Entrando in libreria all’inizio dell’anno domini 2022 era difficile non imbattersi in uno dei due. Michele Orti Manara e Marco Peano, intendo. Se poi ancora non ti eri incapricciato per la copertina classica del primo o per quella più misteriosa del secondo e puta caso chiedevi consiglio su un autore italiano sotto gli anta – una voce fresca, magari, che la pandemia ci dà già tanti pensieri – c’erano ottime probabilità che ti mettessero tra le mani l’uno o l’altro. Se poi avevi letto i rispettivi libri d’esordio dei due autori e ti erano pure piaciuti allora la faccenda si complicava. Siccome io non so scegliere, li ho presi entrambi, per uno o più dei suddetti motivi. Le somiglianze le ho scoperte dopo e mi pareva il caso di scriverne, perché forse forse non sono semplice incrocio di casualità astrali ma disegnano piuttosto una traiettoria, celeste o meno sarà al lettore giudicare.
Usciti a un solo mese di distanza, infatti, Morsi (Bompiani) e Consolazione (Rizzoli), di Marco Peano e Michele Orti Manara, condividono, oltre a una collocazione ideale che li situa in uno scaffale a metà tra il romanzo di formazione e la favola dark, alcuni tratti salienti che balzano facilmente all’occhio: l’ambientazione (un paesino sospeso nel tempo), la passione per il folklore e persino la stagione dei protagonisti, in entrambi i casi dei ragazzi inquadrati dagli autori in una preadolescenza foriera di cambiamenti. Siamo immersi, insomma, nell’atmosfera inequivocabilmente kinghiana dell’infanzia scossa da un terrore sconosciuto, infestata dal Male; quella che ci riporta in un attimo all’inquietudine di Stand by me o di It. Ma se l’opera di King sul nostro immaginario non fosse abbastanza, allora basterebbe pensare a Il signore delle mosche, un altro libro che ha avuto una (più o meno) felice trasposizione cinematografica negli anni Ottanta, in cui i nostri due autori, Peano e Orti Manara, erano bambini. D’altronde, sono gli anni in cui quel mondo perduto è stato centrifugato in serie di successo come Stranger Things, e anche nei patri confini gli autori italiani hanno (ri)preso a raccontare ragazzini sprovvisti di telefonini che devono rinunciare all’aiuto degli adulti. Ammaniti, Montanari, Varvello sono i primi nomi a venire in mente e la lista potrebbe continuare. Ma partiamo da Morsi senz’altro indugio. La storia di Marco Peano prende vita nel 1996 a Lanzo Torinese, un paesino di mezza montagna dove ogni cosa sembra rimasta ferma a cinquant’anni prima: si conosce il nome di tutti, si va a prendere il latte appena munto ogni mattina, ci sono le leggende e le feste comandate. «Era un paese di provincia simile a tanti altri delle valli di Lanzo. Possedeva molte caratteristiche del villaggio di alta montagna (in passato era stato luogo di villeggiatura) pur restandosene da sempre quieto ai piedi delle Alpi» ci informa il narratore dall’alto della sua onniscienza. Sonia è una bambina nata settimina, dunque un po’ gracile nel corpo, seppur brillante e precoce nel ragionamento. Trascorre l’inverno a casa della nonna, più comoda per raggiungere la scuola rispetto a quella dei genitori, dove la madre affettuosa è tutta impegnata ad arginare i danni del marito nullafacente e alcolizzato. Neanche a dirlo, la casa di nonna Ada – famosa in paese per essere una masca, ossia una sorta di guaritrice dotata di poteri taumaturgici – abbonda di scricchiolii, cigolii, odori sinistri e, naturalmente, ospita una stanza segreta dove Ada riceve i clienti che richiedono i suoi servizi. In tutta questa apparente placidità al riparo dai trambusti del mondo industrializzato, la scuola ha anticipato la chiusura natalizia per via di quello che viene chiamato «l’incidente»: la professoressa Cardone si sarebbe trincerata in aula e avrebbe fatto qualcosa di tremendo davanti ai bambini, qualcosa che Sonia scoprirà solo più tardi dal racconto di Teo Savant, il compagno di scuola preso in giro dai coetanei per quel suo inconfondibile odore di stalla e i chili di troppo. I due, è il caso di dirlo, si annuseranno e decideranno che ha senso fare fronte comune contro l’inquietante sequela di misfatti che sta per scuotere quell’angolo di mondo così sonnacchioso.
