Tutte le province felici si somigliano; ogni provincia infelice, invece, è infelice a modo suo. Tolstoj lo diceva delle famiglie ma descrive bene anche le province italiane, quei microcosmi scissi da qualunque altro ambiente, inviolabili simulacri con regole fisse che nessuno deve permettersi di sfidare. Vale quando si parla dei «nati ai bordi di periferia», da dove è sempre più difficile fuggire davvero, e vale per chi in quelle province nasce privilegiato. Lo sa bene Clara, la voce narrante di Ragazze perbene di Olga Campofreda (NN editore). Clara non avrebbe dovuto fare granché nella vita, il sentiero non era solo tracciato ma completamente asfaltato: le scuole dalle suore fino al diploma, una facoltà universitaria non troppo eccentrica, un matrimonio con un pari grado, due figli (uno dei due possibilmente maschio), mantenimento della casa e delle apparenze. Era stato così per sua madre e le sue zie, così era e così sarebbe sempre andata.
Tutte avevano avuto la loro dose di sogno, avevano immaginato una vita diversa e piena di passione ma tutte, inderogabilmente, avevano seguito il percorso comune e condiviso, mettendo nel cassetto fantasie e speranze. Clara, però, sente che vivere di sole fantasie e tanta immaginazione non può bastare. Non basta Britney, non basta Sailor Moon e quell’educazione sentimentale a base di manga e Mtv. Tutte le donne che Clara ha attorno, reali o disegnate, hanno seguito l’amore come se fosse un evento fatale, predestinato, nessuna di loro ha scelto il come, il dove, il quando. A volte non hanno scelto neanche il «chi». Clara allora decide per lo strappo: lascia Caserta, protagonista involontaria della storia, e si rifugia a Londra. Inizia perciò una vita sua, con scelte che riguardano solo lei. Le lezioni d’italiano alle ricche signore che cercano di occupare un tempo libero infinito, gli incontri su Tinder, gli imbarazzi dei genitori che non sanno come giustificare questa figlia agli occhi della città. Perché Clara ha trent’anni e non ha un lavoro fisso né una relazione stabile. Soprattutto non ha nessuna intenzione di tornare. E la città parla, si sa, la provincia ha la lingua lunga.
Così, è costretta a tornare fuori stagione e lontana dalle feste comandate, in una tarda primavera che la coglie nel mezzo di una crisi semi-sentimentale (nel tempo fluido dell’amore a sorsi brevi le relazioni non hanno mai contorni certi) e questa crisi si scontra con un passato mai davvero pacificato e neanche così remoto. Rossella, la cugina bellissima e perfetta, la ragazza perbene per antonomasia, la figlia prediletta che ha rispettato tutti i riti di passaggio, finalmente si sposa con il fidanzato storico e Clara, un tempo quasi una sorella, di certo una confidente, un’ombra inseparabile della cugina, torna per partecipare a un evento che non è mai solo familiare ma sempre collettivo, perché la provincia si nutre e vive di questi cerimoniali. Il ritorno per Clara sarà traumatico sotto tutti i punti di vista e il cambiamento che l’aspetta ne sarà la naturale conseguenza. Non sono bastati né i chilometri né gli anni da expat: tutto ciò da cui era scappata la stava aspettando e, questa volta, non concedeva ritardi o sospensioni spazio-temporali. Clara lo percepisce chiaramente e non può fare altro che raccogliere i pezzi dell’adolescente che si è lasciata alle spalle (con scarsa fortuna) per comporre la donna che è diventata.
Ragazze perbene ha dalla sua la capacità di disegnare in pochi tratti un universo claustrofobico ma patinatissimo, una sorta di cella imbottita ma con il damasco sulle pareti (casertani anch’essi, tra i più preziosi che i piazzisti possano fornire). Arriva chiaro il disagio di chi ha compreso e interrotto il loop, come un senso di nausea dal sapore dolciastro, ma arriva più forte il dolore di chi non ha avuto il coraggio di potersi sottrarre. Le lacrime silenziose della mamma di Clara, la misteriosa scomparsa di Rossella qualche giorno prima delle nozze, un incidente dalle dinamiche oscure, l’opulenza sfrontata per giustificare il vuoto pesantissimo da portarsi dentro e dietro tutta la vita: sono queste le pagine che meglio mostrano cosa vuol dire essere una ragazza perbene in provincia. Uguale a mille altre ragazze perbene della stessa provincia, con gli stessi abiti, le stesse acconciature, le stesse passeggiate, lo stesso percorso, le stesse aspirazioni imposte dalla famiglia, la stessa fretta di trovare un ragazzo altrettanto perbene, ovvero benestante, con una carriera ad alto potenziale che possa portare avanti l’unica cosa che conta: la tradizione. Non si accettano fallimenti né cedimenti, tantomeno si possono contemplare ripensamenti. Lo sa Rossella, e lo vedremo dal suo diario. Sei il prodotto che ha confezionato la provincia, che ti rappresenti davvero o meno.
A convincere in misura minore è l’intricato gioco di elementi a tratti inverosimili: troppi e tutti in una volta: giovani che (forse) decidono di gettarsi sotto le ruote di un’auto (anche questo molto tolstojano), famiglie parallele, zie sante che nascondono segreti peccaminosi, diari segreti che vengono letti da occhi ben poco discreti e matrimoni che non vengono cancellati neanche dopo che si finisce in coma. Tutti questi eventi creano nelle maglie del romanzo una contraddizione, non sappiamo dire quanto e se voluta, con la staticità del luogo, dell’ambiente, delle vite di tutti. Anche i personaggi secondari hanno il loro carico di «figli degenerati» da portare ma sono sempre perfettamente in linea con lo stereotipo che ci si aspetta. La più sana e risolta, insomma, sembra essere proprio Clara, nonostante non lo sia affatto. Sente la pressione di un mondo che, nel bene e nel male, è il suo; vede la sua immagine in netto contrasto con quella di Rossella (bella, bionda, rosea, snella) e quel contrasto alimenta l’insicurezza dovuta alla competizione sperimentata fin da bambina: solo la migliore merita amore e Clara «migliore», secondo gli inflessibili parametri della provincia, non potrà esserlo mai.
È una storia in cui l’immedesimazione è tutto. Le millennial di fine anni Ottanta potranno riconoscere canzoni, serie tv, idoli, fastidi, preoccupazioni, alcune si rivedranno per le strade di Caserta e di Londra, percepiranno lo stesso imbarazzo manifestato discretamente dai genitori durante una visita estiva. La forza di Ragazze perbene sta tutta qui: si tratta di una storia plurale, Clara racconta di sé ma ricorda e ricostruisce la storia di tutte. Chi resta si prende in fondo la scena: la mamma di Clara, le zie, la nonna materna, Rossella, hanno tutte scelto di non strappare il damasco della cella imbottita. Clara sa che tutte quelle ragazze perbene, aggrappate a una rettitudine e a una virtù che devono continuamente rappresentare e per le quali sono state generate, hanno conservato intatto un mondo segreto e intimo, inaccessibile all’esterno come il microcosmo rappresentato dalla provincia. Quell’universo permette di mantenere una fuga astratta, una via che a Clara non è bastata ma che alle altre è necessaria per sopravvivere. O per vivere, banalmente, quella vita che avrebbero voluto, perché «i mondi che esplodono in silenzio dalle vite che non abbiamo scelto sono infiniti».