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Mario Di Vito scrive su il manifesto, soprattutto di cronaca giudiziaria e fino a qualche tempo fa anche delle sue Marche, un vero e proprio laboratorio per la nostra alt-right, oggi non più di lotta ma solo di governo. Di recente ha pubblicato Colpirne uno. Ritratto di famiglia con Brigate Rosse (Laterza, 2022), un libro sul caso Peci e sul magistrato che se ne occupò all’epoca, nella fattispecie Mario Mandrelli, che incidentalmente era anche suo nonno. Un paio di anni fa, invece, era uscito Nostro signore dell’emergenza. Dispacci dall’Italia dei disastri sulle tracce di Guido Bertolaso (Aut Aut, 2021), un testo dal titolo abbastanza autodescrittivo di cui avevamo parlato qui. In questa intervista cerchiamo di approfondire e, se possibile, ampliare i ragionamenti che si trovano in La pista anarchica. Dai pacchi bomba al caso Cospito, appena uscito per Laterza.

Partiamo dalle ultime notizie passate magari un po’ in sordina per via della congiuntura globale che ci vede tutti rivolti con lo sguardo al Vicino Oriente. Qualche settimana fa l’anarchico Alfredo Cospito è stato decretato ancora socialmente pericoloso e per questo rimarrà al 41 bis, il regime di carcere duro pensato più di trent’anni or sono all’indomani della strage di Capaci per stroncare la mafia. Oltre a lui, se capisco bene, gli unici altri non mafiosi sottoposti a quel regime sono i tre delle Nuove Brigate Rosse che una ventina di anni fa uccisero Marco Biagi e Massimo D’Antona. In compenso, qualche giorno fa un giudice ha concesso a Cospito di poter ascoltare dei cd musicali, anche se già si è fatto ricorso perché potrebbe mettersi ad ascoltare dei pericolosi neomelodici. Questa di scegliersi la propria musica assieme alla possibilità di leggere certi periodici e libri, era una delle ragioni esistenziali – oltre a quelle di contrarietà generali e ideali, le battaglie non si fanno mai solo per sé – della battaglia di Cospito. Il suo sciopero della fame è durato quasi sei mesi e per una volta l’eco non è rimasta confinata esclusivamente al mondo di quei pochi che si interessano delle carceri o agli ambienti anarchici. Per questo sembrava tirasse un’aria diversa attorno al suo caso. Se lo aspettava di vedersi confermata una misura così afflittiva?

Il 41 bis, a trent’anni dalla sua istituzione, è evidentemente andato molto oltre le intenzioni di chi lo ideò durante la stagione delle stragi di mafia: in teoria doveva servire a evitare che i boss continuassero a comandare anche da dentro le carceri e, senza dubbio, è stato uno strumento molto utile durante la lotta a Cosa Nostra. Comunque, all’epoca, da subito si parlò di una misura temporanea e molto circostanziata, poi le maglie sono state via via allargate. Adesso gli ospiti dello Stato che si trovano in questo particolare tipo di regime detentivo (un’autentica tomba per i vivi, per citare le parole usate da Nordio qualche anno fa, prima che divenisse un agit prop del governo Meloni) sono circa 750. Tutti tranne quattro hanno condanne per mafia, gli altri sono appunto tre neobrigatisti d’inizio millennio e Alfredo Cospito. La questione, ad ogni modo, va anche oltre la loro situazione: a me non sembra normale che ci siano più detenuti al 41 bis adesso che trent’anni fa. Sulla situazione di Cospito siamo di fronte a un assoluto inedito nella pur molto fantasiosa storia carceraria della Repubblica: è il primo anarchico ad essere sottoposto al carcere duro, e questo perché lo si ritiene in qualche modo capo di un’organizzazione terroristica. Parlare di «capo degli anarchici» è un bel controsenso, ma anche parlare della Federazione Anarchica Informale come di un’organizzazione terroristica costituita è davvero un azzardo. Di fatto, a livello processuale, i condannati per associazione a delinquere della cosiddetta Federazione Anarchica Informale sono tre, il minimo perché si possa appunto parlare di associazione a delinquere in termini legali. La storia dei cd che citi, poi, è un ottimo esempio delle storture di questa vicenda: nel ricorrere contro la sentenza che ha dato ragione a Cospito sulla possibilità di averne anche dentro la sua cella, il Dap sottolinea che potrebbe entrare in carcere musica neomelodica, fatta cioè da persone che provengono da zone di camorra, e al 41 bis ci sono tanti camorristi. In sé è una posizione bizzarra, nello specifico bisogna anche aggiungere che Cospito è abruzzese, che l’Abruzzo non è zona di camorra e che comunque non risultano cantanti neomelodici di estrazione anarchica. Questo fattarello ci dà l’idea del livello di contorsione giuridica a cui siamo arrivati durante il caso Cospito. Non saprei dire dei suoi pensieri al riguardo, ma questo insistere sul tenerlo al 41 bis appare indubbiamente come una forzatura delle regole dello stato di diritto. Una forzatura che mi pare abbia dei chiari connotati politici: abbiamo un governo che l’ha trattato da nemico pubblico numero uno, meritevole cioè di trattamenti eccezionali. Tutto il contrario di quello che si dovrebbe fare in democrazia.

