Quando venne pubblicato, nel 1982, Le droghe non ottenne il successo che Laudomia Bonanni e Valentino Bompiani, rispettivamente autrice ed editore, avevano sperato. Le vendite furono basse, le recensioni poche, scarse; il libro scomparve dai circuiti editoriali molto presto e il successivo non vendette alcunché. Per Bonanni fu un colpo: si sentì rifiutata, inadeguata; prese l’accaduto come una condanna inappellabile e smise immediatamente di scrivere, portando all’esasperazione quel carattere schivo che le era sempre appartenuto. I suoi romanzi precedenti, che pure si erano conquistati l’attenzione della critica, caddero insieme a quest’ultimo nell’oblio; e difatti, se oggi chiedessimo a un lettore forte quanto gli sia familiare il nome dell’autrice, con tutta probabilità risponderebbe, titubante: ‘poco’, ‘niente’; tanto più che è difficile, se non impossibile, dimenticare un nome così particolare come quello di Laudomia.
Tuttavia non c’è da stupirsi che un libro come Le droghe non abbia avuto successo (se oggi possiamo leggerlo è grazie alla casa editrice Cliquot che lo ha recentemente ripubblicato): la sua protagonista è una donna, per di più anomala rispetto alle consuetudini dell’epoca – non vive la maternità come un dono, ma come un trauma: «assistei impotente allo strappo e al grido. Esausta dal lungo strazio e alla fine incosciente. Con una sola sensazione corporale: sclavicolata. Ero fuori, mi vedevo da fuori: una donna sclavicolata come nelle antiche immagini delle torture» – e al centro della narrazione sta il racconto di una complessa, inusuale, formazione: androgina perché sempre oscillante tra una femminilità selvatica e ribelle (quella della protagonista, appunto) e una mascolinità che lotta per affermarsi estirpando da sé le radici di una sensibilità imprevista, non virile (quella del figlio, co-protagonista della storia).
La narrazione procede con uno stile limpido, spezzato, che l’autrice con orgoglio aveva definito trasparente: «[in questo romanzo ho raggiunto] una prosa di una leggerezza e di una trasparenza che mi hanno reso molto soddisfatta». Quella di Bonanni è una scrittura che funziona per sottrazione, moltiplicando le pause, i tagli e la punteggiatura, come se la voce si stesse esprimendo lentamente, con precisa assolutezza: «Si vive insieme anni e non ci si vede più. […] Il segreto di come ci sia piaciuta un’altra persona carnalmente, l’inesplicabilità di quell’attrazione, che a un tratto cessa. Senza il sigillo legale, senza la convivenza quotidiana che crea abitudini e obblighi, ci si potrebbe lasciare tranquillamente, ciascuno per la sua strada. Del rapporto sessuale non rimane nulla». Il racconto della formazione della protagonista – cresciuta senza una madre, in una sorta di Eden marino su cui si staglia fin dall’inizio un presagio oscuro: «questo fu il paradiso della mia infanzia, tutto verdazzurro con una bomba nera nel mezzo (come lo raccontai a pastello infinite volte sui primi quaderni di scuola), una grossa bomba che per me allora non scoppiò» – lascia presto il posto a quello della sua vita adulta, che rivela a più riprese l’esistenza di uno scarto, di una marginalità, o meglio, di un impossibile ricongiungimento con gli altri: «credo sia questa l’autentica diversità: si tratti di timidezza e indecisione, d’incapacità, di paura, avvenga per egoismo o per elezione, si è fuori dalla norma e probabilmente infelici. Tutto il mondo in coppia. […] Se non hai un compagno, se non hai un figlio, non appartieni a nessuno e nessuno ti appartiene. […] So di aver provato nell’infanzia un’angoscia nel profondo, il panico della solitudine e dell’abbandono». È il segno di una solitudine che si fa continuamente scavo interiore, segnando una linea genealogica – paradossale perché svincolata da qualsiasi legame sanguigno o genetico – tra lei e il figlio adottivo, Nino, forse l’unico oggetto di desiderio presente in tutto il romanzo. Il rapporto che li unisce riprende quell’immaginario morantiano di madri visceralmente (e univocamente) devote ai propri figli maschi: Giulia, la madre-matrigna, non trova il senso della propria esistenza nell’uomo che sposa, ma in questo figlio che, pur non appartenendole, le appare suo più di quello che ha messo al mondo, e che a lei si lega come per necessità – in maniera simbiotica e corporale. Eppure questa vicinanza non impedisce, di nuovo, lo scarto, la distanza incolmabile: «Non lo riconosco più. Il ragazzo affettuoso sensibile, pieno di attenzioni. Come se si fosse abbandonato a uno sbaraglio. Forse è solo il loro modo di vivere giovane che a noi adulti sembra così dissipante». Da