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Ciò su cui si regge un libro così famoso come I detective selvaggi non è altro, a mio parere, che un comportamento insensato. Due dei personaggi principali, Arturo Belano e Ulises Lima, si sono dichiarati seguaci di Cesárea Tinajero, una poetessa di cui non hanno letto nemmeno una riga. Tinajero è ormai sparita da tempo, ma Belano e Lima si sono posti l’obiettivo di ritrovare lei e i suoi scritti, ovunque siano finiti. Si considerano addirittura i prosecutori del movimento poetico da lei fondato cinquant’anni prima, il realismo viscerale, che però non ha neanche un manifesto. Quando lessi per la prima volta I detective selvaggi mi sorpresi: che senso ha una tale ossessione, apparentemente fondata sul nulla?

A ben vedere, questa fascinazione per i poeti che prescinde dai loro testi la si trova ovunque nel romanzo (Bolaño in un’intervista menziona a tal proposito il poeta trovatore Jaufrè Rudel, «che si innamorò letteralmente per sentito dire di una contessa che viveva a Tripoli»). Il narratore della prima e terza parte, Garcia Madero, prova qualcosa di simile per Belano e Lima, e a sua volta ammette: «Nessuno ha mai letto una sola delle mie poesie però tutti mi trattano da realvisceralista come loro. Il cameratismo è spontaneo e magnifico!». Del resto sembra che tutti, in questa Città del Messico (Distrito Federal, DF, defe), siano più o meno dei poeti, così che quando li incontri non puoi fare a meno di immaginare le loro poesie (ma raramente le leggerai, tutti sono al massimo in procinto di pubblicare…). Poi c’è la questione della seconda parte del romanzo. Sembra essere composta da registrazioni di colloqui o interviste, di fatto si presenta come una serie di frammenti, in cui è sempre indicata la data, il luogo e il nome della persona che sta parlando. Chi le ha raccolte? Grosso problema. Solo uno degli intervistati, in circa cinquecento pagine, sembrerebbe rivolgersi all’intervistatore con il nome di Belano (‹‹La mia vita era destinata al fallimento, Belano, proprio così››, afferma Andrés Ramírez nel frammento di dicembre 1988). Ma non è in alcun modo possibile che fosse Belano a raccogliere molte altre delle interviste. Dunque, ecco la mia ipotesi: l’autore della seconda parte dev’essere qualcuno – di cui non sappiamo nulla – che dopo aver trovato il diario di Garcia Madero nel deserto del Sonora ha deciso di mettersi a sua volta sulle tracce di Belano, Lima, Madero (di cui – stranamente – nessun poeta del DF serba memoria) e tutti gli altri poeti del movimento infrarealista. Viaggiando per il mondo, dalla California a Israele, questo misterioso autore fa di se stesso l’ultimo anello di una lunga catena di poeti in fuga, e a loro volta sulle tracce di altri poeti (tale catena è, forse, la figura più importante de I detective selvaggi).

Torniamo alla nostra questione: perché Belano e Lima sono in cerca della poetessa Cesárea Tinajero? Si tratta della stessa domanda che anima Lo stadio di Wimbledon (ci sono due scrittori più diversi di Del Giudice e Bolaño?), ma ancora più radicale: per lo meno la figura di Bobi Bazlen, ormai morto da anni, godeva della fama di intellettuale finissimo, che giustificava la curiosità nei suoi confronti. Cesárea invece rappresenta la rinuncia più totale (Vila-Matas la avrebbe di certo inclusa nel suo Bartleby e compagnia), con il suo non voler pubblicare, smettere di frequentare altri poeti e ritirarsi in un posto sperduto, quel deserto del Sonora, al confine con gli Stati Uniti, cruciale per Bolaño (fatto interessante: leggendo un passo di Sepolcri di cowboy sembra che da lì venisse sua nonna, per altro coetanea di Tinajero).

