A-Side
La prima volta in cui Giulia esce di sera in
America, si piace. È una ragazza single e può
uscire da sola, bere qualcosa, starsene seduta al
bancone di un bar in un paese che non è il suo.
Giulia si è trasferita in Oklahoma per una band,
come una groupie negli anni settanta, ma senza
voler fare sesso coi membri del gruppo.
Aveva solo bisogno di un luogo che la facesse
sentire come se l’Italia fosse la casa di
qualcun altro. L’Oklahoma le era sembrato
lontano abbastanza.
È seduta al bancone del locale e indossa un
maglione nuovo, morbido sui polsi, con la stoffa
candida in perfetto contrasto coi suoi tatuaggi
color petrolio e il trucco pesante. Il fumo che
aleggia nel locale le gratta gli occhi. Stasera, coi
capelli neri neri, il maglione nuovo e le
campanelle alle orecchie, Giulia si sente nuova.
Stasera, Giulia vuole conoscere qualcuno, e sa
che una ragazza non rimane sola al bancone a lungo.
Come previsto, un tipo si siede sullo sgabello di
fianco al suo.
«Lo sai che questo è il locale dove Garth Brooks
ha suonato per la prima volta?» le chiede.
Giulia deve concedergli dei punti per la battuta
d’attacco vagamente interessante. Il tipo, capelli
color miele e camicia a scacchi, indica un punto
indefinito alle sue spalle, verso una targa:
Garth Brooks, first public performances, 1985-1987.
Le sorride. Giulia scorge delle linee nere tra le
sue gengive. Ha un accento pesante, del Sud, una
cadenza che Giulia non sente spesso a lavoro, tra
le mura dell’università.
Ma il ragazzo ha superato il primo test: è biondo e ha
l’accento di Matthew McConaughey.
Solo che Giulia non sa come dirglielo, che di
Garth Brooks non gliene frega un cazzo. Per
quanto patetico possa suonare, si è trasferita in
Oklahoma per i Flaming Lips.
B-Side
Suo padre le cantava le canzoni dei
Flaming Lips per farla addormentare.
La sua voce era grassa di fumo. I vicini del
piano di sopra, quelli di fianco, e di sotto,
non facevano altro che
litigare e gridare.
I genitori di Giulia non erano diversi.
Sua madre, col reggiseno bianco
elasticizzato sulla pelle bianca, marciava
per la casa gridando finché suo padre non si
stancava e andava a sedersi in cortile, col
tatuaggio nero della falce e martello che
brillava sul sudore dell’abbronzatura.
D’estate, il sole livornese bruciava i cactus
e il cemento giallo della casa popolare.
Giulia ricorda le bustine di farina e di
muschio del presepe allineate sul tavolo ad
agosto, il regno di sua madre. L’odore di
varichina in cucina, la madre che la
chiamava a cena. Giulia scorgeva i guanti
di gomma e le mascherine ammucchiati
nell’angolo, vicino al microonde. Sua
madre le diceva che faceva la parrucchiera
da casa.
Giulia le aveva creduto per tanti anni.
Quando i suoi clienti uscivano dalla cucina,
avevano sempre lo stesso taglio di capelli.
Giulia ha ventidue anni ed è libera, a 8527
miglia da casa. Giulia può uscire da sola e mettersi
a chiacchierare con un tipo dai capelli color miele
e una camicia di flanella. Se volesse, potrebbe
portarselo a casa. Potrebbe mettere su un disco,
accendere una candela all’arancia, versargli un
bicchiere di Fireball e trascinarlo verso il letto.
Giulia vive da sola per la prima volta. Il silenzio
la travolge, e allora mette su un disco dei Flaming
Lips.
Ora il tipo le parla della cittadina dell’Oklahoma
in cui è cresciuto, la sua voce persa nella cacofonia
del locale – la musica, gli studenti che bevono e
urlano e giocano a freccette, i bicchieri di shot
piantati sul tavolo come chiodi.
Lui si chiama Travis, e come ogni altro tizio seduto
da solo al bancone parla troppo. «Mia madre mi
ha insegnato a fumare la metanfetamina a tredici
anni».
Quando Travis lo dice Giulia rimane incerta,
ferma, la schiena dritta sullo sgabello mentre sente
l’arco dei piedi tremare.
E allora capisce il perché delle righe
nere tra i denti. Annuisce, sente il gin graffiarle la
lingua. Si convince che rimarrà impassibile.
«Ma ora sono vivo. Ho tre bambine, vado in
chiesa tutte le domeniche. Sono nuovo».
Giulia si domanda perché una ragazza di ventidue
anni con un buon lavoro e un buon appartamento
in una cittadina dell’Oklahoma si possa ritrovare
seduta con un tipo così. Non appena lo pensa, si fa
così schifo che vorrebbe vomitare.
Ha già smesso di piacersi.
