Quando ho varcato la soglia, la casa mi è saltata addosso.
L’incipit de Il tarlo, prima opera narrativa della scrittrice madrilena Layla Martinez, pubblicato in Italia da La Nuova Frontiera (trad. di Gina Maneri), promette tutto quello che il romanzo contiene. Le voci di una nonna e di una nipote che raccontano alternandosi storie di violenze e di ingiustizie che da sempre accompagnano la loro famiglia e che con gli anni si sono trasformate in una eredità di ombre e fantasmi che vivono e animano la casa, rendendola la vera protagonista del romanzo. Sono donne che hanno subito diverse tipologie di violenza, che sono state vittime ma anche in rivolta, che hanno vissuto incubi e preghiere e che sono sopravvissute agli uomini e alla società tramandando rancori e forza alle donne venute dopo di loro, lasciandole allo stesso tempo intrappolate tra muri e armadi parlanti e in compagnia di anime ribelli.
Ho letto da più parti che Il tarlo è stato definito un romanzo gotico o horror. Non amo molto le definizioni di genere utilizzate per i libri, mi sembra che rischino di limitare eccessivamente tutti gli aspetti, le tematiche, le storie nelle storie che vi sono contenuti. Da lettrice ho percepito quindi il tuo romanzo come un intrecciarsi e un incrociarsi di elementi che stanno stretti dentro un’unica definizione, perché vanno dalla violenza di classe a quella di genere, dal maschilismo e dal patriarcato alle tradizioni popolari, dall’ignoranza alla vendetta. Come hai lavorato alla realizzazione di questa storia che riesce ad essere allo stesso tempo inquietante, di denuncia, commovente?
Penso che tu abbia ragione sul fatto che le etichette possono limitare notevolmente la lettura di un libro. Con Il tarlo, se ti fermi alla storia dell’orrore, rischi che i temi della violenza di genere e di classe passino inosservati e, d’altra parte, se lo leggi come un romanzo di realismo sociale, è possibile che tu veda la parte sulle ombre e gli incantesimi semplicemente come metafora, quando per gli abitanti di quella zona della penisola le credenze intorno alla morte e alle apparizioni sono reali. Per scrivere Il tarlo ho cercato di attingere elementi da molti luoghi: credo si senta l’influenza del realismo magico latinoamericano, di opere come Pedro Páramo, ma anche dalla tradizione horror anglosassone, con romanzi come Abbiamo sempre vissuto nel castello, e dal realismo spagnolo, come La casa di Bernarda Alba di Lorca.
Tuttavia, credo anche che ci possa essere qualcosa di positivo nell’essere chiaramente inquadrati all’interno di un genere. L’horror è un genere molto codificato, nel senso che è pieno di codici che il lettore già conosce. Ad esempio, quando appare un fantasma, sappiamo che c’è stata una morte violenta e che c’è un problema che non è stato risolto, perché i fantasmi rimangono bloccati su questo piano quando hanno ancora in sospeso. Quando appare una casa infestata, prima che accada qualcosa nella trama, sappiamo già che c’è stato un omicidio o un evento tragico e che le vite delle persone che vi abitano sono in pericolo. Come scrittore questo è molto utile, perché il lettore ha già molte informazioni con cui può giocare. Ne Il tarlo tutte queste informazioni mi hanno aiutato a parlare di violenza politica e patriarcale: i fantasmi hanno infatti dei processi pendenti perché i colpevoli del loro omicidio non sono mai stati processati, nessuno è stato processato per la dittatura, e la casa è davvero un luogo pericoloso per le donne della famiglia perché hanno vissuto molta violenza al suo interno.
Tutte le famiglie, felici o infelici, convivono con i propri morti, a volte anche con quelli degli altri. La differenza sta forse in chi non si riduce ad andarli a trovare ogni tanto al cimitero o a spolverarne una foto sul comodino ma li vive quotidianamente, li vede, ci parla, si lascia spaventare o consolare, come la nonna e la nipote protagoniste del tuo romanzo che apparentemente vivono sole nella casa ma che in realtà sole non lo sono mai, circondate da fantasmi, da ombre e da sante. Hai tratto ispirazione da rapporti personali o familiari per la costruzione di questa casa, delle sue pareti e dei suoi anfratti e soprattutto dei suoi abitanti di entrambi i mondi?