Ho trovato interessante un articolo: Bolaño and Infrarealism, or ethics as politics. Il suo autore, Ruben Medina, dichiara di essere stato insieme a Bolaño e Mario Santiago tra i membri fondatori dell’infrarealismo, il movimento letterario di cui il realvisceralismo è il corrispettivo finzionale all’interno del romanzo. Il poeta celebrato dagli infrarealisti, scrive Medina, è colui che «resiste al mercato», e «rifiuta di integrarsi nelle strutture di potere letterarie» (in particolare, gli infrarealisti ce l’avevano con gli scrittori sovvenzionati dalle istituzioni messicane: pare, infatti, che le incursioni distruttive di Belano e soci nei reading di poesia avvenissero davvero, come testimonia Carmen Boullosa: «Con i miei stessi occhi vidi alcuni infrarealisti (i sabotatori) lanciare un bicchiere contro Paz (che stava benissimo, con una giacca elegante) e il poeta scuotersi la cravatta e poi proseguire la conversazione come se non fosse successo nulla, sorridendo»), proponendosi di «ricercare una nuova relazione fra il poeta e l’ascoltatore/lettore e ricreare una nuova immagine del poeta, formata dall’interazione fra il centro e il margine». Medina procede poi a spiegare, citando Gramsci e Foucault, perché i personaggi de I detective selvaggi sono «poeti senza poesie». Ciò che è importante, afferma, non è la loro intelligenza o sensibilità (che si dovrebbero manifestare nelle poesie), ma il loro ethos, il loro astenersi dal divenire «scalatori sociali, codardi, cannibali». Ebbene, direi che sotto questa luce il valore di Cesárea Tinajero risiede nel suo rifiuto di mercificarsi in quanto poetessa. Sotto la stessa luce, però, Bolaño e compagnia acquistano quell’aspetto di ribelli che è stato tanto utile per pubblicizzarne le opere e renderlo un’icona, specialmente nel mercato americano, dove le foto giovanili con la sigaretta e il chiodo si accompagnano ai gossip riguardo l’uso di sostanze (articoli come questi hanno il preciso e sacrosanto obiettivo di smontare tale mitizzazione: credo sia importante ricordare che il Bolaño  scrittore fosse, tutto sommato, un padre di famiglia in una cittadina della provincia spagnola –  non proprio un poeta maledetto). In ogni caso, l’ interpretazione che vede Tinajero come una ribelle è senz’altro la prima da considerare. Chiediamoci ora quali siano le altre possibilità.

I detective selvaggi, per ammissione dello stesso Bolaño, deve molto a Rayuela. Proprio come per il romanzo di Cortázar, anche in questo si può scegliere di leggere le parti che lo compongono in ordine diverso da quello in cui sono disposte le pagine. Per esempio: nella seconda parte molte interviste vengono spezzate, e invece si possono benissimo leggere tutte di filato. Penso alla conversazione in cui Amadeo Salvatierra racconta di aver ricevuto Belano e Lima a casa, e di avergli mostrato l’unico numero di Caborca, la rivista di Cesárea Tinajero. Quella conversazione la si può leggere tutta insieme, saltando di volta in volta le altre pagine, e forse la si può anche leggere prima di tutto il resto. Inoltre, si può scegliere di leggere di seguito la prima e la terza parte, e solo dopo la seconda. Ha perfettamente senso, visto che costituiscono un diario senza interruzioni. Proviamo perciò a fare così anche noi. La prima parte si è conclusa con il narratore Garcia Madero che, insieme ai suoi due idoli Belano e Lima, fugge in macchina verso il deserto del Sonora per trarre in salvo la lumpenproletaria Lupe dal suo magnaccia. La fuga coincide però con la ricerca di Cesárea Tinajero. Eccoci così subito al finale: il gruppo scova la poetessa, ma al contempo viene raggiunto dal loro inseguitore. C’è uno scontro a fuoco. Tinajero riesce a salvare i ragazzi, gettandosi sugli inseguitori e ricevendo una pallottola, fatale, che era destinata a Lima. Semplice ma perfetto: Tinajero rappresentava la possibilità, a lungo vagheggiata da Bolaño, di non uscire mai con una pubblicazione, incarnando così l’ideale del poeta incorrotto e disinteressato (un poeta etico, e non scrittore, se la cosa ha senso?). Tinajero deve perciò morire affinché il libro si concluda. È proprio il ricordo di questa scena conclusiva che mi aveva spinto a riprendere in mano il romanzo: in generale mi interessa vedere come alcuni scrittori riescano a versare la possibilità del silenzio sulla pagina e nei personaggi, per poi trovarsi a dover “elaborare il lutto” quando, per una necessità direi anzitutto logica, il non-scrittore che è in loro – e nei loro scritti – deve necessariamente morire (se non fosse così, se gli scrittori non avessero deciso infine di uccidere i loro Bartleby, allora semplicemente non potremmo leggere i loro libri, che in tal caso non esisterebbero neppure). 

