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Ogni tanto qualcuno mi ferma con gentilezza: «Lei è stata un mito!» Ma chi vuole essere un mito? Non io.

La ragazza del secolo scorso, Rossana Rossanda

Qualche anno fa un amico a cui tengo molto mi regalò una copia de La ragazza del secolo scorso. Era un periodo in cui ero meno politicizzata di quanto sono ora, in cui per me Rossana Rossanda era ancora una di quelle figure di comodo, ogni tanto riprese da programmi televisivi come Gazebo che pensavo potessero darmi un sincero sguardo su cosa volesse dire essere di sinistra. Un certo tipo di consapevolezza, assieme alle riflessioni intorno al definirmi politicamente verranno dopo, grazie alle persone che mi hanno accompagnata e ai testi che mi hanno fatto scoprire prima la storia dietro a un termine – sinistra – e poi tutti gli interrogativi intorno a un posizionamento – perché essere di sinistra, stare a sinistra. Inutile dire che tra questi ci fossero anche i testi di Rossanda, ex-dirigente del partito comunista, cofondatrice del manifesto e purtroppo recentemente compianta, per la profondità delle riflessioni e la temerarietà dell’affermarsi nelle sue posizioni. Queste mie righe avranno forse il torto di mitizzare il personaggio Rossana Rossanda, una pratica da cui lei stessa si schermiva sin dalle prime righe della sua autobiografia, eppure è difficile non sbilanciarsi di fronte a una protagonista della nostra storia contemporanea che tanto ha saputo restituire alla collettività, sia nella lotta politica che col suo giornalismo militante.

La sua voce e le sue battaglie tornano oggi in libreria grazie all’antologia recentemente uscita per nottetempo, Aperte lettere. Saggi critici e scritti giornalistici. Curato da Francesco de Cristofaro, il libro fa accedere a una selezione di testi di vario stampo e natura in grado di tratteggiare la figura di un’intellettuale coltissima, critica, a tratti spigolosa ma capace di avere un punto di vista sempre in qualche forma rivelatorio. L’ordine scelto è quello tematico, a volte generico come le parti dedicate alla critica culturale, altre più definito come la sezione dedicata al rapporto con Fortini. I testi coprono una lunga fase del percorso esistenziale e intellettuale di Rossanda, partendo dagli anni ’70 e arrivando fino agli ultimi anni di vita, lambendo la contemporaneità come con la recensione del libro premio Strega M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati (Bompiani) uscita nel novembre del 2018. Se è vero che le epistole vere e proprie contenute nella raccolta sono una manciata, nulla di ciò che viene scritto da Rossanda risulta meramente fine a sé stesso. Non c’è arte per l’arte, c’è l’arte che diventa strumento ideologico, il ribaltamento di figure intellettuali, il confronto duro con certe riflessioni socialmente assimilate. C’è, insomma, sempre un destinatario per queste missive: l’altro, «le altre», a cui ribattere ma con cui soprattutto condividere. Il dialogo con i vari interlocutori e interlocutrici non si limita quindi a segnare una distanza su un’opinione e la propria, quanto più a esplicitare sé stessi senza negarsi all’interno di un fare tra gli altri, con gli altri, verso un ideale comune.

Questo non vuol dire che la penna di Rossanda si esima dallo sferzare attacchi, soprattutto in risposta a dichiarazioni nei confronti dei suoi terreni di appartenenza, come il manifesto. Ne è un esempio il primo testo della sezione «Guerriglia culturale», una lettera molto decisa indirizzata all’editore Laterza che aveva messo in dubbio la trasparenza delle fonti di sostentamento del giornale da lei fondato. Passano vent’anni e nel testo che chiude la sezione – una sferzante critica  in risposta a un editoriale di Scalfari su la Repubblica a proposito delle proposte di supporto alle imprese per «incentivare» il lavoro al sud – leggiamo ironicamente Rossanda che si interroga su come sia possibile che «che un uomo colto, adulto, progressista e abbiente possa proporre al lavoro meridionale di collocarsi tutto al livello del lavoro in nero […]. Che uomini sono, i meridionali? Altri? Con pochi bisogni, gente inferiore?».