La storia della casa è la storia della mia famiglia materna, in particolare della mia bisnonna e di mia nonna. Con Il tarlo ho voluto raccontare la violenza di genere e di classe che hanno vissuto e anche conservare traccia del culto della morte e delle credenze popolari di quella zona, che stanno già scomparendo perché praticate soprattutto da persone anziane e perché quella zona è praticamente disabitata. Le storie sui fantasmi sono molto comuni nella mia città e mia nonna ha visto più volte sua madre in una delle stanze della casa. Da parte sua, anche la famiglia Jarabo conserva il suo vero nome. Durante la dittatura era una famiglia molto importante, il padre divenne Ministro della Giustizia sotto Franco, ed erano e sono tuttora proprietari di quasi tutti i terreni della zona. Negli anni successivi alla guerra civile, i Jarabo si divertivano a dare la caccia a persone che si erano rifugiate sulle montagne, in fuga dalle persecuzioni per le loro idee politiche o per essere state dalla parte repubblicana durante la guerra. Li cacciavano come chi caccia il cinghiale o il capriolo, con il consenso della polizia. Finita la dittatura nessuno fu processato per tutto questo, nemmeno quelli come i Jarabo che erano stati al governo, anzi nulla cambiò: continuarono ad essere i padroni di tutto e in posizioni vicine al potere. Nonostante ci siano personaggi nel libro che non hanno un nome, infatti le due protagoniste non ce l’hanno, ho voluto che ci fosse il cognome Jarabo, in modo che si sapesse cosa avevano fatto e come i loro discendenti continuano a trarne beneficio oggi. L’unica cosa che ho cambiato nel libro è stata la fine della storia sulla mia bisnonna e mia nonna. Non volevo che fossero di nuovo vittime, volevo che almeno nella finzione avessero l’opportunità di vendicarsi.
In diversi articoli dedicati a Il tarlo sono state richiamate, per assonanza di ambientazione e per il probabile effetto che questo tipo di narrazione ha sul lettore, scrittrici come Leonora Carrington, Mariana Enríquez, Daphne du Maurier. Sono autrici che hanno avuto un ruolo nel tuo percorso di lettrice e poi di scrittrice, che hanno influenzato la tua storia o, al contrario, ritieni che non ci sia alcun legame tra i vostri lavori?
Sì, penso che tutti loro siano autori chiave insieme alla trilogia rurale di Lorca e insieme ad autori del realismo magico latinoamericano, come Juan Rulfo. Penso che ne Il tarlo ci sia molta influenza proveniente dalla letteratura latinoamericana, sia da quello che era conosciuto come il boom (anche se questa è un’etichetta problematica, si collega a quanto detto prima su quanto possano essere limitanti le etichette) sia dalla letteratura horror e fantasy attuale, anch’essa scritta principalmente da donne. Mariana Enríquez è senza dubbio la chiave, ma anche Fernanda Melchor, María Fernanda Ampuero, Mónica Ojeda, Rita Indiana, Samantha Swcheblin.
Il Tarlo è un romanzo a due voci e questa alternanza permette di concentrarsi sulle due protagoniste, dietro le quali però ci sono genealogie di personaggi che pur stando nell’ombra riescono a far emergere le loro voci e a raccontare le proprie storie passate. Inoltre, c’è un uso rarefatto della punteggiatura, cosa che porta a una lettura senza pause, trascinante e impetuosa, in linea con la violenza ricorrente in ogni storia. Qual è il rapporto tra quello che racconti e il modo in cui lo racconti?
La storia è raccontata alternativamente dalla nonna e dalla nipote e volevo che quell’oralità si riflettesse in qualche modo nel testo. La lingua scritta è molto diversa da quella orale, in quella orale si ripetono di più le cose e le idee sono generalmente più disordinate, ma in compenso si percepiscono altri aspetti che in quella scritta si perdono, come l’accento o il tono. Non ho voluto riprodurre il discorso orale così com’è perché ne avrebbe reso la lettura troppo pesante, ma ho voluto che il testo contenesse alcuni elementi tipici di quello orale. Il modo in cui ho deciso di farlo è stato attraverso la punteggiatura: quando qualcuno parla in modo agitato tende a farlo più velocemente, quindi ho cercato di dare quella sensazione togliendo le virgole, in modo che anche il lettore avesse una certa sensazione di angoscia. Ho anche cercato di riflettere altre caratteristiche dell’oralità che hanno più a che fare con la sociolinguistica, come le persone di classe inferiore che imprecano di più, le donne che dicono “scusa” e “mi dispiace” più volte rispetto agli uomini o le persone di lingua spagnola di classe agiata che trascinano le finali e le rendono più lunghe.
Oltre a questo primo romanzo, in Spagna hai pubblicato un saggio sulla maternità surrogata, scrivi di musica e di tv, dirigi una casa editrice indipendente. Di cosa vorresti leggere e scrivere ancora? Cosa (o chi) vorresti pubblicare in veste di editrice e cosa in veste di autrice?
Ora sto lavorando a un progetto per il quale ho ottenuto un’importante borsa di studio in Spagna e che analizza come tutto ciò che riguarda i riti funebri, il culto dei morti e gli stati di trance e possessione sia stato fondamentalmente opera delle donne. Il fatto che alle donne fossero assegnate queste funzioni era frutto della visione patriarcale, ma molte di loro hanno saputo usarle per sovvertire i ruoli di genere e guadagnare autorità, potere e popolarità in contesti in cui le donne non li avevano. È un progetto molto avvincente, per il quale devo fare molte letture e ricerche, quindi ora quasi tutto ciò che leggo ha a che fare con questo. Sto anche iniziando a scrivere il mio secondo romanzo e per costruire due dei personaggi sto leggendo molto Southern Gothic americano, autori come Flannery O’Connor, William Faulkner o Carson McCullers, quindi tra una cosa e l’altra ho da leggere per un sacco di tempo.