Solo vera è l’estate, il terzo romanzo di Pecoraro uscito il 7 marzo per Ponte alle Grazie, è una storia d’amicizia e di relazioni, raccontato da dentro la coda lunga ideologica di fine Novecento, in quel 21 luglio 2001 che fu un giro di boa generazionale, tra Genova, Roma e il litorale laziale.
Lo stradone, il penultimo romanzo di Francesco Pecoraro, comincia con una spiegazione tecnica dell’effetto Doppler scoperto da Hubble, fenomeno per cui si possono osservare in una cornice di volta celeste la compresenza di galassie di ogni tempo e che, per analogia, è lo stesso effetto che si ottiene osservando una qualsiasi strada cittadina, dove nel medesimo intervallo di spazio-tempo coesistono “presenze umane diacroniche” che non hanno davvero niente in comune.
La vita in tempo di pace inizia dall’assedio di Bisanzio del 1453; la caduta dell’Impero, nella prime pagine del prologo, viene letta in senso darwiniano come fosse l’invasione parassitaria di un corpo sociale estraneo e infestante, ovvero una delle infinite manifestazioni della dinamica che regola la vita di organismi ed ecosistemi a livello biologico. («Allora cosa fu la presa di Bisanzio, se non un comune episodio della modalità vitale planetaria, un normale picco di sopraffazione e assoggettamento, cui parteciparono ecto- e endo-parassiti, grandi e piccoli, umani e non?»).
Solo vera è l’estate, il nuovo romanzo di Pecoraro uscito lo scorso 7 marzo per Ponte alle Grazie, parte, come i precedenti, con una spiegazione “tecnica”. Questa volta si parla del fenomeno estate, quel periodo dell’anno dove si rimane incastrati nella bolla dell’anticiclone delle Azzorre; la cappa termica che avvolge gli individui di un calore insopportabile e che tuttavia gli diventa tollerabile, se non desiderabile. («Un’immensa vescica di aria calda.»).
In tutti e tre i prologhi, il fenomeno scientifico-naturale e quello storico diventano la lente macro con cui mettere a fuoco nel dettaglio la dimensione umana, e dare l’innesco che avvia il motore dei romanzi.
Perché è dell’Estate che stiamo parlando, cioè della stagione che per noi è stata definita “«identitaria”», l’unica che i catto-mediterranei ritengono valga la pena di vivere, eventualmente soffrendo, ma di una sofferenza che è anche piacere
All’imbocco del Ristagno
In un’ipotetica linea del tempo della produzione di Pecoraro, con Solo vera è l’estate siamo lontani più di cinquant’anni dalla soglia di “Buca di Bomba”, il big bang post-bellico da cui inizia la parabola di vita dell’ Ivo Brandani de La vita in tempo di pace. Ci troviamo al cruciale svincolo del Secolo, all’imbocco verso lo scivolamento definitivo in quello che, già ne Lo stradone, l’autore chiamava “Ristagno”: «Un Ristagno, che è biologico ma anche di idee, come una pausa collettiva di pensiero in cui tutti sembrano volersi riposare. Prima volevamo esser lasciati in pace davanti ai nostri reality, poi davanti al pc nei nostri social di appartenenza, nelle nostre liti virtuali con gente mai vista ma che è lì, a portata di mano dentro il display, stordita, ipnotizzata come te, da te».
Se, come è stato suggerito dalla critica, una spinta caratteristica di Pecoraro è sempre stata quella a diluire nel romanzo la forma saggistica, fino a sintetizzare una formula dove le due parti convivono, anche in Solo vera è l’estate gli inserti di non-fiction sono più che presenti. L’oggetto della riflessione argomentata di taglio socio-politico è la protesta no-global degli entranti Anni ‘00, quando la fine delle ideologie forti e il montare dei tempi diversamente ideologici della post-modernità, portava masse di giovani ad abbracciare insieme la critica del capitale finanziario globale e la promesse della prima social internet.