Raúl Rodríguez Freire dice qualcosa di simile in Ulysses’s last voyage: Bolaño and the Allegorical Figuration of Hell. Più precisamente, Cesárea Tinajero è qui considerata come una figura di profetessa. Avendo lavorato in una delle prime maquilladoras, negli stessi luoghi in cui avverranno gli omicidi narrati in 2666, «Cesárea vide il male che stava per arrivare, un evento orribile impossibile da comunicare a chiunque». Ma, poiché «essere in possesso della verità non è sinonimo di trasmetterla a qualcuno», Freire ne conclude che «apparire per non tornare più era la sua [di Cesárea] strategia ed eredità … versare il suo sangue allo scopo di dar vita a Ulises Lima, in modo che potesse testimoniare ciò che aveva previsto e non era in grado di trasmettere».

Ribelle contro l’establishment, possibilità meta(fisico-)letteraria di rinuncia alla pubblicazione, custode di un segreto/profezia indicibile. Questi, mi sembra, sono tre modi, assolutamente leciti e non contraddittori, in cui si può caratterizzare la figura di Cesárea Tinajero, e di conseguenza tre modi per spiegare l’ossessione che Belano e Lima provano nei suoi confronti. Per conto mio, vorrei proporvene un altro. Ma per farlo devo citare alcuni episodi sparsi.

Cominciamo dal racconto Vagabondo in Francia e in Belgio, incluso in Puttane assassine. Il protagonista, B, trova un vecchio numero di una rivista in cui, fra altri collaboratori noti, appare il nome di un autore, Henri Lefebvre.

«B non conosce affatto Lefebvre. È l’unico che non conosce per niente, e il suo nome in quella libreria dell’usato si illumina all’improvviso come un cerino in una stanza buia».

Il numero della rivista è misteriosamente dedicato «ai grafismi o alle grafie», così che il testo di Lefebvre, riportato in corsivo, non si può neanche davvero leggere o capire, proprio come per le “poesie grafiche” di Cesárea Tinajero e gli “enigmi” di Garcia Madero, lo si può solo «osservare» («forse, ma solo forse, parla dell’essere»). A quanto pare, l’attività letteraria di tale Lefebvre è stata quasi nulla. Alla sua morte fra il materiale che ha lasciato, «15 chili di manoscritti e disegni», c’è «très peu de textes “publiables”». B lo aveva capito subito: «L’eclissi è il rapporto fra Henri Lefebvre e la letteratura. O per meglio dire: l’eclissi è il rapporto fra Lefebvre e la scrittura». Nel prosieguo del racconto, B si metterà sulle tracce del poeta scomparso. Dunque, tutto veramente molto simile a I detective. Ma quello che qui ci interessa è il finale, dove Bolaño, e il protagonista B, si sbilanciano meravigliosamente:

«Perché ti preoccupi di lui, dice, senza smettere di ridere. Perché nessun altro lo fa, dice B. E perché era buono. Subito dopo pensa: non avrei dovuto dirlo. E pensa: Mi riattaccherà. Stringe i denti, involontariamente il suo volto si contrae. Ma M non riattacca».