Sul piano tematico, dunque, non manca niente per leggere Morsi come un romanzo kinghiano: c’è il paesino intrappolato nella neve (un’eco delle Montagne Rocciose che circondano l’Overlook hotel di Shining?); c’è la maledizione, nonna Ada che traffica con l’occulto, la scuola (altro topos dell’infanzia capovolto, non più luogo sicuro ma fulcro degli orrori); ci sono adulti inservibili, specie se distratti e disfunzionali come quelli che si dovrebbero occupare di Sonia. Non ultimo, c’è il problema del crescere, del sentirsi strappati via dall’infanzia all’improvviso, mentre fuori, in un modo misterioso eppure inequivocabile, incombe una maledizione. «Ormai era chiaro a entrambi che diventare grandi significa imparare a dire addio», scrive Peano, e l’addio non può che passare per un evento catastrofico e violento, come qualsiasi ragazzino cresciuto con la Notte Horror di Zio Tibia ha imparato bene.
Gli amanti del genere non troveranno nulla da eccepire sull’impalcatura del romanzo. I leitmotiv dell’horror sono usati con una perizia che è probabilmente debitrice anche dell’esperienza di Peano come attento osservatore dei film di Dario Argento, di cui ha curato la biografia, nonché come lettore dei testi di un altro maestro del genere, H. P. Lovecraft (tanto che viene da pensare che il nome della protagonista, Sonia, sia un omaggio alla moglie dello scrittore statunitense, di cui il nostro ha assortito un carteggio col “Solitario di Providence” per i tipi dell’Orma). Proprio l’accuratezza della costruzione d’insieme, tuttavia, dà l’impressione che su altri versanti Peano abbia voluto strafare inserendo quanti più rimandi e occhieggiamenti possibili, rivolgendosi a un pubblico di coetanei capaci di coglierli. Non scarseggiano le scene truculente, il che è piuttosto una rarità nei libri con ambizioni letterarie dei nostri conterranei, ma la psicologia dei personaggi rischia di risultare appiattita sul ruolo da ricoprire, senza mai una deviazione da un tracciato già percorso. Sarebbe stato magari un altro romanzo, magari un boy meets girl, chissà, se Sonia e Teo avessero avuto più tempo per conoscersi senza essere incalzati dagli eventi. Forse ci saremmo ritrovati con due personaggi più tridimensionali. Una constatazione, questa, che sorprenderà ancora di più chi ha letto il romanzo d’esordio di Peano, L’invenzione della madre (minimum fax, 2015), un libro disperato e dolorosamente autobiografico, che tratteggia con una lucidità quasi scientifica il quadro di una famiglia schiacciata dalla malattia, soffermandosi proprio sui processi psicologici (anche i più minuti, i più conturbanti) di chi deve affrontarla. Il salto nell’horror, d’altronde, può essere interpretato proprio come il colpo di reni necessario a tagliare il ponte strettissimo dell’autobiografia e imboccare un percorso nuovo, che comunque, in un certo modo, vede nell’ingresso doloroso nell’età adulta un suo continuum.
Dall’altra parte abbiamo Consolazione (Rizzoli), il primo romanzo di Michele Orti Manara, che nel 2018 aveva esordito con la raccolta Il vizio di smettere (Racconti). Anche qui siamo di fronte a qualcuno che di letteratura s’intende e che, come Peano, non solo lavora in una casa editrice prestigiosa, ma sembra padroneggiare abilmente un genere che stavolta, più che indugiare nello splatter e in certi retaggi cinematografici, si aggira tra il gotico, il fantastico e certe atmosfere da fumetto nero.