madre, Giulia può osservare Nino solo da lontano, tentando di intuirne le contraddizioni, le perplessità, i sogni, le preoccupazioni, il contenuto dei pensieri che gli offuscano di tanto in tanto la mente. La narrazione si limita quindi a registrare i piccoli gesti, le strategie maldestre di un avvicinamento impossibile, la frustrazione di chi vorrebbe accorciare le distanze ma non sa come fare; la solitudine, insomma, di due esistenze che scorrono l’una accanto all’altra senza riuscire mai a sfiorarsi, a combaciare, a intrecciarsi: «eppure, sempre, guardi un figlio e ti coglie una sensazione di pericolo. Forse le vere madri sono più tranquille, in un appagamento più viscerale». È un rapporto che si tiene insieme su coppie di contrari: i due non si appartengono ma non potrebbero essere più simili; sembrano non capirsi eppure nessuno, più di loro stessi, sarebbe in grado di comprendere i pensieri dell’altro. E infatti su entrambi grava lo stesso peso, la stessa cupa malinconia, che non è altro che l’esito necessario di una solitudine per la quale non esiste soluzione o anestetico, farmaco o droga, nonostante lo sforzo patetico di Nino di trovarne uno: «le fughe. L’insopprimibile bisogno umano di aiutarsi a vivere. Posso capirlo. […] La dipendenza psicologica. Superata dacché ho cominciato a preoccuparmi di lui». È per questo, allora, che Giulia si domanda se non sia anche lei coinvolta in questo scollamento dal mondo, se quella che prova Nino non sia, in fondo, una condizione umana, irreversibile, diffusa: «non sarà che abbia io stessa la propensione alla droga? Che l’abbiamo ormai un po’ tutti? Che siamo tutti spaventati e propensi alle fughe?».
Le droghe è esattamente questo: un romanzo di fughe, di schermi; un romanzo sugli anestetici emotivi: non solo quelli letterali (le droghe intese come sostanze stupefacenti) ma anche quelli simbolici (e quindi le droghe intese come tentativi di allontanamento dalla realtà, strategie di difesa dal dolore, solitudini coatte). È un romanzo, pure, sulla maternità, e più nello specifico su quel particolare tipo di maternità elettiva che devia dai percorsi biologici e ne intraprende di altri, più profondi; autentici perché non obbligati e al tempo stesso complessi, destinati a essere percepiti come incompleti. Laudomia Bonanni scriveva come Annie Ernaux molti anni prima che quest’ultima prendesse la penna in mano: come lei intuiva, con brutale lucidità, la verità del corpo femminile, che è fatta di dolore, desiderio, violenza (così scrive in un passaggio sulla scoperta della propria sessualità: «corse quella voce ingrossata a stupro, l’unica parola che ritenni allora. Costò agli aggressori una battuta paterna, non priva, sembra, di compiacimento per la precoce manifestazione virile dei loro marmocchi. Imitativa, proprio come l’uomo con la donna che presuma disponibile e contando sull’impunità per un’impresa trionfalmente maschile. […] Agli occhi di certe villeggianti borghesi. Le madri degli stupratori in erba. Li avevo provocati»). Come lei, soprattutto, scriveva di una femminilità selvatica, intransigente verso le costrizioni; una femminilità che prende consapevolezza di sé all’interno dello spazio della scrittura e usa quest’ultima per ritagliarsi una voce e ri-narrarsi da capo. E tuttavia persino il paragone – seppur impegnativo – risulta limitante: non coglie il piglio di questa narrazione così assoluta, precisa, lucida, impietosa e allo stesso tempo compassionevole; una narrazione che mantiene tutto il gusto del romanzesco, della fabula, pur assomigliando a uno scritto di autofinzione (a un’analisi sul sé e per il sé).
In fondo, forse, questo è anche un romanzo che tenta di resuscitare qualcosa che si è perduto per sempre, o ancora meglio di salvare qualcosa prima che si perda del tutto: il senso di un’esistenza minima, di un amore contraddittorio; i ricordi di chi siamo stati, i contorni di chi avremmo voluto essere: «Tutto cambia, i luoghi, le persone, noi stessi, e sempre ci sforziamo di resuscitare il nostro passato giovane, quel morto che portiamo dietro le spalle». E nonostante ci siano moltissimi altri motivi per leggerlo, è qui che voglio fermarmi, su questo mesto elogio di un passato che non torna e che pure ci ha segnato: perché questo è un libro da leggere con un senso crescente di meraviglia e incanto, impreparati, travolti dal ritmo della narrazione, dalle scoperte improvvise. È così, del resto, che ci si sente quando si scopre una nuova ossessione, una nuova scrittrice del cuore: Laudomia Bonanni è diventata senz’altro la mia.
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