate, di matti che parlano con telefoni inesistenti, di colonne che ondeggiano un po’ perché siamo un po’ ubriachi, di autisti di autobus che quando li ringraziavamo prima di scendere ci facevano “ma grazie a voi!”, e mi ricordo la voce con cui ce lo dicevano, Machi, mi ricordo il tono, il colore degli interni di quegli autobus, la pubblicità di una scuola di inglese attaccata negli interstizi fra i sedili con le frasi in lingua tutte sbagliate, tipo I am went to the city, e mi ricordo tutti i posti in cui pensavamo di andare, anche se poi non ci siamo andati, anzi, me ne ricordo anche meglio, insomma, per dire, i primi due o tre mesi della storia con Raffi ce li ho tutti in mente, Machi, ma di cosa abbiamo fatto delle ultime due settimane faccio fatica a ricordarmi, cioè mi devo sforzare per richiamare i dettagli di cosa facevamo, e quasi mi ricordo meglio cosa facevo quand’ero da sola, che è strano perché lì per lì mi sembrava di annoiarmi, mentre sono i momenti con Raffi quelli che non riesco a ricordare bene, cioè mi ricordo con cosa abbiamo cenato, magari, o che serie abbiamo visto, ma non mi ricordo lui, non mi ricordo le cose che ci siamo detti come mi ricordo quelle che ci siamo detti nei primi mesi, quando ancora non lo conoscevo neanche così bene, ma nei primi mesi per qualche motivo è tutto chiaro, tutto memorabile, anche le frasi che non significavano niente ma sembrava che significassero qualcosa, tipo quando per salutarmi dopo una serata insieme mi diceva “ci vediamo” come se ci fosse un punto interrogativo alla fine, “ci vediamo?” così, come se anziché esserci una vita sola in cui ci saremmo rivisti di sicuro, ce ne fossero almeno due possibili, una in cui ci saremmo rivisti e una in cui non ci saremmo rivisti affatto, mai più, e quella biforcazione di vite, venuta fuori neanche da una vera domanda ma dall’impressione di una domanda, mi faceva venir voglia di rispondere, “sì, certo”, certo che ci vediamo.

Scusa, mi sto perdendo. Cosa stavo dicendo? Ah, sì, ero lì nell’infraspazio tra i vagoni e mi facevano male le gambe e le spalle per il trasloco, così avevo poggiato lo zaino sui gradini davanti alle porte del treno e mi ero rannicchiata di fianco, per terra, sperando di potermi riposare un po’, anche se si stava stretti. Almeno ero seduta, però, unico svantaggio il fatto che lo spazio tra i vagoni è molto rumoroso, di solito, e anche molto caldo, d’estate, perché non c’è l’aria condizionata. Per fortuna avevo un po’ di compagnia: nell’infraspazio, oltre a me, erano riusciti a infilarsi anche un ragazzo biondo che stava sganciando il coperchio di un tupperware enorme, appollaiato vicino alla porticina del bagno con uno zaino da campeggio, due buste di plastica e una sacca-zaino gialla con le stringhe nere e con un’emoji sorridente disegnata sopra, un signore spaghettiforme un po’ calvo con un paio di occhiali rettangolari, e due donne spagnole sulla cinquantina che dovevano essersi fatte un gran viaggio insieme, perché da quello che riuscivo a capire col mio spagnolo-discount da Erasmus a Barcellona una delle due aveva camminato troppo e aveva male alle caviglie. Poi c’era un ragazzo con una maglietta nera troppo larga e dei jeans scuri, un po’ pallidino, che se ne stava in piedi nella posizione più scomoda possibile, con un trolley celeste piccolissimo infilato tra le ginocchia e uno zaino che cercava di far passare dalla schiena al petto continuando a occupare la minor quantità di spazio possibile, come se stesse non solo cercando di non urtare il signore a spaghetto che gli stava troppo vicino, ma anche di non spostare affatto lo strato d’aria che la sua pelle toccava in quel momento, come, cioè, se si stesse muovendo all’interno di una membrana sottilissima che non doveva per nessun motivo lacerarsi, e che lo costringeva a fare tutta una serie di contorsioni da serpente con la schiena, quasi fosse la schiena, la colonna vertebrale, che cercava di spostarsi dietro lo zaino, e non lo zaino che cercava di passare dalla schiena al petto. Mentre lo guardavo tutto preso da queste acrobazie non ero ancora riuscita a vedere bene che faccia avesse, vedevo più che altro le spalle che si sollevavano in sequenza come se si stessero dislocando, le scapole che si aprivano e chiudevano a turno, come i flaps delle ali di un aereo che si prepara al volo, alternandosi sotto la maglietta nera troppo larga con una macchia scura di sudore dove prima aderiva allo zaino e dove ora vedevo comparire e scomparire i monticini delle vertebre in minuscoli sommovimenti geologici, che però notavo, per qualche ragione, come notavo una dopo l’altra le strane circonvoluzioni puntute del suo orecchio sotto i nodi dei capelli neri intrecciati dal sudore e la pelle un po’ più ruvida, un po’ più rossa, appena sopra i gomiti, notavo tutte queste cose e notavo di starle notando, una per una, in una serie di dettagli perfettamente chiari. A quel punto il biondo, quello con tutte le buste seduto di fronte alla porta del bagno, era finalmente riuscito a stappare il suo tupper-ware (plop!), liberando qualcosa come un’insalata di riso e con l’insalata di riso l’odore di pollo, uovo sodo e qualche tipo di peperone o cetriolo che lì per lì non sono riuscita a identificare, ma che mi aveva colpito con tanta forza nonostante la mascherina da costringermi a chiudere gli occhi per un attimo, stringere le palpebre e sentire la cornea bruciare per la fatica accumulata – era così tanto che non le sbattevo? Il biondo deve aver pensato che fossi stanca per qualcosa o che stessi per piangere, magari per la posizione non proprio comoda in cui ero appallottolata o magari per lo stress dello spazio ristretto o per qualche altra ragione tra quelle sempre a metà fra il misterioso e l’assolutamente chiaro per cui qualcuno dovrebbe ritrovarsi a piangere in treno (grief or heartbreak), e bilanciando il tupper-ware con una mano, con l’altra aveva di nuovo cominciato a frugare nello zaino, o meglio in una busta di plastica dentro lo zaino, il cui crepitio riusciva a coprire tanto le voci delle due signore quanto il tu-tum tu-tum ritmico del treno, non so secondo quale legge dell’acustica, impendendomi di sentire il fruscio della maglietta nera sulla schiena del ragazzo e il frinire della frizione degli spallacci dello zaino che si districavano dalle sue spalle, perché ti assicuro che sarei riuscita a sentirlo, Machi, stavo quasi per sentirlo, anche così, col tu-tum tu-tum del treno sullo sfondo a scandire semplicemente il ritmo di quello che osservavo e che sentivo, stavo quasi per separare quel fruscio da tutti gli altri rumori del treno, quasi per isolarlo, distillarlo e versarmelo nell’orecchio come una specie di droga segreta che ero comunque curiosa di provare, finché non l’aveva interrotto lo scricchiolare del sacchetto di plastica del biondo. Ecco, ora ero costretta a guardare lui, che intanto aveva tirato fuori dal sacchetto