Ci troviamo nuovamente in un paese circondato dai monti, Roccasa, da cui non si può né entrare né uscire rimanendo incolumi. Anche qui all’isolamento tutt’altro che dorato si affiancano le aleggianti superstizioni, ci sarebbe infatti una guaritrice che tramanda segreti di generazione in generazione e maneggia erbe in una stanza di casa sua (stavolta anziché masca si chiama sarachìa). Inoltre, in questa corrispondenza di amorosi sensi, ritroviamo pure qui una bambina che deve diventare adulta di colpo per mettersi in salvo, la vispa Teresa.
Orti Manara, come lo speaker radiofonico di Pontypool, è bravissimo nell’allestire un mistero attorno a questo paese che vive sospeso nel tempo fra pettegolezzi e sinistri presagi. Un prete viene trovato morto e lo sostituiscono con un estraneo guardato di sottecchi un po’ da tutti. La comunità sembra poterne fare a meno, in fondo, c’è la sarachìa, «a metà strada fra strega e sacerdotessa». L’unica in grado di offrire la Consolazione, quella guarigione prodigiosa delle ferite che sembrano comparire tutte le mattine sui volti delle compaesane.
In un piano alternato in cui flashback dei decenni precedenti si avvicendano col presente narrativo, lo scrittore svelerà il segreto che si cela nelle vite degli abitanti di Roccasa, ma a scoprirlo per davvero anche stavolta saranno dei ragazzini. Quattro, per la precisione: Teresa, Evelina, Marcello e suo fratello Tobia. I nostri eroi non hanno vissuto il Brivido, l’evento che sembra aver segnato le vite dei genitori e dei nonni. Conoscono per esperienza diretta però gli occhi neri e i nasi gonfi e arrivata una certa età i maschi cominceranno a emulare i padri, mentre le femmine dispiegheranno gli stratagemmi e le soluzioni creative che negli anni si sono sedimentati nel sapere popolare per scampare a questa furia distruttiva. Tutti ascoltano e assimilano le dicerie del paese: l’ambivalenza di sentimenti intorno alle sarachìe, l’impossibilità di lasciare il paese, un maschilismo che sembra una maledizione più che una condizione superabile. Anche in questo caso, come per Morsi, i più giovani sono lasciati soli: è a Teresa, infatti, che spetta il compito di sottrarsi al destino collettivo e cambiare il futuro; sarà lei che sceglierà di prendere in mano la situazione quando tutto precipiterà.
Arrivati alla fine di questo binge-reading, ci ritroviamo per le mani due romanzi, Morsi e Consolazione, che usciti insieme in libreria segnano quasi un passaggio generazionale, con la loro comune iconografia, l’insistita stretta del passato che torna a popolare di incubi il presente, i risvolti religiosi, la vita reclusa e opprimente di paese, il rifiuto dello sfuggente contemporaneo, la saggezza popolare affidata a speciali figure femminili, le masche/sarachìe, depositarie di una sapienza che si erge al di sopra della superstizione ma anche del sapere scientifico. Persino i nomi ritornano, come quello di nonna Ada, quasi in una comune ossessione che tocca i confini dell’onirico oltre che dell’onomastica. Più che a una coincidenza di generi e di intenzioni, allora, leggendo di seguito i due libri ci troviamo di fronte il profilo di un nuovo autore cresciuto con la tv degli anni Ottanta, che ha fatto suo un modo di raccontare il passaggio dall’infanzia all’età adulta come un rito solitario, spesso brutale, in cui gli adulti possono avere, semmai, solo un ruolo oppositivo. A pensarci bene, in questa atavica e genuina paura dei mostri scorgiamo la voglia nemmeno troppo sottaciuta di esorcizzare nuovi timori, riattivare uno spirito di sopravvivenza ormai alle spalle, tornare nostalgicamente nel porto sicuro dell’infanzia quando tutto sembra terribile. I mostri allora vengono addirittura sbattuti sullo schermo della pagina, e noi siamo chiamati a sconfiggerli con gli eroi di questa nuova narrativa.