Suo padre aveva tirato un cazzotto nel
muro di cartongesso. Il suo pugno era
sparito, mangiato dal buco nel muro fino al
gomito. Sua madre aveva cominciato a
urlare e gli aveva lanciato addosso lo
scaldabigodini. Giulia era scappata in
cortile e si era fermata di fianco al cactus,
morto, perché era gennaio e nessuno lo
annaffiava più. Giulia aveva visto suo
padre uscire di casa indossando la
canottiera di Che Guevara e il costume da
bagno, il braccio ancora tutto sporco di
gesso. Sua madre si era precipitata fuori e
aveva sbattuto la porta sotto lo sguardo dei
vicini affacciati alla finestra. Per la prima
volta, Giulia aveva capito di voler scappare
lontano, più lontano possibile, non
importava dove.
Giulia non ha altri ricordi di suo padre,
tranne un disco dei Flaming Lips lasciato
per sbaglio dentro il giradischi della sala.
Quando suo padre ne era andato, sua madre
aveva venduto o gettato via tutte le sue
cose, ma non si era accorta che il disco dei
Flaming Lips era ancora lì. Giulia l’aveva
sollevato dal piatto piano piano, per non far
rumore, e se l’era portato in camera.
L’aveva nascosto sotto un cassetto. Aveva
fatto ricerche su un vecchio libro di storia
del rock: Flaming Lips, band formata in
Oklahoma. Giulia non voleva rischiare di
ascoltare il disco quando sua madre era a
casa – si sarebbe accorta che il disco era di
suo padre.
Allora Giulia sedeva a terra, immaginando
ogni pezzo senza poterlo ascoltare. Le
parole delle canzoni, gli assoli, i ritornelli,
l’Oklahoma.
Il barista le chiede se vuole un altro gin tonic.
Giulia si accorge che, da quando Travis le ha
detto che sua madre gli ha insegnato a fumare la
metanfetamina a tredici anni, lei ha continuato a
succhiare dalla cannuccia, senza neanche sentire il
rumore del ghiaccio nel bicchiere, con le ultime
gocce di gin che arrancano verso le sue labbra.
Giulia si domanda se debba dire al barista che
Travis la sta importunando, che lei voleva solo
uscire da sola per bere qualcosa, che una donna,
per quanto giovane, per quanto attraente, per
quanto sola, non dovrebbe essere costantemente
tormentata da qualcuno che vuole portarla a letto.
Ma di nuovo, si fa schifo. Di nuovo, sente la
distanza da sua madre, dalla casa popolare, da
Livorno, e sente di essere diventata qualcun altro.
Prova per Travis quello che prova quando va in
città, a Oklahoma City, e vede i barboni seduti coi
cani, sulla strada, le bottiglie di Budweiser
incartate tra sacchi a pelo macchiati di muffa.
Odia il modo in cui la gente li guarda, ma lei
stessa avrebbe paura di avvicinarsi troppo.
Giulia dice al barista che, in realtà, sta per andare
a casa. Ma Travis si protende verso di lei. La sua
camicia di flanella sa di fumo rancido.
«Dimmi di te», le dice. «Cosa fai?».
Giulia non sa cosa dire. Vorrebbe dirgli, devo
andare. Ma è la prima volta che esce da sola in un paese
straniero, e non sa bene come sfuggire da
situazioni spiacevoli.
E Travis sembra davvero essere un tipo qualunque.
È tutto il discorso delle metanfetamine, le linee
nere tra i denti, l’odore di fumo marcio sui suoi
vestiti. Il modo in cui lui le ricorda troppo di casa,
per qualche motivo, anche qui, anche così lontano.
Non è colpa sua. Giulia dovrebbe essere più gentile.
«Lavoro all’ufficio per studenti internazionali
dell’università», gli dice, e se ne pente subito.
«Forte», risponde lui. «Devi essere anche
Intelligente».
È la sua battuta d’uscita. Giulia non dice niente e
si volta verso il barista per chiudere il conto.
«Ma’am, stavo solo scherzando», le dice Travis.
L’educazione del suo accento del Sud le ricorda
finalmente di non essere a Livorno. «Non volevo
offenderti», continua Travis, ma è troppo tardi.
Giulia è esausta; vuole solo andarsene.
Il barista si avvicina con il conto, ma Travis lo ferma.
«Pago io per la signorina».
Giulia dice, no, no, no. Ma la voce di Travis è più
profonda della sua, e il barista esegue. Le parole
di Travis rimbombano come un assolo di batteria,
le linee di basso che provano a scandire il tempo
solo per chi vuole sentirle.
Giulia è partita per l’Oklahoma quando
aveva ventun anni e sua madre era appena
stata arrestata per spaccio. Giulia era
rimasta sola.