un tovagliolo arrotolato a tubo, da cui, srotolandolo, aveva estratto una forchetta. Do you want some? Mi aveva chiesto porgendomela con la manona, dimezzando la doppia v di want in una v singola per via dell’accento tedesco, perhaps… are you hungry? Gli avevo detto di no, ma mi aveva visto sorridere sotto la maschera e doveva aver pensato che volessi fare due chiacchiere perché mi sentivo sola o qualcosa così, quando più che altro avevo sorriso per simmetria con lui, tutto contento di offrirmi la sua insalata di riso e del fatto di aver trovato, contro tutti i pronostici di timidezza sui mezzi pubblici del nord Europa, il coraggio di offrimela, per cui ora era naturale che io dovessi dargli qualcosa in cambio per il fatto di avermi rivolto la parola, e in cambio io gli avevo dato per sbaglio il sorriso che mi era sfuggito sentendo quella doppia v dimezzata, perché in fondo se l’era meritato immaginando di aiutare una ragazza che aveva immaginato in difficoltà, no? A quel punto, anche se stavo pensando a tutt’altro, tanto valeva scambiare due chiacchiere e fare un po’ di quelle domande da lezione di inglese delle elementari, what’s your name, where are you from, e poi lasciar cadere la conversazione annuendo in silenzio a qualche storia delle sue. Stavo già ricominciando a cercare il mio Carrère nello zaino per dare l’impressione di non voler parlare troppo, non fosse che il tedesco, Detlef, come again? Detlef. Can you spell it? D – e – t… dietro all’accento colloso mi stava risultando mezzo simpatico. Studiava una cosa come scienze ambientali a Francoforte, o una branca di scienze politiche che si occupa di ambiente, con un nome tecnico in tedesco impossibile da ricordare, e stava andando a trovare due cugini italiani a Bolzano, o dei parenti, o degli amici, non mi ricordo bene perché continuavo buttare occhiate all’altro, che intanto era riuscito a portarsi lo zaino davanti al petto e aveva cominciato delle manovre per aprirlo, prima le cinghie della tasca superiore e poi il cordellino che teneva chiusa la bocca dello zaino, sempre nero, in cui ora vedevo schiudersi già il rosso luminoso dell’imbottitura interna, accompagnato dai movimenti di dieci dita bianche che facevano pensare alle mani nervose di quel quadro con la donna pallida di cui Paola e Francesca hanno appeso in camera un poster enorme, sopra il letto, lei un po’ sporta in avanti a seno scoperto che tiene la testa tagliata di un uomo per i capelli, le mani tutte contratte come ragni, le dita di una sprofondate nei capelli della testa mozzata, quelle dell’altra arrampicate tra le pieghe del vestito, me? I’m doing a PhD in Bologna, in sociology, I study the Anthropocene and, like, ecological humanities? Detlef aveva iniziato a elencare corrispondenze tra il mio campo di studi e il suo che certamente ci sono e che qualcun altro deve avermi fatto notare, tre o quattro mesi fa, durante una conferenza su zoom, mentre l’altro era finalmente riuscito a tirare un libro fuori dallo zaino, come avesse previsto il gesto che da una decina di minuti mi preparavo a fare anch’io, un libro azzurro, poi, proprio dello stesso colore del mio Carrère, anzi, Machi, proprio il mio Carrère, che coincidenza, il mio stesso Carrère ma più avanti nel tempo di qualche secondo, estratto non tanto dallo zaino quanto direttamente dalla mia testa, dall’immagine di me nella mia testa che sto per tirare fuori il libro, e ecco invece che, come per un trucco di magia, lo stesso libro, perché ero sicura che fosse lo stesso, era uscito fuori dal suo zaino, e lui si era messo a sfogliarlo, lì, in piedi, nell’infraspazio minuscolo rimpicciolitosi ancora di più per la presenza mia e di Detlef e del signore magro e delle due signore, l’aveva sollevato, l’aveva portato vicino al viso semi-coperto da una mascherina FFP2 bianca, vicino, e dalla mia posizione anche se ancora non potevo vederlo in faccia, almeno non del tutto, riuscivo comunque a distinguere oltre il velo scuro dei capelli, in uno squarcio aperto solo per me da una coltellata che avesse scavato l’intimità di una tenda da campeggio con la lama, la vibrazione delle sue ciglia che saliscendevano sulla pagina, l’occhio che toccava una linea alla volta, una frase alla volta, fremendo in scatti rapidi, mentre le signore si spostavano, stringendolo, costringendolo a avvicinarsi alla pagina ancora di più, come per appoggiarvi sopra la guancia, per baciarla, quasi… La porta del vagone a quel punto si era aperta dal mio lato, Rosenheim Bahnhof, aveva annunciato una voce dai microfoni interni, col signore magro che si era avvicinato a me e a Detlef con vari Entschuldigung nel tentativo di uscire. Detlef aveva approfittato della sosta per calarsi la mascherina e prendere qualche boccata d’aria da fuori, aveva un bel sorriso, Machi, uno di quei bei sorrisi coi denti dritti e bianchi e pieni e pari, nemmeno uno fuori posto e con le gengive che non si vedono affatto, uno di quei sorrisi da persona ottimista che ti colpiscono perché sembrano fisicamente solidi, fisicamente compatti, fisicamente sani, ma guarda che bel sorriso solido, compatto e sano, mi ero detta mentre lui continuava con la seconda metà della storia di un suo viaggio a Bologna che avevo seguito a pezzi, forse gli avevano fatto mettere l’apparecchio da piccolo e aveva funzionato, qualsiasi cosa avessero fatto aveva senza dubbio funzionato. And you? Continuava mentre la porta si richiudeva, ricoprendo il sorriso con la maschera, what did you do in Germany? Were you in München or…? Lascia la frase appesa al pensiero in tedesco di un oder, no, I was in Berlin, just a summer trip. Did you enjoy it? Yes, Berlin is… Le sei corsie liriche di strade bombardate, gli arcipelaghi di ventenni alla ricerca di una vita, una città dove tutti sono più di una persona contemporaneamente, dove tutti vivono più vite, dove se chiedi a qualcuno “cosa fai?” nessuno ti risponde con quello che fa per vivere, tutti con quello che vivono per fare, come Raffi che sta a galla col suo lavoro in IT e intanto fa grafiche al computer e copertine di album e poster per party di musica elettronica della scena underground, che poi sono lui e i suoi amici, la scena underground, I liked it very much, I like Berlin and its energy, you know, like, the young people, yes, even the food. I’d like to live there, for a couple of years. Why not more? Because…