Il focus del romanzo è tutto su una generazione immersa in una modernità che già al tempo dei fatti si faceva chiamare liquida; generazione incastrata in un eterno presente, dal momento che il passato e le sue strutture ideologiche forti si sono sgretolate, e con davanti a sé un «futuro non-progettabile, difficilmente gestibile, che li affascina e contro cui provano rancore, perché li trascina violentemente con sé senza dargli il tempo di capire, di organizzarsi, di prendere fiato, di guardarsi intorno e, se non di giudicare, almeno di farsi un’idea. Il presente sfugge al giudizio, si procede incerti come su una lastra di ghiaccio».
GEF & Biba
Giacomo, Enzo e Filippo, protagonisti del romanzo insieme a Biba, sono tre amici romani, cioè a Roma cresciuti e da Roma svezzati, protetti e formati nella struttura mentale, nei tratti somatici e nei valori. («Il mostro millenario che chiamiamo Roma li abita e si riproduce anche attraverso queste giovani vite»). I tre insieme formano un “sistema”, GEF; GEF talvolta pensa, fa, desidera e sente come un unico organismo biologico che dipende nelle sue funzioni desideranti dall’attrattore Biba.
GEF è un piccolo branco di post-cuccioli alle prese con il grande caldo e il grande caos di idee dell’estate del 2001, ognuno con le sue proprie specifiche –– chi filosofo in odore di carriera accademica, chi grafico editoriale confuso della vita ma eccitato dalla rivoluzione digitale, chi semplicemente bello, indulgente e pragmatico ––, ma tutti e tre inesorabilmente inquadrati dall’autore in delle costanti generazionali che li omologano, ad esempio, in una modalità di vita sempre ben attenta a non esporsi in modo troppo netto e definitivo, nelle idee e nell’apparire.
«Mai aderire pienamente, perché il successivo inevitabile rinnegare, sarebbe troppo imbarazzante. Tenersi al margine, partecipare, almeno una volta, ma poi limitarsi a esserci e a osservare per un po’. Andarci, ma andare via prima della fine. Credere in tutto e in niente, fin da ragazzi». (Passaggio che rimanda al mantra epicureo “vivi nascosto” che il personaggio dell’omonimo racconto di Camere e stanze si ripete in testa, fino a contravvenirlo, finendo così in seri guai lavorativi.)
Questo è l’attitudine con cui i tre protagonisti non vanno a Genova a fine luglio 2001, seppur “partecipando” come molti (come chi scrive) a distanza, schierati con il cuore assieme al movimento (qualunque cosa fosse, si chiedono spesso) e contro il capitale; quel giorno decidono di passarlo nell’ordinario festaiolo giovanile, migrando dalla calura cittadina verso un “zummer party” sulla costa. («Regà, il Capitale se lo fai incazzare ti spara. Noi andiamo al mare, non siamo andati a Genova, quindi il Capitale non ci spara. Chiaro?»)
Il tratto di strada in uscita da Roma, nel tardo pomeriggio del 21 luglio 2001, è un piccolo capolavoro narrativo che ricorda il tragitto allucinato verso la costa del protagonista di “Cormorani”, racconto contenuto nella raccolta del 2021, Camere e stanze: una discussione infinita sul senso del turpiloquio (le bestemmie e le finte bestemmie, con ampia presenza di bestemmie), la notizia alla radio dell’omicidio di Carlo Giuliani e relativa momentanea gravitas; e poi ancora cazzeggio, perchè «è la cosa che sanno fare meglio, è come giocare a passarsi la palla al volo nell’acqua bassa: non deve cadere, a costo di buttarsi a tuffo».
Roma che sfuma dai finestrini spalancati verso la costa è descritta con l’attenzione e l’indolenza del Pecoraro architetto e storico dell’arte, calamitato, disturbato ma in fondo anche attratto dai segni di abbandono e dal fuori posto, dal «regno della forma gratuita, del disordine, del raccogliticcio, del vorrei ma non posso, del non ci riesco, non ci sono mai riuscito, del non ci abbiamo mai nemmeno pensato, dell’andate affanculo tutti, dell’aspettiamo il prossimo condono (che puntualmente arriverà)».
