«Per elevarmi, devo ridurmi» sono le parole di Falstaff, personaggio dell’Enrico IV di Shakespeare, solo uno dei tanti nomi in un elenco di artisti e letterati, intellettuali che, attraverso le loro opere, le loro parole, hanno contribuito, nel sedicesimo secolo alla definizione di un canone estetico che ha assoggettato «il corpo alla ricerca del trinomio perfetto: magrezza – bianchezza – abilità» (p.12): è da questa triade che inizia lo studio condotto da Sabrina Strings, sociologa e professore associato all’Università della California, nel suo Fat Phobia, saggio pubblicato dalla casa editrice Mar dei Sargassi, nella traduzione di Marina Finaldi e con l’eccellente prefazione di Giulia Paganelli.
Il libro si snoda in una ricostruzione storica accuratissima, con l’intento di definire culturalmente la grassofobia, attraverso uno studio delle concezioni di corpo elaborate dalla società, con particolare attenzione a quella statunitense, da una prospettiva di genere e in epoche differenti, per risalire all’origine dello stigma verso i corpi grassi, purtroppo ancora attuale, con un percorso che parte dai poli artistici del sedicesimo secolo, fino ad oggi; dall’Europa agli Stati Uniti; dall’arte rinascimentale, per concludersi con le testate giornalistiche attuali. Parallelamente, apre una finestra su una storia sconclusionata, fatta di orizzonti che si allargano, di un incontro tra l’Occidente e il resto del mondo sempre più frequente e che rende urgente la definizione di un’identità, per tracciare tra il Sé e l’Altro dei confini; dove ci sono gruppi egemoni e comunità escluse e sfruttate; una storia sconclusionata di cui anche noi facciamo parte.
Nei quadri dei grandi artisti del Rinascimento e nelle sculture, figuravano corpi femminili, riprodotti con particolare attenzione alle scelte cromatiche e alle proporzioni. Un esempio sono le statue della Venere, da sempre prototipo della bellezza, nuda ma pudica. Alla fine del 1500, iniziarono a comparire, sulla scia dalla presenza delle schiave nere, le statue di Veneri africane invece ostentanti la nudità e i cui corpi vennero oggettificati, fino all’ascesa, nel diciottesimo secolo, della Big Black Woman, che ha contribuito alla diffusione dell’associazione tra nerezza e corpo grasso; per estensione tra corpo grasso e sregolatezza. Da qui, Fat Phobia assume una prospettiva inedita, nel momento in cui Sabrina Strings individua nella grassofobia un asse di una violenza strutturale e simbolica – sfociante nel razzismo – perpetrata ai danni dell’Altrǝ razzializzatǝ, specialmente del popolo nero; ai danni di quei corpi definiti sporchi, non sani, pigri, ingordi, dal diverso colore di pelle e dalla differente struttura fisica.
I fondamenti di questo pensiero nati in Europa occidentale, negli Stati Uniti, dove il corpo magro, ottenuto ricorrendo a diete ferree si trasformò, sulla scia dei precetti della riforma, in un «messaggio di superiorità etnica e elevazione spirituale», «si compattarono in un’ideologia», per questo le élite si adoperavano per mantenere una distinzione sociale tesa a naturalizzare le gerarchie sociali, specularmente a marginalizzare chi non rispondeva ai criteri stabiliti da chi deteneva – per dirla con Keesing – il controllo culturale; ma tra le forme di marginalizzazione, la grassofobia ha prosperato nel tempo, forse perché – come spiegato da Giulia Paganelli, nella sua intervista per Mar dei Sargassi, riprendendo lo storico Michel de Certeau – è la meno considerata, in quanto «il corpo grasso non è altro, non è staccato dal corpo conforme, non puoi descriverlo come qualcosa di distante, ma è una possibilità futura e questo fa una paura terribile perché innesca la creazione del mostro e […] permette anche di depositare una paura atavica che impedisce di andare oltre a quello che le istituzioni e i poteri raccontano sui corpi grassi».
In quest’ottica, emerge un altro livello della struttura complessiva di questo libro, ossia il suo impegno nel definire il legame tra potere e sapere e la sua propagazione; concretamente il ruolo giocato dalle personalità di spicco in un’epoca determinata, dalle istituzioni nella diffusione tra le élite di una parola che è stata in grado di “chiudere il pensiero”. E la parola, del processo di destrutturazione compiuto con questo saggio è l’unità minima e fondamentale, nel momento in cui la si intende come «un insieme di lettere che vanno a occupare uno spazio fino a quel momento non considerato, dimenticato, trascurato e lo colmano di un significato temporale e fisico», portandosi dietro «un giudizio morale, un giudizio etico e un giudizio estetico» (p.12) e assoggettando sguardo e comportamento. Le parole poi si uniscono, formando discorsi che da sempre si inseriscono in una trama di rapporti di potere, a cui la medicina, istituzione che si è rivelata – e lo è ancora – fondamentale nella diffusione dell’idea di “cittadini sani […] modello”, non è estranea: ecco che si delinea una “biopolitica della salute”, così chiamata da Foucault, una delle figure di riferimento nella ricerca di Sabrina Strings.
È proprio una frase di Foucault che mi è venuta in mente, leggendo queste pagine: «mi piacerebbe che un libro […] avesse la scioltezza di presentarsi come un discorso: battaglia e, insieme, arma, strategia e urto»: Fat Phobia lo è e mai in un contesto come quello a noi contemporaneo, in cui ci si confronta con chi, forte dell’importante posizione che riveste, dunque che conferisce un’illusione di autorità alla sua parola, fa ricorso a termini deleteri quali “devianze”, per riferirsi a determinate patologie prontamente sconnesse al contesto nel quale si sviluppano, legittimando le discriminazioni sistemiche che la società riserva a dei corpi da essa ritenuti “non conformi”, per errata estensione “malati”; in cui siamo di fronte a una pratica medica ancora grassofobica, conducente talvolta a diagnosi tardive, la lettura di saggi come questo è fondamentale e ancor più encomiabile è il fatto che questo lavoro di ricerca estremamente rigoroso, per quanto dalla scrittura estremamente agevole, sia estraneo a qualsiasi affanno di protagonismo da parte di Strings, la quale, mentre smonta indirettamente i tentativi di autoassoluzione di chi maschera lo stigma dietro una lotta contro l’obesità – senza una reale conoscenza in merito, alle volte – pone le basi di un percorso teso a decostruirlo, appunto attraverso un discorso, un insieme di parole pensato «per togliere potere alla parola che crea la sostanza» (Djarah Kan).
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