Stavolta la porta si era aperta sull’altro lato, il ragazzo aveva levato gli occhi dalla pagina del Carrère un attimo prima del bacio mentre una ragazza castana in leggings grigi si arrampicava camminando all’indietro lungo gli scalini per entrare nel vagone, una mano sollevata a equilibrare una tazza di caffè da asporto, l’altra agganciata alla maniglia di un passeggino che suo marito, maglia leggera e infradito, capello ancora lungo da padre giovane, sospingeva sudando da sotto, un secondo e erano entrati tutti e tre, moglie, marito, bambina che mugola nel passeggino. Non c’è più spazio. Il ragazzo aveva chiuso il Carrère e si era spostato un po’ in avanti, spingendo il trolley che aveva tra le gambe contro la parete del corridoio, producendosi in torsioni miracolose per non toccare nessuno, e poi l’aveva riaperto, così, subito, mantenendosi in equilibrio dentro il treno sussultante unicamente grazie alle gambe, grazie alla forza magica delle piante dei piedi e alla forza magnetica con cui il suo corpo continuava a respingere ogni elemento estraneo lontano da sé, fuori dalla rocca impenetrabile di spazio che lo circondava e dove neanche il tempo sembrava alterarsi nonostante i passeggeri che andavano e venivano, dove i gesti iniziati continuavano indipendentemente dal contesto e venivano portati a termine senza preoccupazione verso ciò che accadeva all’esterno, e così i movimenti delle ciglia, che ancora riuscivo a intravedere nella tenda lacerata dei capelli procedere indisturbati a fulminare una per una le parole sulle pagine, da sinistra a destra giù, da sinistra a destra, indietro-ritorno su una parola persa, destra giù – e  io intanto abbandonavo la prospettiva di estrarre il mio Carrère, identico al suo, ne ero sicura, e avere così almeno una scusa per parlargli, e invadere quello spazio in cui stava sospeso da solo, sarebbe bastato un niente, Machi, un “cosa leggi?”, niente, ma Detlef voleva continuare a parlare e la coppia appena entrata stava cercando di capire se si trovava sul treno giusto oppure no, so, you see, not all Germas are big fans of the city… you know how they say Berlin is “poor but sexy”, but it’s actually the only capital in Europe that lowers its country GDP instead of raising it, meaning, like, Berlin is actually making all Germans a bit poorer… E aveva cominciato a elencare percentuali, non è brutto, pensavo, ha anche dei begli occhi azzurri, o verdi, non si capisce bene, in altre circostanze forse avrei potuto andarci, con uno così, nessuno è così brutto da non pensare almeno una volta di farci sesso, Machi, il problema è che continuava a parlare di cose di cui non mi fregava niente, come Raffi quando elenca i diecimila nomi dei suoi colleghi a Zendesk, e gli aneddoti ripetuti in cerchio delle sue giornate, e le vicende dei suoi amici seduti sui marciapiedi a trent’anni a sentire techno da una palletta di cassa bluetooth, mentre gli altri intorno ballano tutti da casse più potenti delle sue, pensavo, e intanto nel passeggino la bambina aveva cominciato a lamentarsi in una specie di tedesco dalle parole liquide, più morbido del tedesco degli adulti ma del tutto incomprensibile, da dietro vedevo le manine che cercavano di liberarsi da qualche cinghia che la teneva legata al passeggino, mentre la madre le diceva di no e la teneva lì, la bambina montando in quel crescendo di mugolii che precede l’esplosione di un pianto – avrebbe cominciato in un attimo non fosse che il padre aveva deciso di liberarla, sbuffando, mentre la madre gli ringhiava contro qualcosa, troppo tardi, la bambina ormai era già a spasso nell’infraspazio e guardava i passeggeri, guardava me e Detlef, platinata e aliena come sono solo i bambini del nord, hallo, le aveva fatto Detlef salutandola con la mano, halo, aveva risposto lei con una elle in meno, chiudendo a anello quello scambio breve prima di rimettersi a esplorare, scoprendo presto quello che sapevamo tutti, che sapevamo già, e cioè che l’infraspazio era orribilmente piccolo e noioso e ci si stava a malapena, e che se avesse voluto continuare a esplorare le sarebbe toccato attraversare vicoli stretti tra palazzi di gambe sudate per trovare un posto dove giocare a qualsiasi gioco le fosse venuto in mente, non ne valeva la pena, perché i grattacieli delle gambe dei passeggeri stavano già cominciando a venirle incontro, anche se per fortuna non c’eravamo ancora, non eravamo ancora arrivati, per fortuna eravamo ancora a Wörgl, la mamma aveva chiesto al papà se voleva il suo caffè, capivo giusto qualche parola sparsa, dicevano qualcosa sul fatto di aver preso il treno sbagliato ma che alla fine anche questo fermava a Jenbach, la loro fermata, li guardavo e pensavo, poveracci, che casino dev’essere viaggiare con una bambina piccola, di sicuro sono solo stanchi, pensavo, i bambini a quell’età non lasciano respiro, lo dicono tutti che i primi anni sono terribili, poi le cose migliorano, e la bambina avrà si e no due anni, i “terribili due”, li chiamano, di sicuro è per quello, sì, dev’essere per quello, devono essere la stanchezza e l’insonnia che gli danno quest’aria disperata da persone sul treno sbagliato, da corsa al binario all’ultimo minuto, sicuramente sono solo stanchi e solo insonni, per la bambina e per i lavori che fanno, forse anche lui in IT, i vestiti trasandati, certamente è solo quello, mi dicevo, un momento di crisi, così mi dicevo guardandoli, solo un momento, pensavo, mentre nella mia memoria si allargavano lunghi e vuoti e rossi come l’interno della gola di un animale vivo e respirante i portici di Bologna nella notte, è solo un momento. Passerà. Hier. Wir müssen raus. E erano scesi a Jenbach, con la loro bambina nel passeggino e i loro programmi di cui non sapevo niente, i loro piani, capisci Machi, la loro vita di programmi e piani che non dovevano essere tanto diversi dai miei piani di raggiungere Raffi a Berlino e dai miei programmi di vincere una teaching fellowship alla Humboldt o no, di lavorare in un call center o no, di andare a lavare piatti in un ristorante italiano o no, pur di non dover cancellare il piano di farmi quella vita con Raffi, quei picnic a Tempelhof con Raffi, quelle giornate con Raffi sotto la lastra inossidabile del cielo di Berlino in primavera, perché avevo deciso così, ho deciso così, ho deciso che quella sarà la mia città, ho deciso, let’s go, mi aveva detto Detlef, there should be some free seats, come on, e io non sono riuscita a inventarmi una scusa in tempo, Machi, non sono riuscita a farmi venire in mente qualcosa da dire che non fosse l’esatta verità, e cioè che io volevo restare lì ancora un po’, nell’infraspazio, non per tutto il viaggio magari, ma almeno per un altro po’, volevo starmene lì nell’infraspazio a leggermi il mio Carrère e a guardare il ragazzo col suo Carrère, che intanto, mentre l’infraspazio si liberava con tutta la gente scesa a Jenbach, aveva cominciato a espandersi, anzi, a espandere lo spazio intorno alla sua schiena sempre più larga, le gambe separate ora a reggerlo ancora meglio anche se sembrava che stesse quasi sollevandosi in punta di piedi, tanto appariva più grande senza attorno tutta quella gente, sempre attento a bilanciare il trolley troppo vicino alla tazza di caffè freddo lasciata dal papà capelluto in un angolo dell’infraspazio prima di scendere, una trappola o un monito per chi decideva di restare. Come on, eravamo rientrati nel vagone, let’s go, avevamo lasciato l’infraspazio.