Viaggiando con GEF verso il mare si incontra la solitudine degli spartitraffico, degli orti e dei casali abbandonati e sospesi di valle del Fiume; ci si immette con qualche comprensibile difficoltà nel grande raccordo anulare, e poi giù verso la Pontina che «comincia sempre amichevolmente, con quelle roulotte e quei camper ammassati a destra e a sinistra, ma già in questo tratto annuncia la sua vera natura di super-strada assassina, stretta & trafficata (…)».
Tutti e tre in macchina verso Anzio, che discutono, scherzano, tacciono, ma in segreto pensano alla stessa persona, la proprietaria della Yaris su cui viaggiano, Biba, con cui ognuno intrattiene una speciale forma di relazione amorosa. Lei quel giorno non è con il nucleo amicale storico formato al Mamiani: è andata a Genova a loro insaputa.
Biba è il nodo più enigmatico, perverso e con più connessioni nella rete a quattro personaggi del romanzo; è il nodo che lega le maglie ed è in grado di destabilizzarne la trama. Sono veri amici Giacomo, Enzo e Filippo, ma sono anche in competizione per la stessa ragazza. «Perché tra amici la lotta per la dominanza, anche simbolica, difficilmente cessa e sfilarsi la Donna è frequente».
Nonostante Genova sullo sfondo, Solo vera è l’estate ha come protagonista-paesaggio anche il mare, tema che innerva con forza tutta l’opera di Pecoraro. Il “Senso del Mare”, titolo di un memorabile capitolo de La vita in tempo di pace, è in definitiva molte cose per l’autore: impressioni, sapori, ricordi depositati nelle nostre stanze cognitive plasmate perlopiù dall’estate, piccole adorabili oscenità come «l’odore buono/cattivo delle mazzancolle alla piastra, la chitina del carapace carbonizzato che sa come di bruciatura di capelli, il profumo grasso del pesce cucinato nell’aria fresca del mare, che subito presenta alcuni dei suoi attributi, tra cui il profumo di salsedine e del fritto di paranza».
Sullo specchio d’acqua del Tirreno si svolge poi il finale del romanzo, in una scena marina di dissoluzione sensoriale nell’elemento acquatico della protagonista femminile.
La Genova del 21 luglio 2001 la si attraversa invece con Biba, l’unica dei quattro ad aver raggiunto la protesta, non si sa con quale grado di partecipazione e consapevolezza. Laureata in Legge, diritto internazionale, pragmatica, attraente, molto desiderata e volitiva, anche lei , come GEF, formata nella struttura profonda dall’esperienza liceale del Mamiani. Perché sia davvero andata a Genova, lei come molti altri, non lo sa davvero. («Ma io «oggettivamente» appartengo alla sua controparte, chiamandola così. Io mi sto formando proprio per difendere gli interessi del capitale internazionale e su questo pullman non dovrei esserci… Venire qui è una specie di atto dovuto? Un’espiazione? Un tradimento di classe? Una verifica? O semplicemente una cazzata? Intanto io ci sono venuta e fanculo.»).
Lungo via Tolemaide e nelle strade parallele, Biba guarda la violenza, quasi la contempla, inerme: rimane incredibilmente indenne ai colpi dei nuovissimi manganelli in dotazione alle forze dell’ordine, come protetta da un’aura di invisibilità e forza. («Non prova rabbia, è terrorizzata e nello stesso momento quasi ipnotizzata dal pericolo, come un topo davanti a un cobra, che non riesce a fuggire.»). Quello che vede «è il potere nella sua manifestazione più pura, cioè nel possesso dei corpi e nella facoltà di infliggere impunemente dolore. È sesso torpido, sorgivo».