In Ultimi crepuscoli sulla terra invece il giovane narratore rimugina sulla storia di Gui Rosey, un poeta minore – tanto nella produzione che nell’aspetto – del gruppo surrealista. Ci viene raccontata la sua fine, che ha luogo in un paese della Francia, durante l’occupazione tedesca. Rosey si trova lì insieme agli altri surrealisti: nella speranza di fuggire dai nazisti imbarcandosi per l’America. Ebbene, in questo marasma Gui Rosey semplicemente scompare, e tutti, preoccupati di mettersi in salvo, lo dimenticano (una sorta di Walter Benjamin dunque, ma più sfigato).

«Legge i poeti surrealisti e non capisce niente. Un uomo pacifico e solitario, sull’orlo della morte. Immagini, ferite. Queste sono le cose che vede. E poi le immagini a poco a poco si vanno diluendo, come il sole che tramonta, e rimangono solo le ferite. Un poeta minore scompare mentre aspetta un visto per il Nuovo Mondo. Un poeta minore scompare senza lasciare tracce mentre dispera arenato in un paese qualsiasi della costa francese. Non ci sono indagini. Non c’è cadavere».

A Ulises Lima, alias Mario Santiago Papasquiaro, succederà più o meno la stessa cosa ne I detective, quando parte per Managua con una delegazione di poeti messicani, lasciando perdere le sue tracce nell’indifferenza dei compagni di viaggio, per poi ricomparire solo a distanza di anni. Sempre ne I detective ci viene raccontato, a dire il vero senza troppa enfasi, l’occasione della nascita del realismo viscerale. Dunque: Cesárea Tinajero era stata in un primo tempo accettata nel gruppo – questo realmente esistito – degli stridentisti, ma vi uscirà poco dopo, quando le chiederanno di escludere la sua amica Encarnaciòn, che lei aveva voluto far entrare nel gruppo. Per tutta risposta le due fondano il loro movimento, quel realismo viscerale a cui Belano e Lima cinquant’anni dopo sentiranno di appartenere. Un movimento, dunque, che non ha niente che lo caratterizzi, se non questo, di esser stato creato per contrapporsi all’esclusione di un’amica (bisogna forse notare che i testi di Encarnaciòn, come del resto anche quelli di Guy Rosey, esistono, per lo meno nella finzione, e si possono leggere, ma sono brutti, noiosi: l’interesse per questi poeti, perciò, non sembra dipendere dal fatto che il testo non ci sia, semplicemente non dipende dal testo).

Per finire, il manifesto infrarealista. Intitolato Déjenlo todo, nuevamente (“Mollate tutto, di nuovo”), e scritto da Bolaño nel 1976, quando aveva solo 23 anni, comincia così:

“Fino ai confini del sistema solare ci sono quattro ore-luce; fino alla stella più vicina quattro anni-luce. Uno smisurato oceano di vuoto. Ma siamo davvero sicuri che ci sia solo un vuoto? Sappiamo solo che in questo spazio non ci sono stelle luminose, perché sarebbero state visibili. Ma è possibile che esistano corpi non luminosi ma oscuri? Forse le nostre mappe celesti, come quelle terrestri, indicano le stelle-città e omettono le stelle-villaggi”.

Si tratta di una citazione presa da un racconto di fantascienza, L’infra del dragone (in italiano lo si trova in 14 racconti di fantascienza russa, Feltrinelli). Gli Infra sono appunto dei soli oscuri, invisibili, che a causa della loro temperatura di circa 30 gradi – sono stelle piccole e alla fine della loro vita – emettono solo raggi infrarossi. Di fatto sono dei luoghi teoricamente abitabili per gli astronauti, anche se il calore che si percepisce nella loro atmosfera non viene da un altro corpo celeste, ma dalle viscere della stessa stella, il che la rende simile a un grosso termosifone galattico, ma invisibile. È interessante che nei suoi ultimi anni di vita, scrivendo 2666, Bolaño abbia ancora la fantascienza russa in testa, visto che è lo stesso genere di cui scrive Boris Ansky, lo scrittore fantasma scoperto da Reiter/Arcimboldi, ma molto più stupefacente è come a 23 anni, iniziando a scrivere il suo manifesto, Bolaño avesse già presente quello che sarà – per usare un termine vetusto – la sua “poetica”. Cesárea Tinajero, Henri Lefebvre, Gui Rosey, Boris Ansky, lo stesso Mario Santiago, sono tutti degli infra. Nel manifesto una sola frase è ripetuta due volte, «il poeta è un eroe che rivela altri eroi». Dunque era chiaro a Bolaño da subito, poco più che ventenne: scriverà di eroi alla ricerca di città-villaggio invisibili, non presenti sulle mappe spaziali (o, diremmo noi, nei canoni letterari).