Non vedevo più il ragazzo col Carrère, e davanti avevo diversi sedili vuoti in mezzo a due file di paesaggio finalmente visibili nei finestrini, un paesaggio che si allargava a destra e sinistra in due ali di verde-foresta, abeti e creste di montagne e qua e là il neo legnoso di una baita sulla pelle verde di un prato, e tutta la luce che non era mai arrivata nell’infraspazio. Nonostante la mascherina, lì mi sembrava di poter respirare meglio, forse per l’aria condizionata, e con Detlef eravamo anche riusciti a trovare un’isola con tre sedili vuoti su quattro, l’unico pieno occupato da un signore mediorientale che dormiva con le mani intrecciate sulla pancia, pacifico, e ci eravamo seduti nei due sedili vellutati di blu, finalmente comodi, io dopo aver sistemato il mio zaino sull’unico posto vuoto, Detlef dopo essersi arrabattato per un buon minuto e mezzo nel tentativo di ammassare il suo, più buste di plastica e sacca-zaino sorridente, nello scompartimento sopra i sedili. Alla fine ce l’aveva fatta: ora che lo guardavo meglio, questo Detlef nella luce delle tre e mezzo del pomeriggio sembrava anche più carino, più alto, più biondo, con gli occhi più azzurri, so any plans for Bolzano? You mean Bozen? Ah, yeah, l’intenzione pare fosse quella di girare il nord Italia in bicicletta con gli amici, ma già prevedeva che avrebbero speso molto più tempo a bere e a mangiare che a pedalare, after all, food is amazing in Italy, con la voce di una pubblicità, come fosse un complimento fatto a me, che cucino poco e male, poi mi aveva raccontato le tappe che avrebbero seguito, e come le avrebbero raggiunte, yes, I also took that route by bike, onceThere’s a nice camping site nearby where you can stop and… e così via, perché di viaggi in bici e scarpinate e campeggi ne ho fatti tanti anch’io, con Raffi, e so come funzionano queste cose, e intanto iniziavamo a sostare alle prime stazioni italiane, Brennero, Fortezza, mentre parlando con Detlef e organizzando il viaggio di Detlef rivedevo le tappe dei miei viaggi con Raffi, qualche volta da soli, qualche volta con Paola e Francesca, qualche volta in bici, qualche volta con la golf scassata che avevamo prima di Berlino e a cui avremmo dovuto fare un bel funerale dopo il viaggio in Slovenia, invece di venderla, rivedevo i posti che avevamo visitato sulle Alpi e sugli Appennini, i rifugi dai nomi dimenticati, la vena di un sentiero nell’erba e quella di un ruscello tra le rocce, l’odore della cannabis coltivata in casa apposta per l’occasione che ci riempiva le narici e i capelli e i vestiti mentre guardavamo le capre selvatiche arrampicarsi sui versanti, inseguite dal telo lentissimo dell’ombra del pomeriggio, eravamo lì, sapevamo cosa fare e come farlo, sapevamo dove saremmo andati il giorno dopo anche nello stordimento della seconda o terza canna che ci passavamo guardando il paesaggio, sapevamo quanto tempo avremmo trascorso alla prossima tappa e dove trovare da mangiare e da bere, e come accendere un fuoco e come piantare una tenda. Ripensavo a tutte queste cose parlando con Detlef mentre il treno procedeva tra le montagne come se i binari tracciassero una linea che legava fra loro le fermate e i punti della nostra conversazione e i ricordi di quei viaggi con Raffi, le serate sotto le stelle in cui eravamo troppo stanchi per fare sesso e troppo fatti per parlare di dove saremmo andati domani, anche se lo sapevamo già. Ero con lui, lo sapevo già. Poi però mi sono tornate in mente certe mattine, sentendo qualcosa che stava dicendo Detlef sull’alzarsi presto, I’m an early bird, o qualcosa del genere, I’m not, gli avevo risposto, I usually sleep, usually until… fino a che, in treno, mi erano tornate in mente certe mattine in cui anch’io mi svegliavo con gli uccelli, early birds, all’alba, a volte anche alle cinque, con una lucidità di pensiero come se non avessi neanche dormito, anzi, come se fossi stata sveglia tutta la notte a pensare a qualcosa, no, a immaginare qualcosa, a immaginare qualcosa di completo nell’insieme dei suoi dettagli, Machi, ecco, qualcosa che potevo far ruotare nella mente, come per guardarlo, da dietro, di profilo, di fronte, pensarlo e immaginarlo da tutte le direzioni solo per scoprire, al risveglio, di essermi dimenticata che cos’era, che cos’era che avevo immaginato con così tanta chiarezza, che cos’era che mi aveva fatto svegliare così lucida, così fresca, come se avessi terminato l’equivalente mentale di una qualche ginnastica e avessi ancora addosso, nella mente, il pulsare del cuore, la patina di sudore, l’accalorarsi di tutti i muscoli irreali della mia immaginazione, che bello svegliarsi così, Machi, mi dicevo, che bello svegliarsi, che bello esserci, mentre Raffi ancora dorme, che bello che ci sia io, e volevo continuare a sentirmi così, a sentire che era bello esserci, esserci io, e allora facevo l’unica cosa che da sveglia mi sembrava almeno un po’ simile a quei sogni e a quella ginnastica dei sogni che credevo di aver fatto senza sapere come o perché, e cioè mi mettevo a leggere, non molto, solo qualche pagina, anzi, nemmeno qualche pagina ma qualche frase, giusto per legare l’attenzione a qualcosa e fare un pezzetto di sogno in più, e sai, la cosa strana di quei momenti, di quando mi svegliavo così, all’improvviso, dopo giorni di scarpinate e arrampicate e canne, di fuochi accesi e spenti e tende montate e smontate, era che in quel poco che riuscivo a leggere prima che Raffi si svegliasse, in quelle poche parole sulla pagina sgualcita di qualche libro a caso, non trovavo il libro, ma il paesaggio, non trovavo le frasi del libro ma gli elementi del paesaggio, le piante e le pietre e i ruscelli e gli insetti, la luce che dal crinale strisciava in basso in sfumature pastello illuminando biglie di rugiada appese a fili d’erba, le ali iridate delle mosche che si riscuotevano dal peso umido e fresco della notte passata, essiccate in una forma del tutto pura, sottile, fragile della fragilità infrangibile delle cose che esistono solo per un attimo, prima di ronzare via, prima di passare altrove. E mentre mi tornavano in mente quelle mattine era ricomparso, attraverso il vetro della porta del vagone, il ragazzo col Carrère, ancora lì nell’infraspazio, la massa dei capelli neri a nascondere