Una delle parti più interessanti di tutto il volume, la terza, è quella denominata «Femminismo critico». Molte altre antologie di Rossanda (Anche per me, Le altre, Questo corpo che mi abita) raccolgono riflessioni sulla sua doppia militanza da femminista e comunista, nate da esperienze di collaborazione collettiva editoriale e non. Sono un esempio le riviste Lapis e Orsaminore, all’interno delle quali lavorò con attiviste e pensatrici come Lea Melandri, Biancamaria Frabotta, Manuela Fraire. Le parole che Rossanda riserva a queste militanti e al movimento femminista tutto sono piene di stima, amicizia, persino tenerezza. E se quindi è evidente un interesse politico per il ruolo sociale e politico della donna – un’attenzione che tracimerà inevitabilmente nel vissuto personale – tuttavia non manca mai anche un percepirsi come soggetto a parte. Ne parla infatti riferendosi a un «noi del femminismo», ma più spesso il richiamo è «alle mie amiche femministe» come a intendere un gruppo in cui non è inclusa. La sezione poi, e si intuisce fin dall’aggettivo accostato alla parola «femminismo», si compone di testi che individuano come bersaglio polemico molti dei capisaldi dei gruppi femministi che anche adesso faremmo difficoltà a mettere in discussione. Virginia Woolf è fra questi. A Woolf e al lavoro di Nadia Fusini tornerà più tardi con l’elogio al romanzo Al faro, ma la Woolf saggista de Le tre ghinee viene invece posta sotto un’attenta lente ideologica. Di fronte alla posizione di Woolf su come le donne debbano sottrarsi da uno scenario politico costruito dagli uomini («Prima di intervenire nella vostra politica dovremmo essere restaurate come cittadini […] Per ora e fino ad allora siamo “estranee”»), Rossana risponde duramente: «La cognizione del potere non ci rende liberi da esso, come quella del dolore non ci risana. O il potere viene spezzato oppure gridargli “Sei ridicolo, non ci sei, non ti vedo” non è più che l’indispettito colpo di spillo d’una infelice signora inglese. […] Perché esse sono [le donne] (siamo) tentate da quel margine di estraneità che è stato regalato alla nostra oppressione; la grande illusione di non essere “nella” storia, e quindi di poter rimandare di intervenirvi perché o è troppo presto o è troppo tardi […]”». Conclude: «Per la società delle estranee le iscrizioni sono chiuse […]. Devono, anche se non ne hanno voglia, spellarsi le mani e demolirsi il cervello rispondendo anche loro a tutte le domande, ma proprio a tutte le domande».

Anche Emily Dickinson viene messa sotto esame nella sua veste di intellettuale e simbolo femminista. Intellettuale in quanto figura che ha subito il mondo con la convinzione propria di chi è in grado di «capire i ciechi meccanismi che li rifiutano e a cui quindi lasciano perentori messaggi». Ma non femminista perché «i suoi interlocutori sono stati sempre gli uomini, almeno in quel che le premeva». Se da una parte toglie, o comunque ridimensiona secondo le sue convinzioni una scrittrice o un’opera, dall’altra invece Rossanda ci regala nuove interpretazioni che gettano una luce diversa su alcuni snodi della storia delle donne. Ne è un esempio l’appassionata lettura e difesa di Antigone, e in generale di tutto il mito greco che ritorna nell’antologia, dove si pone in contrasto ad alcune posizioni di Luce Irigaray. Lei e altre l’avevano rifiutata come rappresentazione femminista, addirittura come possibile sorella, «in quanto rappresenterebbe non il sentire o l’essere femminile, ma la neutrale pietas o sottomissione a un imperativo categorico ugualmente neutro». Rossanda si chiede invece perché non considerarla come «figura della ribellione alla legge della polis, l’occhio capace di leggere al di là della storicità», non per caso pensato al femminile da Sofocle.

Rimarrà nonostante tutto un attrito tra lei e molte femministe della sua generazione che, come farà notare lei stessa, l’accuseranno di non essersi mai resa «autonoma», politicamente «martirizzata nella antica dipendenza delle donne». Al di là dei contrasti, delle prese di posizione nettissime che la coinvolsero in tutto il suo impegno culturale, quella di Rossanda è sempre – come sottolineato da de Cristofaro nell’ampia postfazione – una natura «profondamente aperta – aperta all’altro da sé, alla condivisione, all’agone civile, al futuro, alle emozioni». Rossanda non si sottrae affatto dall’essere tagliente, ma non vuole segnare un punto di rottura, quanto semmai trovare nuove basi per un percorso comune. Molti dei testi qui raccolti la vedono non a caso riflettere nei confronti del partito, del comunismo a cui sarà sempre appassionatamente legata senza che questo si riduca mai a una partecipazione cieca. Tutto il moto e l’impeto della sua penna si condenseranno nella sua spietata critica a La storia e all’abbaglio preso da alcuni compagni nella lettura del romanzo di Elsa Morante. Che ce ne facciamo di una storia che pretende di essere universale in cui «i poveri saranno sempre poveri» e in cui «non ci resta che il pianto»? Scrive Rossanda: «siamo pieni di ferite e forse moriremo senza aver vinto. È molto probabile. Non per questo veniamo “dai deserti della disperazione”». «Battersi è possibile» scrive, ma come riferirà poi, a quasi dieci anni di distanza, in una tenera lettera a Gabriel Garcia Márquez a commento del suo Cronaca di una morte annunciata, non si deve neppure tacere davanti agli esiti di quelle stesse rivoluzioni, senza che questo a sua volta debba impedirci di continuare a lottare per il cambiamento. 

In uno dei saggi più belli, forse non a caso cronologicamente uno degli ultimi, Rossanda parla della sua adolescenza come un periodo in cui «il politico si imponeva brutalmente sull’educazione alla priorità del privato». In tutte le Aperte lettere è infatti la categoria del politico a ritornare. A esortarci, sia nei testi del periodo della maturità che in quelli della vecchiaia, a traversare la storia, senza guardarla passare. 

3 Comments

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