Questo, credo, è un modo proficuo per intendere Bolaño e le sue manie inter- e meta- testuali, un modo che faccia emergere la sua differenza rispetto al resto della letteratura latino-americana e postmoderna. Il motivo del viaggio di Belano e Lima, direi, forse non risiede tanto nella convinzione di poter capire qualcosa in più, venendo finalmente a conoscenza di chissà quale segreto custodito da Cesárea Tinajero (cosa che ad esempio saremmo portati a pensare, legittimamente, vedendo Tinajero come una “profetessa” del male che arriverà nel Sonora). Cesárea Tinajero è, per dirlo in un modo talmente semplice da sembrare grottesco, una persona  «buona», che non ha voluto escludere la sua amica, decidendo piuttosto di lasciare il salotto buono della letteratura (ma, ripeto, ciò che più mi interessa non è la ribellione nei confronti dell’establishment letterario, che ne è una conseguenza). Se non fossero Belano e Lima a cercarla, non lo farebbe nessun altro, così come nessuno fra i surrealisti, di cui i realvisceralisti sono una riscrittura, si è preoccupato di rintracciare Gui Rosey (ne I detective selvaggi sembra che Belano si atteggi a fare il Breton de’ noantri, espellendo alcuni membri dal gruppo dei visceralisti in modo casuale e volubile – si rivelerà solo uno scherzo). Emerge così un senso di solidarietà telepatica, una capacità di «innamorarsi per sentito dire», una iper-connettività fra persone di cui forse, in fondo, il fatto che siano poeti non dovrebbe importarci così tanto. Che siano poeti, forse, conta solo perché ciò dà la possibilità di lanciare un segnale, ad esempio apparendo come nome citato in una piccola rivista. Ecco perciò il radioamatore all’interno dell’Accademia della Patata ne Lo spirito della fantascienza che invia messaggi a vuoto nell’etere e, nello stesso libro, il giovanissimo poeta che spedisce lettere agli scrittori americani di fantascienza, ecco in Sepolcri di Cowboy il protagonista che rispondendo per puro caso a una chiamata da un telefono pubblico riceve una “convocazione” da un sedicente gruppo surrealista in incognito.

Altrove (bisogna dire che I detective è senz’altro il libro più luminoso di Bolaño) questo fenomeno di telepatia e di reciproca somiglianza/comprensione assume dei connotati spaventosi. Per esempio: in Stella distante l’alter-ego di Bolaño riesce a scovare il poeta-serial killer (nazista) Wieder nonostante i suoi scritti appaiano, sotto pseudonimo, in minuscole fanzine autoprodotte, perchè ne riconosce lo stile, e una certa affinità. Chiamate telefoniche è ancora più spaventoso: il protagonista una notte chiama la donna amata rimanendo in silenzio, più tardi però la donna sarà uccisa da un uomo che, scopriremo, aveva l’abitudine di fare la stessa cosa, di chiamarla e non dire una parola al telefono (questo racconto apre una vera e propria voragine: la scelta del silenzio nei libri di Bolaño è compiuta da eroi e santi, ma anche dai peggiori criminali nazisti). Decisamente terrificante è un racconto come Silva, detto l’Occhio, dove si descrive il tentativo del protagonista di salvare dei bambini indiani da un rito di castrazione, quei bambini che, assolutamente innocenti eppure destinati a finire in un bordello, assomigliano ai giovani che credevano in Allende, nella rivoluzione, nel «paradiso latinoamericano» o nella poesia, ma hanno perduto la loro gioventù nelle sale di tortura, o a causa di un’overdose o dell’AIDS – ebbene, il disperato tentativo di Silva, detto l’Occhio, assomiglia in modo inquietante a un rapimento, oltre che a un salvataggio (la ricerca degli infra, delle possibilità inespresse, dei poeti senza poesie – ricerca che secondo noi è così essenziale in Bolaño – perderebbe così uno smalto di innocenza).