il profilo ora fuso col riflesso mobile delle montagne sul vetro della porta del vagone in una figura unica, un ragazzo-montagna, un ragazzo-paesaggio che vedevo, come le frasi di quelle mattine, coagulato al mondo circostante e insieme per sempre separato da esso, e all’improvviso mi era tornato in mente uno dei paesaggi delle nostre escursioni, no, anzi, non mi era tornato in mente, perché se mi fosse tornato in mente vorrebbe dire che c’ero stata, mentre questo era un paesaggio di un’escursione che non ho mai fatto, Machi, il paesaggio di un posto dove non ho mai camminato, e che mi stava comparendo in mente così, rivelato, in un istante, nell’incrocio fra il mio sguardo, il profilo del ragazzo attraverso il vetro, il paesaggio alpino riflesso sul vetro e i racconti delle escursioni di Detlef nella sua voce attutita dalla mascherina, un paesaggio venuto alla luce, non ho un modo migliore di dirlo, venuto alla luce nella mia testa, nei miei ricordi e nella mia immaginazione e forse anche in quella di Detlef, perché per un attimo si era fermato anche lui come se stesse pensando a cosa dire, e forse anche in quella del ragazzo col Carrère, che aveva sollevato il collo dalla pagina giusto quel tanto che bastava a far capire che ora non stava leggendo, che si era fermato, che stava pensando a ciò che aveva letto, stava pensando, forse, anche lui al paesaggio venuto alla luce fra di noi mentre il treno attraversava a sua volta un paesaggio che veniva alla luce nei finestrini e nelle finestre dei nostri occhi, e il paesaggio venuto alla luce era questo: la città delle rocce. Nessuno mi ha detto che si chiamava così, ma subito dopo averlo visto ho saputo che si chiamava così, il nome mi è venuto in mente da solo, mi è sembrato naturale. La città delle rocce era un paesaggio nebbioso sul versante di una montagna, uno di quei versanti nudi che si trovano solo oltre certe altitudini, quando le piante si ritraggono come per lasciare spazio a qualcos’altro, e quel qualcos’altro sono le rocce, le pietre, nude anche loro, e le membrane di muschio da cui emergono, e nella città delle rocce le pietre che emergevano dal muschio erano grandi quanto persone semivisibili nella nebbia, che il mio occhio vedeva comparire e svanire, lentamente, come oggetti preziosi avvolti e svolti in un tessuto, e attraversando la città delle rocce mi rendevo conto che queste pietre, che io vedevo ancora come pietre ma che pian piano cominciavano a mostrarmi differenze nella corporatura, nei toni, nei gesti, erano vive, erano animate, Machi, e pur restando immobili parlavano una loro lingua, anche se io non la conoscevo, comprensibile soltanto a loro, comprensibile soltanto nel momento in cui l’altitudine trasformava il paesaggio in un deserto, sì, perché nella città delle rocce non c’erano che le rocce, impegnate in una conversazione silenziosa, e il mio occhio, che per qualche motivo, per qualche gioco di luci o di voci avvenuto all’interno del treno, per l’errore momentaneo di qualche illusione prospettica, si era ritrovato a osservare un paesaggio che non c’era, popolato di persone che non erano persone, in cui si parlava un linguaggio che non era un linguaggio. Lo so che non ha senso, ma è così. E no, non è stata un’allucinazione, Machi, nel senso che non è che mi trovassi letteralmente lì, non è che vedessi letteralmente le rocce e le pietre sui sentieri e i ciuffi d’erba ispessiti dall’umidità della nebbia e delle nuvole, no, non ho visto nessuna di queste cose perché mi trovavo ancora dentro il vagone dell’Eurocity per Bologna, e quello che vedevo era il vagone dell’Eurocity per Bologna, i suoi passeggeri con le mascherine calate, i suoi sedili vellutati di blu, i suoi finestrini con dentro la processione del paesaggio alpino, la faccia un pochino abbronzata e squadrata di Detlef, e dietro di lui il rettangolo rosso della porta del vagone e il riquadro a vetri sulla porta in cui le Alpi si riflettevano sopra il mezzo viso e la mezza nuca del ragazzo col Carrère, questo era quello che vedevo, cioè quello che letteralmente registravano i miei occhi, ma allo stesso tempo vedevo anche la città delle rocce, come si vedono le cose che si immaginano, cioè non letteralmente ma pur sempre visualizzandole, in un certo senso, senza visualizzarle, in un luogo che non è un luogo, con un paio di occhi che non sono occhi, con un paio di occhi che erano dietro i miei occhi e osservavano il vagone, dietro e più dentro, all’indentro, più in profondità rispetto a un posto di cui non avvertivo la superficie o la cui superficie era precisamente questo, cioè il vagone, le cose viste dentro il vagone, le cose che vedevo letteralmente, dietro cui per un attimo aveva fiammeggiato senza fiammeggiare la città delle rocce, l’unica cosa che posso dire, Machi, è che la città delle rocce era lì, e che la vedevo senza vederla, la vedevo, non la stavo immaginando, non la stavo costruendo pensandoci, la vedevo con tutti i particolari con cui si vedono le cose nei sogni, ma da sveglia, con la nitidezza con cui vedevo il mondo quando in montagna mi alzavo all’alba e leggevo qualche riga, con una ricchezza di dettagli che non avrei potuto essere io a inventarmi così, sul momento, con le ombre sulle rocce che seguivano una luce che non c’era da nessuna parte e il riflesso granulato appena percettibile dell’umidità, e le screziature grezze dei sassi sui sentieri, e la morbidezza fisica, polposa, dell’erba bagnata e del muschio che nonostante tutto si aggrappava al suolo anche lassù, nella città delle rocce, ecco, i riflessi, i movimenti della nebbia, le forme delle rocce, la carnosità dell’erba, tutte queste cose non potevo averle inventate io, così, in un attimo, non potevo averle ricombinate io da qualche frammento di cose già viste, così, in una frazione di secondo, nell’assoluta coerenza di un paesaggio visibile, non era possibile che fossi stata io, capisci, e ho pensato che se la città delle rocce non veniva da paesaggi che avevo visto io, allora doveva venire da qualcun altro, che se non l’avevo pensata o immaginata io, che la vedevo, se era sbucata spontaneamente nella mia testa già fatta, già intera, già piena di dettagli, allora doveva essersela inventata qualcun altro. Qualcun altro che non ero io, Machi.

