Probabilmente stiamo assistendo allo stadio terminale della letteratura, uno stadio terminale piuttosto squallido, niente affatto poetico:
«l’umanità tutta pareva essersi scordata il Dolce Stil Novo, Petrarca e Shakespeare […], le sceneggiature di Charlie Kaufman, le lettere d’amore adultero tra Italo Calvino ed Elsa De Giorgi e la rubrica di Carrie Bradshaw per il New York Star – o meglio, tutto questo sentimento assoluto si era condensato in un’emoticon stilizzata a forma di rosa rossa, di orsetto di peluche, di cuore. […] Nelle poche librerie rimaste sul pianeta Terra del futuro si troveranno solo libri di fotografie scattate da iPhone, e per ognuna di esse la didascalia sarà un’emoticon. […] Nessun essere umano sarà mai più in grado di scrivere il proprio nome perché sparirà la stessa facoltà di ricordo del nome dell’altro».
Nel fiorire del capitalismo della sorveglianza, che genera profitto in un’aggressione continua delle nostre soglie di attenzione, in questi tempi in cui «performare la lettura sui mezzi pubblici equivale a leggere», e in cui gli scrittori sono costretti a «riciclarsi come Instagram Poet» per «monetizzare con i brand del lusso», Giada Biaggi, poliedrica autrice classe ’91, pubblica il suo primo romanzo, Il bikini di Sylvia Plath (nottetempo, 16 euro). Forse per lei non sarà più remunerativo, in termini economici o di fama, della sua presenza online, della sua stand-up, o delle sceneggiature e del giornalismo in cui si destreggia. Del resto, nello stato delle cose rappresentato da Il bikini, non sfugge il paradosso per cui la gente si ostina a scrivere libri, per una sorta di prestigio che tuttora permane, nonostante non li legga più nessuno. Che poi si sia oltremodo infarciti di nozioni teoretiche e riferimenti culturali, che lo si mostri più che altro per vanità, che l’accostamento basso-alto non sia più una novità ma un cliché, anche tutto questo è dato per scontato, nella Milano del romanzo, disincantata, altamente istruita, inacidita. I filosofi continentali da quasi un secolo lamentano che la filosofia è stata degradata ad ancella della scienza, ma ora sembra essere piuttosto l’ancella della critica d’arte, o degli studi sui mass-media. Propinato come una specie di audioguida della nuova mostra di una qualche Fondazione, o diluito all’interno di un longform sull’ultima serie Netflix, il discorso filosofico assume oggi forme spettacolarmente vacue, applicato com’è da una terza generazione di aspiranti decostruzionisti insoddisfatti dalla loro vita accademica. Ma è già stato detto, è scontato (se c’è qualcosa che non manca ai giovani intellettuali, questa è l’ironia compulsivamente autoriflessiva). Dunque anche scherzare in modo diretto su tutte queste storture, forse non basta più: infatti qui sembra che la parodia vada fuori giri, e che rida dei suoi stessi eccessi (nel romanzo è quasi tutto derivativo: appare Sigmund Freud come in un film di Nanni Moretti, che a sua volta riprende Woody Allen, e poi appare proprio Moretti, per commentare seduto sulla tazza del cesso la rivoluzione ugly-chic di Miuccia Prada).
Eppure Eva, la protagonista de Il bikini, sembra essere ancora genuinamente legata alla letteratura. Forse non è vero, forse è tutto performativo, e la si prende in giro per questo. Però assume segretamente cocaina aspirandola dalle copertine dei libri che ama (l’autore preferito per questa funzione è Philip Roth); dopo le botte, fatta e sola nel suo monolocale, si rifugia contemporaneamente nei porno e nei video in cui Sylvia Plath declama le sue poesie, e, inaspettatamente, sono i secondi a conquistare la sua attenzione. Eva ha un profilo su Onlyfans con cento fedeli iscritti in cui, senza mostrare il suo volto, legge in diretta i classici russi. Quando poi si innamora di Ludovico, lo fa per via esclusivamente letteraria. Lui è un curatore d’arte, “femminista” e di successo. Lei prende coraggio, gli scrive su Instagram, inaugurando così una relazione epistolare segreta, visto che Ludovico è fidanzatissimo. I messaggi subito virano sul sexting, ma se c’è qualcosa che la fa innamorare di lui, questo è il suo uso dei punti alla fine di ogni DM: il “punto Ludovico”, così inusuale nella sciatteria sbrigativa delle chat online, è per lei il simbolo di una «rigenerazione della lingua italiana», il «primo segno di interpunzione nella storia dell’umanità capace di contenere al suo interno una concrezione semantica di erotismo». È ironico, certo, ma è interessante come Eva faccia coincidere questo suo innamoramento con la sensazione di far parte di un’esclusiva opera letteraria a due. La chat che ha con Ludovico diviene così un «corso di scrittura creativa online», che «avrebbe meritato di essere recensita da un critico cinematografico di FilmTv con le stelline per humor, ritmo, impegno, tensione, erotismo», e da cui fantastica di trarre un romanzo erotico.