Nel libro racconti con poche pennellate che tipo è questo anarchico incorreggibile che già una volta, molto tempo fa aveva come si suol dire «fatto giurisprudenza» per via della sua renitenza alla leva. Era il 1991 e in quell’occasione fu graziato da Cossiga, dopo il suo primo sciopero della fame. Da come ce lo tratteggi mi sono fatto l’impressione che quest’omaccione sia uno che un po’ ci ha preso gusto a spaventare il potere costituito, fra citazioni dei Congegno (grazie, non li conoscevo) e scritti abbastanza sanguinari. Chi è Alfredo Cospito? Per quale motivo un anarchico come lui è finito al 41 bis?

Alfredo Cospito secondo me è un romantico, lui si vede davvero come un anarchico ottocentesco che semina terrore e combatte contro lo Stato. Lo si capisce da quello che scrive, da come si pone durante i processi, dai toni e dai termini che usa per parlare dei suoi temi. Intendiamoci, non è mia intenzione fare una sua apologia, né cercare di difenderlo – non mi è stato richiesto e lui ha degli ottimi avvocati. Peraltro nei suoi testi lui scrive cose violentissime alle quali eviterei di associarmi: vedo il mondo in una maniera estremamente diversa dalla sua. Detto questo, credo che l’unica cosa importante per me che sono solo un cronista sia cercare di trattare la sua storia dandole la dignità che merita: è stato davvero sconfortante, nei mesi passati, leggere decine di cronache in cui Cospito e gli anarchici venivano trattati come dei bambini che non capiscono come gira il mondo. Anche perché il mondo mi pare giri piuttosto male e non mi sentirei di buttare la croce addosso a chi mette il proprio corpo e la propria vita al servizio di un’ideale di giustizia. Per quanto, ripeto, spesso questa messa a disposizione sia a mio modo di vedere sbagliata, inutile o controproducente: sono costretto a ribadirlo perché viviamo in un paese in cui chi cerca di capire quelli che comunemente sono considerati cattivi passa per esserne complice, dalle Brigate Rosse in poi purtroppo è così. Chi prova a spiegare che certe cose non nascono all’improvviso dal nulla deve prepararsi a giustificarsi e a spiegare di non essere un terrorista. Credo che tutto ciò accada in altre parti del mondo, ma qui è una consolidata abitudine, probabilmente frutto della cattiva coscienza della nostra classe dirigente e della sua conseguente tendenza a scaricare sugli altri le proprie colpe, spesso abnormi. Tornando alla tua domanda, secondo me, poi, Cospito è rimasto stupito dal casino che è riuscito a combinare: a un certo punto si parlava solo di lui e le più alte cariche della nostra Repubblica sembravano essere davvero preoccupate dalle sue mosse, dalle sue parole, dal suo protestare. Il che ci dà la misura di quanto fossero in difficoltà. E alla fine hanno vinto soltanto grazie a una prova di forza – tutte le istituzioni contro un uomo solo, ricordiamocelo sempre –, perdendo però sul fronte della giustizia costituzionale, che ha riconosciuto a Cospito alcune ragioni processuali, aspetti forse un po’ tecnici ma molto importanti, perché poi la giustizia si esercita soprattutto nelle sue procedure e forzarle vuol dire proprio forzare la giustizia. Trovo che questo sia un bel paradosso: un nemico dello Stato divenuto estremo difensore della Costituzione. In questo senso aveva perfettamente ragione il suo avvocato Flavio Rossi Albertini quando diceva che tra cento anni tutti si ricorderanno di Cospito e nessuno dei suoi aguzzini.

