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«Non avrei potuto scegliere altri grandi amori invece degli uomini che ho scelto di amare? Certo che avrei potuto, ma non l’ho fatto, e questa, la mia storia, è la storia di questo atto mancato.»

Atti di sottomissione è il romanzo d’esordio della scrittrice irlandese Megan Nolan, pubblicato in Italia da NN Editore (2021), nella traduzione di Tiziana Lo Porto, il primo di una nuova collana intitolata Le Fuggitive, dedicata a storie di donne “alla ricerca di libertà e di una rifondazione della propria esistenza”. Ed è proprio quest’ultimo aspetto, la rifondazione, che forse definisce più di altri il lavoro di Nolan.

Atti di sottomissione è la storia, a confine tra memoir e finzione, di una ragazza con tendenze autolesioniste che cerca esasperatamente di colmare il vuoto della propria esistenza con l’amore. Finisce così incastrata in una relazione abusante con un uomo anaffettivo, che detta i tempi e le regole della sua vita. La narrazione in prima persona, con sbalzi temporali che restituiscono uno sguardo più maturo e consapevole, è un monologo interiore che segue la protagonista sempre più a fondo in una spirale di dipendenza emotiva, disperazione e disprezzo.

«Quando stavo con gli altri mi sentivo vera. Era questo il motivo per cui volevo essere innamorata. Quando ami, non hai bisogno della costante presenza fisica dell’amato per sentirti vera. È l’amore in sé a sostenere e dare valore ai momenti penosi che altrimenti sprecheresti esercitandoti a essere una persona, camminando avanti e indietro nel tuo appartamento di merda, aspettando che si facciano le sette per aprire il vino. Essere innamorati ti concede uno stato di grazia. […] Essere innamorati per me era questo: uno scudo, uno scopo più alto, una promessa a qualcosa fuori da te.»

Quello che la protagonista cerca e Nolan distrugge sono i dettami dell’amore romantico, quel modello di relazione caratterizzato da un sentimento totalizzante, esclusivo, che esiste tra due persone e le rende uniche l’una agli occhi dell’altra, completandole.
L’ideale romantico, per quanto oggi le narrazioni siano decisamente più disincantate rispetto alla letteratura ottocentesca, fa ancora profondamente parte della società attuale: anche se ormai il matrimonio non è più una delle voci da spuntare dalla lista delle tappe obbligate della vita, infatti, per una certa cultura dominante lo è trovare una persona con cui condividerla, questa vita, che sia “la persona giusta” in grado con il suo solo esistere di lenire i mali che ci affliggono.

Si tratta, tra l’altro, di un immaginario costruito sui ruoli di genere ben definiti all’interno della coppia, per cui l’uomo deve rispondere a criteri di tenacia, dominanza (anche economica) e forza (che spesso può tradursi in insensibilità emotiva), mentre le donne sono circondate da messaggi che idealizzano la resa, il sacrificio e la sottomissione all’amore e dunque alla famiglia, alla relazione e al partner.
Il potere degli stereotipi risiede proprio nel fatto che si collegano automaticamente e acriticamente con convinzioni e miti interiorizzati, anche e sopratutto in maniera inconscia: così il rafforzamento di una certa mitologia romantica è evidente in diversa produzione di intrattenimento, da programmi televisivi a serie tv per adolescenti (e non), passando anche per cinema e letteratura.

Il rischio di queste rappresentazioni, in cui la relazione romantica viene idealizzata e posta come un modello di realizzazione personale, è proprio la legittimazione di dinamiche violente: controllo e possesso sono considerati indicatori d’amore e la donna innamorata è passiva e obbediente, responsabile della risoluzione dei conflitti, mentre l’uomo mostra il proprio amore attraverso atti “intensi” e “passionali”, anche aggressivi – After ne è forse l’esempio più recente. Ed è innegabile l’influenza culturale di queste narrazioni, specialmente nei soggetti più fragili: uno studio sulla rappresentazione delle relazioni amorose nelle serie tv spagnole per adolescenti, pubblicato nel 2018, ha rilevato come, nonostante i giovani intervistati rifiutassero le rappresentazioni più tradizionali dell’amore, queste costituiscono ancora dei punti di riferimento quotidiani, tanto da portare il pubblico a perpetuare stereotipi e giustificare comportamenti abusanti in modo inconsapevole.