Insomma: sembrerebbe proprio che la passione di Eva per la letteratura, esplicata sempre in segreto o nell’anonimato, non sia «performativa» (a meno che non lo sia anche un atto in cui inganniamo esclusivamente noi stessi – ma immagino che a quel punto il termine perderebbe un po’ di efficacia). In questi atti letterari sotterranei Ludovico, il curatore ally della causa femminista, si mostra finalmente come il merdone che è («lo Chanel n° 5 del patriarcato negazionista»), mentre Eva può sentirsi libera: se nel suo dottorato in filosofia deve sottostare a prof piacioni e a intellettuali “scomodi” il cui unico fine sembra essere quello di riabilitare la figura di Polanski, ebbene, nel segreto dei DM e dei video su Onlyfans invece è tutto una gioia di travestimenti e inventiva (non mancano neanche i piaceri puramente intellettuali, come quando la lettura di La tana di Kafka diventa metafora della guerra in Ucraina). Lei si chiama come Eva Braun, il nome gliel’ha dato il padre – anche lui professore universitario, specializzato in cinema nazista. Ma se Eva Braun era la dattilografa di Hitler, «che passava le giornate a imprecare contro il carrello della macchina da scrivere», lei invece «sarebbe stata la donna dietro la macchina da presa, la detentrice del female gaze nei confronti dell’uomo più cattivo del mondo».
Eccola, la questione forse più interessante del libro. Eva è una filosofa, estetica. Sua madre invece è estetista (di un tipo particolare, è tanatopittrice: trucca le salme), ma da giovane è stata una delle “Tutti Frutti Girls” di Colpo grosso, il programma Fininvest condotto da Umberto Smaila. Di colpo però ci è chiaro come Eva possa sentirsi solidale con la madre e le altre donne della tv italiana, relegate ai margini del linguaggio dalle figure di potere maschili:
«Ed è così che io, le Veline, le Letterine, le Professoresse e Antonella Elia cadevamo con i nostri bikini di Swarowski in una piscina piena di lettere gonfiabili un po’ argentate e un po’ dorate alle quali ci aggrappavamo, potevamo provare a galleggiare per un po’, certo, ma sapevamo che non ci avrebbero mai e poi mai insegnato a nuotare.»Le donne di cui Eva è figlia si trovavano solamente accanto alle parole (basti pensare al loro ruolo in programmi come Passaparola o Gira la ruota), condendole tramite il loro corpo di un erotismo “passivo”, normato dallo sguardo maschile. Di contro, per distanziarsi da quel modello la donna accademica e scrittrice sembrerebbe avere l’obbligo di mostrarsi assolutamente seria, di desessualizzarsi tramite golfini sformati – e poi di mettere la testa dentro al forno. La Eva che osserviamo alla fine de Il Bikini di Sylvia Plath sembra poter evitare quest’alternativa imposta, riuscendo a essere al contempo erotismo e parola (sebbene una parola diversa dal discorso accademico), pretendendo di essere accettata in quanto donna desiderante e capace di scherzare delle sue nevrosi senza esserne succube – come Woody Allen, che a novant’anni ancora campa (seppur “cancellato”, ma vabbè). Insomma in questo suo primo romanzo Biaggi sembra esortarci a «immaginare Sylvia Plath felice», per dirla con Albert Camus. Spero che lei mi perdoni lo showing off intellettuale.