Sono stato da poco a Genova e da Sampierdarena a Marassi era tutto una scritta su muri e piloni e sottopassi: «Libertà per Alfredo e Anna» (l’ex compagna di Cospito), «Chiudere il 41 bis» eccetera. L’Italia ha un duraturo e robustissimo rapporto con l’anarchismo, proprio a Genova i socialisti gradualisti di Costa e Turati separarono i propri destini dai compagni anarchici che non ne volevano sapere di abbandonare la propaganda del fatto nel remoto 1892. Ma la presenza anarchica è sempre stata forte: Turati si lamentava che Umanità nova veniva letto di più rispetto all’Avanti! E poi Berneri, Malatesta, più di recente Bonanno, insomma esiste una vivace tradizione anarchica nel nostro paese. Questa storia anarchica italiana, però, è sempre stata necessariamente un connubio fra teoria e prassi, talvolta punteggiata da fatti di sangue. Ecco avendo avuto il conforto di qualche lettura Cospito mi sembra uno più incline alla pratica che non alla teoria e d’altra parte non si capisce mai bene perché ci si dovrebbe attendere riflessioni illuminanti da questi intellettuali che imbracciano le armi. A che punto ti sembra l’elaborazione teorica degli anarchici italiani? E già che ci siamo ci puoi spiegare come si arriva alla creazione di due federazioni con lo stesso identico nome? Insomma, chi sono e quanti sono e dove sono oggi gli anarchici italiani?

Gli anarchici sono tanti e pochi allo stesso tempo. Cioè conosco un sacco di gente che si definisce anarchica, nel tentativo di costruire un’identità politica sulla propria convinzione di essere uno spirito libero, cioè su una cosa da bigliettino dei Baci Perugina. L’anarchismo è in realtà una tendenza molto importante all’interno del movimento operaio e chi è anarchico si pone sempre il problema di come stare dentro questo universo. Hai citato una serie di personaggi molto importanti, ma anche molto poco letti e studiati, cioè spesso non ci si rende conto della fatica che occorre per fare politica e pensare politicamente. Malatesta non era solo una figura mitologica, ma anche un raffinato pensatore e lo stesso Bonanno non è solo il profeta dell’insurrezione, ma anche una persona che ha studiato e ha studiato tanto, si capisce leggendo le tante cose che ha scritto e pure andando a guardare come si comportava in tribunale durante i processi che lo hanno riguardato. Ribadisco ancora una volta: questo non vuol dire essere d’accordo con le cose che dicono, ma prenderle sul serio, cosa che meritano e che del resto facciamo abitualmente anche con gente che lo meriterebbe molto meno. Attualmente l’anarchismo in Italia attraversa una fase particolare, a mio modo di vedere: il dibattito è molto vivace, ma ha la tendenza ad essere un po’ troppo autoriferito. Cioè, gli anarchici difficilmente parlano di anarchia con chi anarchico non è e questo porta a molti fraintendimenti, oltre che a dibattiti infiniti in cui le stesse persone parlano sempre degli stessi argomenti. Forse, ma parlo da esterno quindi non saprei, bisognerebbe aprire un po’ le finestre e far circolare un po’ d’aria all’interno dei collettivi, dei gruppi, delle redazioni delle riviste… Questo comunque non riguarda il rigore con cui gli anarchici affrontano i temi della contemporaneità, lì l’analisi è spesso e volentieri molto interessante e molto più profonda che altrove. Diciamo che il non aprirsi troppo al mondo genera spesso discussioni delle quali si capisce pochissimo. Appunto: la Federazione Anarchica Italiana è una cosa diversa dalla Federazione Anarchica Informale, ma accade spesso che sui giornali e in televisione le due sigle vengano confuse. E non sempre per la malafede del cronista. A titolo di cronaca, dobbiamo aggiungere che la Federazione Anarchica Italiana è un’organizzazione storica, che nasce dopo la Seconda Guerra Mondiale, ha una sua struttura, delle sue sedi riconosciute, una sua rivista (il mitico settimanale Umanità Nova), dei militanti che portano le proprie bandiere ai cortei, e così via. La Federazione Anarchica Informale, che richiama nel suo nome quella italiana a mo’ di sfida, ritiene invece che l’anarchismo sia inorganizzabile, che non servano strutture e che ci si occupi troppo di chiacchiere e poco di fatti. Come dice il nome stesso, è un qualcosa di informale: lo è chi se la sente, in pratica. Va da sé che anche questa formula sia problematica: di fatto, a vent’anni dalla sua prima apparizione, la Federazione Anarchica Informale è ancora sostanzialmente impossibile da definire. Io per farlo ci ho messo quasi 180 pagine di racconto, mettendo in fila una serie di fatti e provando a offrire un contesto, una storia. D’altra parte i fatti senza contesto non significano niente, parola di cronista.