Poi, com’era venuta, l’immagine se n’era andata. Avevo perso presa sui particolari, e tutto quel paesaggio di cui ti ho descritto solo una quantità piccolissima di dettagli era scomparso, come se fosse stato risucchiato fuori dalla mia testa attraverso tanti minuscoli buchi, come se il materiale di cui era composto fosse stato una cosa liquida e qualcuno avesse praticato dei fori minuscoli, della dimensione di una puntura d’insetto, sulla superficie sottilissima su cui la città delle rocce era comparsa, drenandola nel nulla con la stessa velocità con cui, dal nulla, era comparsa. E per qualche motivo mi ero subito convinta, Machi, non so perché, forse perché guardavo lui proprio quando la città è comparsa, che tutto quel paesaggio fosse nella testa del ragazzo col Carrère, che intanto si era fatto avanti, mentre mi dicevo, sì, è in lui, la città delle rocce è dentro di lui, mentre entrava nel vagone, spingendo la porta con il gomito, libro chiuso in mano, le onde nere di una frangia estese sul capo chinato a nascondere, ancora, gli occhi neri e lampeggianti, sì, la città delle rocce è un paesaggio nella sua testa, pensavo. Una volta dentro, era andato a sedersi esattamente dietro Detlef, non nel sedile di spalle al suo, ma in quello che, nell’isola di quattro sedili dietro la nostra, corrispondeva al sedile di Detlef, uno di quelli che davano sul corridoio, così che ora, guardando Detlef, parlando con Detlef non ricordo neanche più di cosa, sapevo che il ragazzo col Carrère leggeva il suo libro col viso attaccato alla pagina esattamente dietro di lui, e ogni tanto vedevo comparire la propaggine bianca e screpolata del suo gomito sul bracciolo del sedile, oppure il suo avambraccio senza bracciali, senza orologi, giusto qualche centimetro dietro quello di Detlef, mentre Detlef cominciava a assottigliarsi, fermata dopo fermata, e le cose che gli dicevo si biforcavano in ciò che stavo dicendo a Detlef e in come e cosa stavo effettivamente cercando di dire con quelle parole sperando che, dietro di lui, dietro quel Detlef oramai sottile come un foglio di carta velina, mi sentisse l’altro, il ragazzo col Carrère, dentro cui, ne ero sicura, abitava tutta quanta la città delle rocce. So, continuavo rispondendo a una domanda qualsiasi, I went hiking a lot as an undergrad, mostly around Bologna, or far up in the north, I have friends there, e evitavo di nominare Raffi, come avessi sedici anni, lo nascondevo, mentre l’avrei nominato subito se in tutto questo tempo in cui avevo creduto di parlare con Detlef avessi veramente parlato con lui, perché nominare il tuo ragazzo è sempre un buon modo di vedere se uno ci sta provando con te e nel caso di Detlef non ero sicura, Machi, alcune persone quando viaggiano hanno semplicemente voglia di parlare, succede anche a me, ma ecco, se fossi stata col ragazzo col Carrère non mi sarebbe mai saltato in mente di nominare Raffi, perché non sarebbe stato soltanto parlare, ora lo capivo, mentre si trovava esattamente dietro Detlef, anche se non potevo vederlo, perché in quel momento parlavo ma non stavo soltanto parlando, there is something about nature in the early hours, continuavo, the early hours of the morning, you know, no, non lo sapeva, Detlef non lo sapeva, non poteva saperlo, e nemmeno io lo sapevo, nemmeno io potevo sapere davvero cosa stessi dicendo al di là del fatto che non lo stavo veramente dicendo, perché non stavo soltanto parlando o cercando di parlare, ma di comparire, Machi, di comparire in qualche modo davanti o addirittura dentro il ragazzo col Carrère, non perché volessi fargli capire che mi trovavo lì, nel treno con lui, perché questo di sicuro già lo sapeva, quanto piuttosto per farmi vedere nel modo in cui lui mi aveva fatto vedere la città delle rocce, nel modo, cioè, in cui anch’io vedevo quei paesaggi quando durante le escursioni mi svegliavo la mattina presto con la voglia di leggere, ovvero raccogliendo tutto insieme il paesaggio in quella pioggia di particolari, solo che il paesaggio, questa volta, avrei dovuto essere io. Lo so, non hanno senso queste cose che ti dico, ma non so come altro dirle se non così, cioè dicendoti che io non volevo farmi notare dal ragazzo col Carrère, e che non volevo neanche farmi conoscere, non volevo, insomma, dovermi presentare, dovermi spiegare, dover dire ciao mi chiamo Matilde, sono nata a Forlì e ho studiato a Bologna, ho tre cuori legati come anelli di una catena tatuati sull’avambraccio destro, sono allergica alle noci e non mangio il pesce, mi piace dormire in tenda e fare arrampicata anche se non sono brava, faccio yoga e ho letto quasi tutti i libri di Carrère, Limonov è il mio preferito, quand’ero molto piccola mi hanno dovuta operare e ho ancora una gran cicatrice sul petto, non volevo dover dire tutte queste cose, Machi, non volevo doverle elencare una per una, una dopo l’altra, volevo che le vedesse, che le visualizzasse tutte insieme come io avevo visto in un attimo dentro di lui la città delle rocce, volevo che mi prendesse così, tutta in una volta, tutta intera, che facesse esperienza di me senza tutte le mediazioni che ci sono di solito quando due persone cercano di conoscersi, senza la lingua, i vestiti, gli sguardi, i gesti. Volevo che vedesse qualcosa che era prima e dietro la lingua, i vestiti, gli sguardi e i gesti e che io posso vedere subito, se penso a me da dentro di me, ma gli altri no, e che, me ne rendevo conto solo in quel momento, in realtà era la cosa che cercavo sempre di far vedere attraverso la lingua, i vestiti, gli sguardi e i gesti, la cosa che avevo cercato di far vedere a Raffi quando restavo con lui a parlare fino alle due del mattino a spasso sotto le file senza fine dei portici di Bologna, protetti da temporali che minacciavano sempre di esplodere senza esplodere mai, tuonando lontano, mentre noi, io e Raffi, parlavamo senza parlare veramente, parlavamo senza sapere cosa stavamo dicendo, parlavamo senza avere idea del senso delle parole che ci uscivano di bocca e neanche ce lo chiedevamo, perché dal chiedercelo e dal capirlo non avremmo ricavato niente, perché l’unica cosa che stavamo cercando davvero di fare era quella che il ragazzo col Carrère era riuscito a fare senza fare niente, semplicemente stando in piedi in treno, leggendo un libro, o che semplicemente accadeva così, svegliandosi certe mattine dopo aver dormito come da svegli: il proiettare un paesaggio completo l’uno nell’altra, una città completa uno nell’altra, una città coi suoi abitanti, rocce o meno, una città che siamo.