I detective selvaggi è stato pubblicato nel 1998. Dal 1992 Bolaño sapeva di avere una malattia al fegato, e mi sembra che, a ragione o a torto, la avesse recepita immediatamente come una notizia piuttosto grave. Alcuni, come il sopracitato Medina, ritengono che Bolaño si fosse deciso a scrivere prosa in quel momento, per assicurare un sostentamento alla famiglia anche dopo la sua morte (che comunque sarebbe avvenuta a dieci anni di distanza). Ma si possono scrivere quei capolavori solo per fare soldi? Mi sembra difficile da immaginare. Forse, però, si può scrivere così bene in preda al rimorso. Rimorso dovuto alla scelta di aver abbandonato la poesia, e gli ideali che la attorniavano, ma soprattutto per aver lasciato andare molte persone. Infatti se I detective è da intendersi, secondo lo stesso Bolaño, come una «lettera d’amore a un’intera generazione», il destinatario principale di quella lettera era certamente Mario Santiago Papasquiaro, che nel romanzo è Ulises Lima. Nel momento in cui stava scrivendo I detective Bolaño non lo vedeva da vent’anni, ma sapeva della sua condizione di alcolizzato e di poeta senza alcun successo. Per una coincidenza tragica, Santiago morirà negli stessi giorni in cui erano pronte le bozze del romanzo, senza avere la possibilità di leggerle. Notiamo bene: Cesárea Tinajero nel finale de I detective aveva salvato la vita proprio a Lima/Santiago, non a Belano/Bolaño, il quale invece, nella vita reale, non è riuscito a salvare il suo amico (lo ha reso un grandissimo personaggio, questo sì: il frammento in cui si descrive l’incontro nel parco fra Lima e un vecchio Octavio Paz è in assoluto la cosa che preferisco fra quelle scritte da Bolaño). Ora, mentre scrive, ha paura di non riuscire a prendersi cura neanche di suo figlio, a causa della malattia. Ecco il punto: per Bolaño, la letteratura è il luogo in cui si salva e ci si salva. Il protagonista di 2666, praticamente illetterato, comincia a leggere nel nascondiglio di uno scrittore russo (anche lui, è ovvio, sconosciuto). Com’è fatto il nascondiglio? È un anfratto nascosto dietro un camino, che funziona al meglio quando questo è acceso:

«Per far funzionare il nascondiglio alla perfezione […] era necessario che ci fossero due persone: quello che si nascondeva e quello che restava fuori e metteva un paiolo con la zuppa a scaldare e poi accendeva il fuoco nel caminetto e lo attizzava nel caminetto. […] Quello che si salva, pensò Reiter, e quello che lo salva».

Che alla lettera vorrebbe dire: si salva chi ha attraversato il fuoco e da lì scrive, protetto dal nascondiglio (forse dovremmo leggere: anonimato) che qualcun altro gli rende possibile.

Veniamo ora al sentimentale. Ne L’università sconosciuta si trovano due poesie dedicate a Lautaro Bolaño. Ecco come, in una nota posta alla fine del libro, suo padre, Roberto, ne spiega il senso:

«Disperato davanti alla prospettiva di non rivedere più mio figlio, a chi potevo affidarlo se non ai libri? È molto semplice: un poeta chiede ai libri che ha amato e che lo hanno commosso protezione per suo figlio negli anni a venire. Nell’altra poesia, al contrario, il poeta chiede a suo figlio di prendersi cura dei libri in futuro. Cioè di leggerli. Protezione reciproca. Come il motto di un’invincibile banda di gangster».


↔ In alto: Torre Mayor, Ciudad de México, Mexico – Alexis Tostado / Unsplash.

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