Il romanzo, nell’opera
Bastano poche pagine del nuovo di Pecoraro (forse anche solo l’illustrazione di copertina disegnata come sempre dall’autore) per chiedersi se “questa estate” sia la stessa che si ritrova così di frequente nel resto della sua produzione, una stagione archetipo (la Stagione, con la maiuscola, per l’autore) che ha il potere di assorbirci, formando delle precise aree cognitive, delle sacche di esperienze individuali e collettive.
Ci si domanda, in altre parole, se quello che abbiamo tra le mani sia un romanzo “a ingressi nascosti” nella matrice di temi che sorregge tutta l’opera di Pecoraro, e se avremo ancora, come già altre volte è successo, la sensazione di navigare un iper-testo narrativo. E in effetti basta poco a far capire a chi legge che sta per riprendere un discorso solo temporaneamente interrotto: la postura del romanzo-saggio, Roma come ecosistema microbico totalizzante, il fiume e il ponte come entità simboliche, il monologo – che si direbbe spesso cinico se non fosse per la lucidità che esprime attraverso una lingua che sa unire all’uso orale una precisione nella scelta delle parole che nel parlato è impossibile.
Per chi già conosce Pecoraro si tratterà di fare un’esperienza di lettura fluida e familiare: avrà modo di immergersi dentro un autore che non si nasconde mai dietro il personaggio, lasciando ampio spazio al discorso interiore riflessivo, e ciò che può trovare, se ne conosce al minimo le tracce pregresse, è una potente matrice stilistica, tematica e prospettica, che caratterizza tutta l’opera nel suo complesso. Per chi è nuovo all’autore invece, iniziare con Solo vera è l’estate, romanzo breve rispetto ai precedenti, sarà l’occasione per confrontarsi in modo più agile con un testo che presenta tutte le tracce essenziali della produzione.
Pecoraro quindi si presenta anche in Solo vera è l’estate con la sua inconfondibile marca, fatta di temi cardine, di luoghi topici che assurgono a entità fiabesche, di una chirurgica osservazione del reale che con spostamenti veloci di fuoco passa dal microscopico delle interazioni sociali quotidiane al macroscopico della storia.
Ma ci sono anche importanti elementi di novità: i personaggi post-giovani, l’amicizia, il poliamore. Un periodo mai trattato prima così nello specifico, gli Anni ‘00 della montante globalizzazione e delle proteste contro il G8. No global, new global, alter globalisti: un ventennio fa, quando per qualcuno era ancora possibile. Poi c’è stata Genova.
Pecoraro è consapevole che i passaggi di cui tratta pesano come macigni e perciò dichiara ex ante la sua postura verso la riflessione storico-sociale: «Dire la Storia così come la sto dicendo ha il puro scopo di evocare un clima, un grande caldo di sangue e l’incredibile violenza dello Stato, mai davvero punita nei suoi reali responsabili».
In questo terzo romanzo Pecoraro si sbilancia ancora, restando bene in piedi, verso la sintesi dal sapore sociologico, non senza lo spirito del commento omnibus dei frequentatori dei suoi “Bar Porcacci”, topoi de Lo stradone e metafora dell’opinione della strada, dove alla fine trovi sempre una qualche forma di verità definitiva. («Noi, come i no-global, possiamo odiare il capitale, ma il capitale non ci odia, gli siamo indifferenti: se gli serviamo ci tiene a stipendio, se no ci scansa e procede oltre, ma se gli rompiamo il cazzo ci schiaccia. I no-global neanche li vede, perché non ha un’anima, è un meme, e ha solo un imperativo: replicarsi e moltiplicarsi, all’infinito, distruggendo tutto, se necessario…»).
Alla prova del terzo romanzo, in definitiva, non si può non riconoscere in Francesco Pecoraro la presenza di un sistema di pensiero, il suo personale anti-sistema filosofico – più o meno consapevole di esserlo – costruito nell’osservazione minuziosa di ritagli delle galassie umane, in un doppio movimento tra tempo storico e naturale.