Prossima fermata: Bolzano, nächste Stelle: Bozen, aveva annunciato il microfono, looks like I’m getting down, here, mi aveva detto Detlef alzandosi e cominciando a armeggiare con le buste che aveva piazzato nello scompartimento superiore, tutto precario, tutto in un bilico che in qualche modo riusciva a rimanere stabile grazie a svariate tecniche di salvataggio messe in atto con manate, annodamenti di buste, ingarbugliamenti di lacci, pressioni sui punti morbidi di quello zaino enorme che continuava a minacciare di precipitarci addosso, e intanto tutto ciò a cui riuscivo a pensare era che dovevo assolutamente trovare il modo di guardare in faccia il ragazzo col Carrère, di guardarlo negli occhi cioè, era la mia unica occasione, anche questa era una cosa stupida, Machi, lo so, anche questo era un pensiero senza senso, ma lì per lì non avevo neanche formulato nella mia testa il pensiero “voglio guardarlo in faccia” o “voglio guardarlo negli occhi”, non avevo formulato niente, infatti, era solo una sensazione, per così dire, una curiosità, come quando ci si trova sul bordo di un burrone e si vuole guardare sotto, o dentro, io ero sul bordo di un burrone, Machi, e il bordo era Detlef e il dentro era il ragazzo col Carrère, e io, per dirla chiara, volevo guardarci dentro, Machi, e siccome volevo guardarci dentro ho cominciato a immaginare come sarebbe stato, guardarci dentro, ho cominciato a immaginarmi una quantità di cose assurde, completamente assurde, Machi, e di nuovo, non me le stavo davvero immaginando, era più come se le stessi vedendo, come avevo visto la città delle rocce, ma stavolta a una velocità straordinaria, una dopo l’altra, come se stessi vedendo la sua vita, tutta la sua vita in una volta, anzi, tutte le sue vite, Machi, perché erano più di una sola, tutte le sue vite possibili, tutta la città delle sue vite possibili, in tutti i colori possibili, in tutti i posti possibili, sentivo la sua voce anche se non avevo ancora mai sentito la sua voce, immaginavo di sentirla e sentivo tutto il coro delle sue voci possibili, anche se lui di sicuro ne aveva una sola, anche se lui era uno solo, seduto dietro Detlef che recuperava il suo zaino, anche se lui era una persona sola, Machi, una sola persona che però, nel momento in cui ho puntato su di lei la mia curiosità, la mia attenzione, si è moltiplicata improvvisamente in una città di persone possibili, in una metropoli futuristica di vite possibili, di cose che avrebbero potuto piacergli o che avrebbe potuto odiare, di posti in cui avrebbe potuto esser stato e posti in cui sarebbe andato, di persone che avrebbe potuto amare o che avrebbe potuto perdere, di pensieri, Machi, il ragazzo col Carrère si era moltiplicato in tutta la contorta megalopoli dei suoi pensieri possibili, in una rete cittadina immensa osservata da un satellite nello spazio, da me dietro Detlef, nell’ora più buia della notte, in un labirinto di luci e strade e grattacieli e vite ognuna contenente a sua volta una città, in tutte queste vite fra cui, ed è questa la cosa assurda, Machi, ce n’era anche una che ero riuscita a riconoscere, tra tutte queste vite nella città dei suoi pensieri possibili, nella città, cioè, di tutte le cose che immaginavo che il ragazzo col Carrère avrebbe a sua volta potuto immaginare, e che ora neanche saprei dirti che cos’erano, tanta è la velocità con cui mi hanno bombardato il cervello come centinaia di migliaia di stelle cadenti precipitate lì, per qualche ragione, proprio lì, nel mio cervello, tra tutte le vite di questa rumorosissima, proteiforme, prismatica e sfolgorante città di pensieri possibili una, Machi, una mi è rimasta impressa, una mi è stata subito riconoscibile, tra tutti questi pensieri uno solo sono riuscita a incontrarlo davvero e a ricordarlo davvero e a portarmelo via: il pensiero di me. Sì, perché da qualche parte nella testa del ragazzo col Carrère, nella città di pensieri possibili che immaginavo nella testa del ragazzo col Carrère, c’era la ragazza col Carrère, che forse doveva star pensando a lui, che forse si chiamava Matilde, forse Veronica, forse Machi, che era bassettina ma ben proporzionata, coi capelli castani un po’ scapicciati per il caldo e la frangetta sulla fronte un po’ sudata, e i tre cuori incatenati ben visibili sull’avambraccio coi suoi tre bracciali, e la cicatrice sul petto dell’operazione che le hanno fatto da piccola appena visibile sotto il top giallo leggero col suo motivo di ali di uccelli, e le gambe forti, da camminatrice, sotto i jeans, e le converse gialle, le punte bianche un po’ sporche di polvere di ferrovia, e forse Matilde, Veronica o Machi studiava a Bologna, forse a Milano, a Napoli a Roma, o magari, chissà, nemmeno studiava, già lavorava, invece, guida, programmatrice, barista, designer, insegnante di yoga, faceva gavetta, in viaggio a trovare un’amica, un parente, il ragazzo, a Monaco, Heidelberg, forse a Berlino, da dove tornava anche lui, chi lo sa. C’ero io, dentro quella città, ero convinta che ci sarei stata, se avessi potuto vederlo negli occhi, sapevo di essere lì, dovevo soltanto alzarmi e vederlo, Machi, quando ecco, per caso, è successo, senza che abbia dovuto far nulla: la sacca-zaino di Detlef, quella con l’emoji sorridente sopra, stava per cadere, per la precisione stava per cadermi in testa, carica di quello che forse era un altro paio di scarponi, una borraccia piena, qualche maglietta o calzino sporco, cose buttate via per portarle via, ecco, e io mi sono dovuta alzare, ho dovuto farlo, avrei dovuto farlo anche se non fossi stata curiosa, è stato un caso, una coincidenza totale, mi sono dovuta alzare per fermare con