Gli anarchici per certi versi rappresentano il capro espiatorio perfetto: non sono integrati nella società e in realtà neppure troppo nei ranghi di chi la vorrebbe cambiare. Per questo motivo sono stati spesso vittime designate della repressione, dalla storia di Sole e Baleno accusati di ecoterrorismo nei tardi anni Novanta a Valpreda e Pinelli indicati come colpevoli della strage di piazza Fontana si può tornare indietro fino a Sacco e Vanzetti o alla strage del Diana, alla stagione dei regicidi dei Passannante, Bresci, Lucheni e consimili. Come nasce la pista anarchica? Perché a un certo momento quando la polizia brancola nel buio il circo mediatico-giudiziario punta il dito sugli anarchici?

La pista anarchica nasce perché è la più facile di tutte da inseguire: gli anarchici non fanno nulla per nascondere la propria ostilità verso il potere, chi lo esercita e chi lo difende. Da piazza Fontana, anzi dalle bombe dei mesi precedenti, la caccia all’anarchico è più uno sport che una linea investigativa: si dà per scontato che quelli là siano sovversivi e che dunque si comportino sempre come tali, dei nemici dello Stato che lo Stato ha il compito di reprimere con forza. Non dovrebbe funzionare così: si dovrebbero perseguire i reati, non le persone. Almeno in teoria. Il circo mediatico-giudiziario in queste storie ci sguazza, trovando nelle indagini abbondante materiale per costruire una mitologia. Poi, però, se si guardano i fatti, al di là delle mitologie, ci rendiamo conto che tutto si ridimensiona, che questi nemici dello Stato non sono poi un pericolo così grande per lo Stato. O, per meglio dire, in un’ipotetica classifica dei pericoli per l’ordine costituito, gli anarchici – organizzati o informali che siano – non rientrerebbero tra le prime venti posizioni. Non è un giudizio, basta leggere le cronache per accorgersene. Il circo di cui parlavamo prima è alimentato dalla politica: hai fatto caso che il pericolo anarchico è tornato di moda con il ritorno della destra al governo? Quanti anni erano che non ne sentivamo parlare con tanta insistenza? Si tratta di un’operazione che le forze politiche più reazionarie portano avanti con una buona dose di malizia: gli anarchici sono i colpevoli perfetti, si dichiarano nemici delle istituzioni e si comportano come tali. Tante trasmissioni televisive spazzatura e giornalisti alla ricerca di un titolo gridato vanno alle manifestazioni anarchiche solo per farsi mandare a quel paese e poi gridare alla lesa libertà di stampa. La pista anarchica, insomma, esiste perché funziona alla grande.

Per molti, di sicuro per i media più anchilosati, questo supposto ritorno di fiamma dell’anarchismo ha a che fare con il movimento No Tav. Quali sono i fattori che hanno portato gli anarchici a interessarsi e a entrare in quella storia? Non è strano che si sia deciso di sviluppare una nuova forma di militanza a stretto contatto con valligiani e altre organizzazioni proprio in quella battaglia per molti (me compreso) un po’ (parecchio) nimby e di retroguardia? Alle grandi opere hanno risposto col ritorno alla natura? Cospito, per dire, si potrebbe tranquillamente definirlo un luddista, uno che della tecnologia ha una visione inerentemente negativa, una specie di ancella del capitalismo (basta leggersi le motivazioni che adduce per rivendicare la gambizzazione di Adinolfi, amministratore delegato di Ansaldo), ma immagino che ci sarà anche chi la vede come strumento di liberazione.

