Chi lascia il proprio luogo d’origine deve spesso confrontarsi con la nostalgia, da intendersi non come anelito a tornare alle proprie radici per un senso di repulsione nei confronti del luogo di arrivo o del nuovo che avanza, ma nel senso etimologico del termine: “dolore del ritorno”. Prima o poi, infatti, si è chiamati a confrontarsi con la lontananza, e di conseguenza a rimettere piede in posti dove abbiamo lasciato dei conti in sospeso con il nostro passato, che ci obbligano a un confronto doloroso, ma necessario, per la propria crescita. Un po’ come succede al protagonista di Animale, il primo romanzo del poeta e giornalista catanese Giuseppe Nibali, nuovo titolo della collana Incursioni della Italo Svevo Edizioni che ha in comune con titoli come Le isole di Norman di Veronica Galletta e Nostalgie della terra di Mauro Tetti il tema della nostalgia in senso di dolore del ritorno: quello alla propria terra, al passato e alla memoria.
Il protagonista di Animale è Giuseppe Nibali che con l’autore condivide soltanto nome e cognome. Questa dicotomia è ribadita sia dalla decisione di adottare una narrazione in terza persona sia dalla spiegazione che ci viene fornita all’inizio del libro. Nibali comunica sin da subito al lettore l’idea che la storia che sta raccontando sia, parafrasando il Walter Siti di Troppi paradisi, un facsimile di vita:
«Leggendo queste pagine non bisogna pensare alla storia di Giuseppe come a quella dell’autore, le due vite si assomigliano ma non coincidono, tracciarne i nessi sarebbe una questione piuttosto complicata».
In racconti di autofiction come questo, stabilire dei nessi fra ciò che è vero e ciò che è finzione è sempre complesso: ogni interpretazione potrebbe essere, allo stesso tempo, giusta e sbagliata. In questo caso, è come se Nibali avesse creato un alter ego che dà l’idea di parlare di sé quando in realtà usa soltanto alcuni elementi della propria biografia per raccontare una storia che molto probabilmente nella sua vita non ha vissuto (o lo ha fatto solo in parte). L’unica differenza che si può tracciare è che, rispetto al Nibali-autore catanese di nascita, il Nibali-personaggio è nato a Bologna da genitori siciliani originari di Giardini Naxos, in provincia di Messina. Come se il fatto di far nascere il proprio altro da sé al Nord e dargli genitori siciliani fosse un modo per rendere il confronto con le origini e il passato più forte e pieno di dissidi interiori. Così facendo, infatti, Nibali-autore fa vivere al proprio personaggio il dilemma dell’accettazione o del rifiuto delle proprie origini.
Quella di Giuseppe, raccontata in Animale, è la storia di un viaggio verso la Sicilia. Questo richiamo alla terra d’origine e al passato viene introdotto attraverso la descrizione di un video dal titolo «Animale, Aleppo est, 2016» che il protagonista guarda durante il suo tragitto in pullman. Ciò che si vede – dal racconto dell’autore − è un branco di lupi che risponde all’ululato di un capobranco che molto probabilmente ha scelto la via della solitudine, ma che sembra soffrire la sua condizione di sradicamento. La telecamera stacca successivamente su uno scavo archeologico e una città distrutta, «macerie umane» che «dall’alto segnano il dorso di una creatura abissale». L’ululato del lupo descritto coincide con il richiamo di Sergio, il padre del protagonista, che da Bologna, anni prima, era tornato a Giardini Naxos a seguito della morte di sua moglie e dunque madre del protagonista. «Giuseppe sa solo che suo padre è rimasto a Bologna finché ha potuto», riflette il narratore, «poi un giorno ha deciso di tagliare con tutti, lui compreso». Giuseppe è stato contattato dal maresciallo Gaglio, amico d’infanzia di Sergio per fargli sapere che il padre è stato ricoverato d’urgenza in ospedale a Taormina dopo aver avuto un ictus.
Restando all’analogia del lupo, Sergio richiama involontariamente il figlio dalla propria solitudine per sistemare dei conti in sospeso, essendo l’unico legame familiare che gli è rimasto:
«Sta andando da suo padre. Finalmente potrà entrargli dentro la testa, scavare tra le macerie, separare le parti vive da quelle morte. Il buio vuole cercare, quello che la distanza ha covato, e che l’ictus ha poi reso libero».
E così Giuseppe compie una sorta di viaggio negli Inferi, più precisamente «oltre l’abisso». Il protagonista deve tornare in Sicilia per stare vicino al padre ricoverato; lì a Naxos ritrova anche la casa dove trascorreva le vacanze estive con la sua famiglia che intanto è diventata la residenza di Sergio. Il protagonista è costretto a confrontarsi con essa: «rivedere adesso quella casa», afferma il narratore, «significa tornare con la mente all’origine di tutto». Sergio non solo, dunque, riporterà il figlio al passato – fatto di ricordi, di luoghi di famiglia e delle storie che si sono sempre raccontati –, ma permetterà a Giuseppe anche di espiare il proprio dolore e le proprie colpe, e confessare il non detto prima che il buio inghiotta tutto.