la mano la sacca-zaino prima che mi cadesse in testa, tutto qui, e mi sono ritrovata in piedi per caso, anche se era esattamente quello che avrei voluto fare, mi serviva soltanto una scusa, e ecco la scusa, soltanto un’occasione, e ecco l’occasione, non avevo bisogno di nient’altro, ora mi sarebbe bastato girare un pochino la testa e guardare nella direzione del ragazzo col Carrère, non appena fosse sceso Detlef, e avrei potuto vederlo, oh, thanks, mi aveva ringraziato Detlef, mentre gli passavo la sacca-zaino, that almost got you, sorry, sì, mi aveva quasi preso, lì in mezzo a quel vagone coi sedili sempre più vuoti in mezzo a quelle Alpi sempre più basse, con noi due in piedi, là in mezzo, ormai oltre il confine, mentre il treno tagliava una valle in cui case, palazzi, strade e ponti spuntavano da terra, in cui tutta Bolzano sbocciava di colpo ai lati del binario, dentro le cornici dei finestrini, silenziosa come un giardino nel sole del tardo pomeriggio col rollio del treno a coprire ogni rumore della città (tu-tum tu-tum) come un cuore che batte (tu-tum tu-tum) listen, (tu-tum tu-tum), I had a very nice time talking to you, (tu-tum tu-tum), are you on Instagram or Facebook? (tu-tum tu-tum), maybe I’ll write if I pop up near Bologna, (tu-tum tu-tum), perché no, alla fine non è che dobbiamo rivederci per forza anche se gli do il mio contatto, (tu-tum tu-tum) I’m “matle0” on Instagram, with a zero at the end, (tu-tum tu-tum), perfect, smartphone in mano, qualche colpo di dita, request sent,(tu-tum tu-tum), il treno rallenta, (tu-tum; tu-tum), bye, then, enjoy Bolzano – Bozen, (tu, tum… tu, tum…) see you around. (Tu, tum. Tu, Tum.) E sorridendo col suo sorriso bianco e solido sotto la maschera si era portato via lo zaino, la sacca-zaino e le buste di plastica, ed era uscito facendo un gran rumore di passi pesanti e porte sbattute, era uscito e mi aveva lasciata lì col ragazzo col Carrère, Machi, e se uno dei passeggeri dovesse avermi vista in quel momento avrebbe potuto pensare che nei tre, quattro secondi in cui sono rimasta immobile, unica persona in piedi nel vagone fermo su cui non saliva nessuno e da cui nessuno sembrava intenzionato a scendere dopo Detlef, stessi pensando a lui, a Detlef, al viaggio di quasi cinque ore che avevo fatto con lui, fino a qui, a tutte le cose che ci eravamo detti in quelle cinque ore, che per alcuni, soprattutto se si tratta di viaggiare, sarebbero potute sembrare una frazione di tempo lunghissima, ma che per me erano durate poco, pochissimo, il tempo di cinque minuti, perché durante quelle cinque ore tutto ciò a cui ero riuscita a pensare era il ragazzo col Carrère, perché quelle cinque lunghissime ore spese a parlare con Detlef, per me, in realtà erano state cinque brevissimi minuti a immaginare di interagire col ragazzo col Carrère, quindi se qualcuno mi avesse vista così in piedi e avesse pensato, “che tenera, la ragazza col Carrère, ha parlato cinque ore col ragazzo biondo e lo guarda andar via, che tenera la ragazza col Carrère, ha passato cinque ore a viaggiare con lui e già ora le manca”, se avessero pensato “che tenera”, come di sicuro avranno pensato i miei amici di Bologna, i baristi di Bologna, i commessi di Bologna, le signore a spasso per Bologna e qualche volta forse pure i professori di Bologna, quando mi vedevano con Raffi, ecco, si sarebbero sbagliati, perché nei cinque minuti del viaggio, Machi, io non avevo fatto altro che pensare al ragazzo col Carrère, e ora Detlef era sceso e finalmente avevo potuto guardarlo, potevo guardarlo, Machi. L’ho guardato, Machi, in quei tre, quattro secondi, e lui ha alzato gli occhi dal libro e mi ha guardata. Mi ha vista. Poi si è rimesso a leggere. E vorrei poterti dire che sono successe tutte le cose che credevo sarebbero successe, tutti i viaggi nelle città delle rocce, dei pensieri, del futuro, ma non è così. Non è successo niente, in realtà, ci siamo guardati, ci siamo visti, lui si è rimesso a leggere, e non è successo niente. Mi sono seduta. Il treno è ripartito. Bolzano è sprofondata nella valle. Le creste delle montagne, come quelle linee verdi nelle macchine che registrano la frequenza dei battiti del cuore, si sono piano piano appiattite. Che faccia aveva? Una faccia normale. Occhi normali. Un po’ tristi, magari, un po’ stanchi, come di uno che la sera prima ha dormito poco. Stanchi, normali, niente di che. Fra qualche mese di sicuro me la scorderò, quella faccia. Invece mi ricorderò di aver parlato con Detlef, perché anche se di sicuro non mi scriverà su direct dopo aver visto tutte le foto con Raffi in cui sono taggata, visualizzerà almeno due o tre storie, prima di silenziarmi il profilo, magari metterà ancora un like qua e là ai miei post, perché sa come funzionano queste cose, e a quel punto mi tornerà in mente di aver fatto tutto questo viaggio con lui parlando di campeggi, e che per qualche ragione il viaggio era durato davvero poco, Machi, cinque minuti in cinque ore, e che avevamo attraversato questo paesaggio di montagne, di rocce, che a me aveva fatto un po’ paura, col cielo scuro e la nebbia e il vuoto, soprattutto il vuoto mi aveva fatto paura, ma parlando con Detlef mi ero sentita più tranquilla, anche se non mi piace quando i treni sono così pieni, e questo era davvero pieno, e c’era a bordo gente strana, tipo questo ragazzo seduto dietro di noi che ci aveva guardato per tutto il tempo da sopra un libro che somigliava molto al mio Carrère, ma non era di Carrère, era di un altro autore.

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↔ In alto: foto Vitaly Rubtsov / Unsplash.

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