Il movimento No Tav è stato accusato di tante cose nel tempo. E bisognerebbe aggiungere che parliamo di una vicenda abbastanza impolverata: la tratta ad alta velocità tra Torino e Lione nasceva come parte di un corridoio commerciale tra Lisbona e Kiev, progetto che ormai non esiste nemmeno più. Poi bisognerebbe dire pure che la Val di Susa ha già una ferrovia, un’autostrada e due strade statali, cioè è una zona che da un punto di vista dei servizi è tra le meglio servite d’Italia. E ai cantieri del Tav non si sono interessati solo i movimenti, ma anche le procure, con una serie di inchieste che avrebbero dovuto far venire quattro dita di pelle d’oca a tutti. Politicamente, i No Tav mi sembrano un fenomeno multiforme: certo che c’entrano gli anarchici, ma non solo loro. Qui il Movimento Cinque Stelle ha costruito uno dei suoi zoccoli più duri, ha eletto sindaci, ha preso molti voti… Gli anarchici si sono interessati molto alla vicenda come altri gruppi politici, e però è contro di loro che si è concentrata l’offensiva giudiziaria. L’inchiesta Scripta Manent della procura di Torino – una delle più grandi in assoluto sul movimento anarchico – nasce proprio in questo contesto qui. Citi bene Cospito, ma non lo definirei propriamente luddista. O almeno bisognerebbe dire che il luddismo ha assunto forme anche interessanti nel ventesimo secolo. Nella riflessione di Cospito è centrale il concetto di «megamacchina» e deve molto alle riflessioni di Lewis Mumford, di Serge Latouche, di Marshall McLuhan. In buona sostanza, e mi scuso per la semplificazione ma lo spazio di un’intervista è sempre tiranno, si ritiene che la tecnica si stia scollando dalla scienza, cioè che il progresso stia andando molto oltre la sua funzione: siamo pieni di cose avanzatissime e inutili, anzi forse addirittura dannose. Più che conservatorismo, si tratta di scetticismo, di mancata convinzione che tutta questa tecnica vada nella direzione dell’umanità nel suo complesso. Anzi, secondo Cospito e molti altri anarchici, questo tipo di progresso serve solo ai padroni per rendere gli schiavi ancora più schiavi. Il Tav, in Italia, è stato preso come simbolo di questo discorso, con tutto quello che poi ne è derivato in termini di movimenti, lotte… Gli abitanti della Val di Susa in realtà non sono tanto interessati? Possibile, ma la convergenza che si genera tra posizioni diverse su un tema tanto specifico può tranquillamente prescindere dalle intenzioni di ciascuno. Si tratta di una battaglia, e come tale va combattuta. Almeno da quel punto di vista, perché poi conosco tanta gente anche molto di sinistra favorevole al Tav. Trovo che sia un dibattito affascinante, al di là di tutto, ma nel libro la Val di Susa mi interessava soprattutto come laboratorio della repressione.

In più di un’occasione nel libro menzioni i rapporti a dir poco turbinosi degli anarchici col resto dei movimenti che per comodità definiremmo anticapitalisti. Citi un episodio riguardante il Leoncavallo e soprattutto – l’elefante nella stanza – il divampare dell’approccio teorico e «di piazza» dei black bloc a partire da Genova nel 2001. Che fasi ha attraversato questo rapporto a tratti anche molto conflittuale?

Al G8 di Genova dedico parte di un capitolo che tratta proprio dell’approccio diverso a certe situazioni da parte degli anarchici rispetto ad altri settori del movimento. Per farla breve, dello scontro mai sopito contro i cosiddetti disobba, i vecchi disobbedienti, le tute bianche di Genova. Andando a rileggere i dibattiti dell’epoca e sentendo un po’ di persone che vi presero parte, mi pare che da una parte si accusano gli anarchici di essere dei guastatori, gente che pianta grane per il solo gusto di piantarle. Dall’altra invece gli anarchici ritengono che il pericolo maggiore sia il recupero, cioè la tendenza del potere (largamente inteso) a crearsi un nemico a sua immagine, utile ai suoi scopi, gestibile, da inserire in un processo democratico o comunque accettabile. Per loro le tute bianche a Genova erano quello: il nemico che i potenti della terra si erano scelti. E che, aggiungerei, hanno massacrato per bene, in una purtroppo non rarissima dimostrazione di brutalità poliziesca. Le fasi di questo dibattito sono molto varie: a volte non c’è nulla di cui parlare, altre si parla decisamente troppo. Chiunque abbia frequentato anche solo per sbaglio un’assemblea sa bene che alla vigilia di ogni manifestazione si pone il tema della violenza di piazza, che riguardi un cassonetto incendiato, una scritta minacciosa sul muro o uno scontro con le forze dell’ordine. E qui tornano sempre a galla le differenze: il movimento accusa gli anarchici di essere dei teppisti, gli anarchici rispondono che una manifestazione non è una scampagnata, eccetera eccetera. Non vorrei banalizzare il discorso, anche perché le diverse posizioni si sono sedimentate nel tempo, anche in virtù di tante cose che sono accadute, cioè di arresti, processi, violenze subite, palesi ingiustizie… Poi, ecco, sono tanti anni che in Italia non si vedono più piazze davvero pericolose. Che non significa che non siano possibili o che non torneranno, ma, come sopra, intorno alla narrazione dei cattivoni che vogliono solo distruggere le città c’è molta propaganda interessata.