Chi conosce Giuseppe Nibali – l’autore in carne e ossa –, sa che lo scorso anno ha esordito come poeta per Arcipelago Itaca con Scurau, una raccolta che già dal titolo – “scurau” in siciliano vuol dire “si è fatto buio” – dà l’idea di un immaginario meridionale lontano dagli stereotipi del calore e dell’accoglienza, o per dirla à la Goethe, lontano dall’idea di un «paese dove fioriscono i limoni» e «brillano tra le foglie cupe le arance d’oro». La Sicilia di Nibali si fa luogo dell’anima e assume contorni universali, dove tutto è avvolto dal vuoto, dalla sofferenza e dall’impossibilità della luce. Questi temi trattati in Scurau tornano grossomodo anche in Animale, dove si riconosce l’eco dei seguenti versi del poeta catanese, tratti dall’ultima sezione della raccolta, scritta in siciliano, di cui si riporta la traduzione in italiano:
«Conosce l’uomo il suo teschio, si ricorda della strada –/ la strada, quella mischia il correre e il fuggire – e piange./ è rimasta una piccola castagna di neve, sopra lo stomaco/ del figlio. Non ha
voluto guardare. Non ne ha voluto sapere// Ora come una maschera di porco viene fuori dallo specchio/ ballando e girando, tremando e guadagnandosi il pane, e/ ogni giorno entra scava
graffia, e se ne va in giro per gli autobus/ piangendo e maledicendo, per quando tornava a casa e/ suo figlio, che quando lo vedeva se lo baciava tutto/ tutto gli rideva».
Tutto il romanzo di Nibali è costellato da ricordi che affiorano e fanno male, ma che Giuseppe e Sergio devono affrontare per cercare di risolvere il vuoto e le macerie che si sono lasciati indietro. Non è un caso che si sia deciso di citare prima i romanzi di Galletta e Tetti poiché, a livello di struttura e stile, Animale funziona allo stesso modo: il tempo presente si intreccia, infatti, con quello passato. Scavare nelle macerie del passato porta Giuseppe a scandagliare e a comprendere il comportamento del padre. Le storie del Sugghiu, di Colapesce, della mattanza dei tonni e della moria di cavalli lungo il fiume Alcantara che Sergio ha raccontato al figlio si fanno verità che emergono dalle macerie: sono storie che restituiscono la paura del padre di fronte al buio, il timore di amare gli altri perché la morte prima o poi se li porta via e dunque della solitudine.
Padre e figlio devono fronteggiare questa paura per non farsi inghiottire da un dolore ancora più grande, ovvero il senso di colpa per essersi lasciati alle spalle il passato e aver ricominciato da zero senza aver tentato una resa dei conti finale. Confrontarsi con il senso di colpa implica la necessità di mettersi a nudo. Nel fare ciò, Giuseppe – autore e personaggio – lavora sulla lingua:
«Giuseppe si chiede se la sua lingua sarà come la vuole: dura, corrosiva, capace di far male all’occorrenza. Ripensa al video di Aleppo. Un ululato cerca, acuto come quello dei lupi. Sergio è nella città distrutta, tra cumuli di macerie e desolazione. È Aleppo che vede nella notte che gli è esplosa in testa».
Il linguaggio di Nibali è un linguaggio nudo, animale, primordiale, atto a «rispondere a un principio antico». Termini ricorrenti sono legati al campo semantico del buio, dell’animale e del mostro, quasi a ristabilire la primitività di Giuseppe e Sergio, poiché portarli allo stadio animale è l’unico modo per purificarli delle loro colpe. Non è un caso che Giuseppe si rivolga a suo padre usando il nome proprio, perché portarlo allo stadio animale significa privarlo – e privarsi – di ogni categoria, comprese quelle di “padre” e “figlio”. Per ricominciare da capo bisogna rinunciare a tutto ciò che ci determina nel qui e ora. Questa idea del ridurre le persone al loro stadio animale è già apparsa in Vergogna di J.M. Coetzee, in quell’imperativo che Lucy dà al padre: «iniziare come un cane», perché amare e perdonare significa mettersi a nudo. Giuseppe e Sergio, dunque, devono, parafrasando Coetzee, “iniziare come gli animali”:
«L’uomo che fieramente lotta e muore, i sopravvissuti che, trascinandosi tra i cadaveri dei nemici, ritrovano i volti dei fratelli e dei parenti. Anche per Giuseppe adesso è il momento di affrontare il corpo ferito del nemico e di riconoscere in lui suo padre».
Il ritorno in Sicilia significa riconoscere che «ciò che era nato dentro di lui [Sergio] è germogliato nel petto di Giuseppe». Il protagonista deve confrontarsi con qualcosa che ha sempre cercato di rimuovere: la paura dell’abbandono, della morte e l’accettazione della solitudine. Una paura che ha costellato la vita di Sergio, un uomo che ama «come un animale», in preda a istinti ferini e incapace di accettare la sconfitta e l’amore di sua moglie per un altro uomo. Parafrasando Franco Battiato, l’animale che Sergio si porta dentro non l’ha fatto mai vivere felice, e proprio come un animale ha deciso di morire in solitudine tornando al proprio luogo d’origine. Allontanarsi, però, richiede prima o poi un ritorno, perché più ci si avvicina al buio, più si vuole cercare di rimediare alle proprie colpe. Ed è per questo che Sergio ha “richiamato” Giuseppe: per cercare empatia, trovare qualcuno che possa porre fine alle proprie macerie. Padre e figlio impareranno a condividere la solitudine, e dunque ad accettare la paura, la morte e l’abbandono come parte fondamentale del proprio essere animale.
Quello che Giuseppe Nibali racconta in Animale non è un ritorno alla Sicilia fatto di calore familiare – dopotutto ci appare piovosa, il sole si fa distante, e ci si trova di fronte più a un luogo di macerie che a un luogo degli affetti –, ma un ritorno a un passato difficile da affrontare, un tentativo di raccogliere le pesanti macerie dell’abbandono per poter ricominciare come gli animali: nudi, liberi dalle proprie colpe ma accomunati da un imminente destino di buio e morte, che solo nella condivisione del dolore e della paura si può superare. Giuseppe compie verso il padre «una discesa nell’Averno del passato»: un percorso di espiazione e di consapevolezza della propria storia per propiziarsi un nuovo inizio.