Giulia adorava Livorno – le corse in
motorino sul lungomare, i pantaloncini del
costume che le si appiccicavano addosso,
la volta in cui era a fare un aperitivo con le
amiche sul mare e le sembrava di aver visto
suo padre nella folla, il tatuaggio della falce
e martello sul braccio, una bottiglia di birra
che gli luccicava tra le mani.
Giulia aveva messo poco o nulla in valigia
oltre al disco dei Flaming Lips.
Non appena era atterrata in Oklahoma,
aveva guidato fino allo studio più vicino per
farsi tatuare per la prima volta,
in mezzo ai seni, come se un’incisione sulla
pelle potesse trasformarla in una persona
nuova. Si era tatuata un piccolo cactus che
somigliava a quelli morti nel suo cortile
a Livorno.
Non aveva mai smesso di comprare cose
nuove, come se potersi permettere nuovi
oggetti la rendesse qualcun altro; come se
possedere oggetti nuovi potesse dare forma
a una nuova se stessa.
Giulia aveva passato la sua prima settimana
in Oklahoma a fare shopping nel Plaza
District di Oklahoma City. Aveva comprato
un paio di stivali da cowboy, una pelliccia
usata che non le sarebbe servita fino
all’inverno e l’intera discografia dei
Flaming Lips. Non si poteva ancora
permettere un giradischi, ma si ricordava le
ore passate a immaginare le canzoni del
disco di suo padre. Sapeva che, a volte,
ascoltare non aveva importanza.
Dopo che Travis ha pagato, Giulia scende dallo
sgabello per uscire. È presto, sono solo le nove, e
Giulia non sa se andare a casa o
camminare fino a un altro bar. Vuole ancora
conoscere qualcuno. Vuole ancora essere una
persona nuova e diversa, e non vuole più essere
sola. Ma Travis si alza con lei. «Lascia che ti
accompagni a casa», le dice.
Giulia si ricorda di non aver mai gridato, con i
suoi genitori, anche quando si era resa conto che
sua madre non faceva la parrucchiera;
anche quando suo padre minacciava di andare via
finché non lo aveva fatto sul serio.
Ora Giulia vuole gridare fortissimo. «No», fa.
Travis la guarda. Giulia fa un passo indietro.
«Lascia almeno che ti abbracci», le dice, e Giulia
rabbrividisce al pensiero di avvicinarsi alla
camicia che sa di fumo rancido, ma si sente subito
in colpa.
«D’accordo» gli dice, «Ma non provare a fare
altro», e si sente una merda per averlo detto,
qualsiasi cosa significhi.
Travis le sorride, rassegnato. «È perché sono
feccia bianca», dice. Non è una domanda.
Feccia bianca. White trash.
Giulia sa che ha ragione. Travis rappresenta
tutto ciò che Giulia odia dell’Oklahoma: la chiesa,
le metanfetamine, tre figli prima dei trent’anni.
Lo immagina fumare chiuso nella sua roulotte,
il pick-up parcheggiato davanti a casa, la bandiera
sudista, il pitbull fuori dalla porta. Tutti gli
stereotipi.
Poi Giulia immagina suo padre vivere in un
appartamento fatiscente a Livorno, il sudore che gli
scivola sul tatuaggio con falce e martello, due
bandiere del Livorno Calcio e del Che al
posto delle tende.
Giulia sa che Travis ha ragione, e allora esce dal bar
senza rispondere, senza voltarsi indietro neanche
quando si ritrova in mezzo alla strada, al sicuro,
circondata da studenti che ridono e fanno la fila per
entrare nei locali. Spera che Travis non l’abbia
seguita.
Giulia si guarda indietro solo sulla soglia di casa,
con le dita affondate nella borsa alla ricerca delle
chiavi. Si volta perché ha paura che Travis sia
dietro di lei, sorvegliandola per sapere dove
trovarla in futuro.
Giulia non lo vede, e di nuovo si sente una stronza
per averlo pensato. Accende la luce, i piedi ancora
fuori dalla porta. Le maniche del suo nuovo maglione
candido prudono intorno ai suoi polsi. Il silenzio di
casa la ingoia tutta intera.
Quando era riuscita a permettersi di
comprare un giradischi, Giulia aveva
ascoltato per intero il disco dei Flaming
Lips di suo padre. Si era sentita una
persona nuova, persino in una cittadina
dell’Oklahoma, a 13722,88 chilometri dalla
casa popolare a Livorno.
Aveva messo il disco sul piatto e l’aveva
ascoltato tutto.
Si era resa conto che il disco era una
compilation di b-side – tutte le canzoni
scartate dagli album principali, come
ricordi fastidiosi lasciati alle spalle. Storie
secondarie impresse sul retro dei dischi.
Vecchi tatuaggi.
In alto: elaborazione grafica da foto: a sinistra Raychel Sanner (Oklahoma); a destra Petr Slováček (Livorno) / Unsplash.
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