La tendenza comune a tutte le tipologie di media di ricorrere alle cornici romantiche per raccontare la realtà emerge chiaramente anche nel giornalismo, specialmente nei casi di cronaca, in forme che spaziano dalla minimizzazione alla giustificazione della violenza, anche in caso di femminicidio, inserendolo in uno schema di “delitto passionale” (riferimenti a gelosia, a tormenti amorosi dell’omicida, ecc.). Si ammette così l’idea che la violenza costituisca una componente normale della passione, fino a diventare quasi una cifra dell’intensità emotiva di una relazione.

Nolan mostra, con uno stile pulito e spietato, tutta la piramide che è la violenza di genere. Dalle micro-aggressioni quasi quotidiane che la sua protagonista affronta e subisce, che ne costituiscono la base, talmente tante e talmente tanto normalizzate da passare quasi inosservate, in un crescendo di manipolazione e autodistruzione, fino a raggiungerne il culmine nell’atto fisico dello stupro.

Non c’è una spiegazione, non c’è redenzione. Tanto meno pietà.

Una violenza disturbante tanto quanto quel bisogno di compiacere il genere maschile che la protagonista vive come uno scopo primario – a cui le donne sono educate, più o meno consapevolmente – e che l’autrice espone senza ipocrisie. La protagonista oscilla tra il desiderio di annullarsi, e la ricerca di validazione: usa il proprio corpo nel tentativo di assecondare lo sguardo maschile interiorizzato, a volte in maniera passiva, altre illudendosi di averne il controllo.

«Perché dovrei dire che i cattivi sono loro, e io la buona, e poi limitarmi a osservare cosa accade nel mondo? Il potere che gli uomini hanno avuto su di me, più che una ragione per odiarli, mi sembra un dato di fatto.»

Ma non c’è vittimismo nelle parole della scrittrice che, forse involontariamente, scardina il discorso attorno al ruolo e all’immagine della vittima di abusi sessuali: sta qui la vera forza del romanzo. Nelle dinamiche distorte che racconta è possibile leggere lo sgretolarsi di quel canone sociale che riconosce la violenza e la vittima stessa solo se aderente a certe caratteristiche, solo se quest’ultima ha fatto di tutto “per non andarsela a cercare”.
Nolan amplia i margini dello status di vittima, senza fare sconti a nessuno scava con occhio critico nella materia del consenso, infrange i tabù legati al desiderio femminile che ancora persistono, senza grandi catarsi e senza nascondersi quando il momento si fa angosciante.

Quella che restituisce è una storia di sopravvivenza e di lotta. Emerge tutta la fatica di una persona che cerca un equilibrio, un senso e uno scopo per la propria esistenza; tutta la stanchezza di una ragazza che prova a rimanere a galla consapevole di combattere contro se stessa. È il resoconto, scarno e doloroso, di chi affronta il proprio abisso.

Atti di sottomissione è un libro difficile da superare: forse per la mancanza di pudore nel mostrarsi deboli, imperfetti e stupidi, o per l’urgenza di essere proprietari delle proprie decisioni, Nolan, senza la pretesa di dare una risposta, affronta in maniera autentica la paura di non bastarsi, della solitudine e della mancanza di senso che in qualche modo riguardano tutti, a prescindere dal genere e dal proprio vissuto.

«Pensavo che l’amore di un uomo mi avrebbe riempito così tanto che non avrei avuto più bisogno di bere, mangiare, tagliarmi o fare di nuovo qualsiasi altra cosa al mio corpo. Pensavo che se ne sarebbe fatto carico al posto mio. Ma adesso ero qui, proprio qui dentro, senza nessuno a dirmi cosa sarebbe successo.»

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