Facciamo un po’ di aneddotica, ti va? Tu cominci a seguire la questione Cospito per via di una certa contiguità con l’ambiente sennonché un bel giorno ti ritrovi coinvolto in una discreta shitstorm nella teacup del twitter pseudo-anarchico. Ci racconti questa storia? Com’è successo?

Twitter è la morte del dibattito, e ammetto che anche io spesso ne faccio un uso tremendo. Vorrei limitarmi a metterci sopra qualche battuta innocua e basta, ma spesso e volentieri mi trovo coinvolto in discussioni lunghissime, sfiancanti e che non portano da nessuna parte. Il litigio che citi riguarda un pezzo che avevo scritto su una manifestazione in solidarietà ad Alfredo Cospito. Io scrivevo che non si poteva parlare di una manifestazione di «quelli di Cospito», anche perché secondo me non esistono «quelli di Cospito». Basta leggerlo: lui è uno che invia lettere alle assemblee per dire di non fare assemblee, ai collettivi per dire di non fare i collettivi. Crede nella propaganda del fatto: chi se la sente deve agire, gli altri facessero pure come vogliono. Ad ogni modo, alcune persone si incazzarono forse perché pensavano che il mio fosse un tentativo di dividere il movimento in buoni e cattivi. Non era mia intenzione, ovviamente. Pensavo, e penso tutt’ora, che non si possa parlare di un gruppo che fa capo a Cospito perché Cospito non è a capo di alcunché e che la solidarietà che gli è stata dimostrata non provenisse solo dagli ambienti anarchici ma, per fortuna, anche da altre parti: tanti democratici, persone che credono nello stato di diritto, mi ci metto anche io, pensano che quella storia sia una palese violazione dei diritti fondamentali di una persona detenuta e che il 41 bis sia una forma di accanimento nei suoi confronti. Tutto qui. Twitter temo non fosse il luogo giusto per fare questo tipo di dibattito. Forse non è il luogo giusto per nessun tipo di dibattito. Dicono che i social network siano morenti. Parlo da fruitore: speriamo.

Oggi, a distanza di un anno e mezzo da quando abbiamo discusso del caso Cospito fra chi riteneva si trattasse di un ricatto allo Stato e chi invece vi intravedeva un ritorno al corpo come arma e strumento di pressione umanitaria come in passato per Bobby Sands e i prigionieri di Long Kesh, ma pure Gandhi o Pannella, secondo te, a che punto è il dibattito sul 41 bis e sul carcere duro?

Mi sforzo di essere ottimista. Ricordo bene quando 15 anni fa i morti di polizia non venivano trattati dai media e venivano anzi quasi nascosti. Adesso invece mi pare che sul tema ci sia molta più attenzione: merito di una campagna lunga e faticosa fatta da tante persone con costanza e abnegazione. Mi piace pensare che sul 41 bis possa accadere la stessa cosa: parlandone, raccontandone le assurdità, spiegandone le storture, forse la sensibilità generale cambierà. Poi dovrà cambiare anche quella del legislatore, ma in Italia di solito la società civile su questi temi è molto avanti rispetto alla politica, abbiamo una lunga storia referendaria lì a dimostrarlo. La politica spesso è ottusa: citavi Bobby Sands. La signora Thatcher lo lasciò morire in prigione usando argomenti simili a quelli che la destra ha usato per il caso Cospito: con i terroristi non si tratta. Adesso gli eredi politici di Sands sono un pezzo importante del sistema irlandese, partecipano alle elezioni e qualche volta le vincono pure. Questo dovrebbe dirci qualcosa su chi abbia realmente vinto quella battaglia. Personalmente auspico l’esistenza di una società in cui le carceri non esistono, poi so bene che con ogni probabilità non vedrò mai una cosa del genere. Però lottare perché i luoghi di pena siano luoghi meno penosi – scusa il gioco di parole – penso sia necessario e penso pure possa portare a qualche risultato. O almeno lo spero con forza.

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