Milanese di ferro, milanista intransigente, classe 1965, storico della cultura, autore, regista, scrittore, documentarista, curatore delle opere di Adriano Olivetti e fondatore di Humboldt Books. Scrittore diverso dagli altri, nei libri di Alberto Saibene esiste un equilibrio continuo, palpabile ma non didascalico tra una passione civile autentica e radicata sullo studio della storia e un elegante modo di barcamenarsi tra i salotti dell’alta società milanese con uno humor trattenuto.
Un certo suo modo laterale di intendere la storia e la cultura, l’importanza di non lasciare nulla indietro, di partire dalle storie a volte secondarie ma necessarie per capire quelle più evidenti alla maggior parte di noi, un certo suo rigetto (o snobismo) verso le culture ufficiali, per le accademie e le mode del momento ha facilitato il farsi di una sua prospettiva inedita e calata nel reale e soprattutto mai forzata o insistita. Storie di un’altra Italia. Incontri e ritratti, (Edizioni Casagrande, Bellinzona 2023), con un portfolio fotografico di Giovanna Borgese, è un affresco di profili storici di donne e uomini che hanno fatto l’Italia, un’altra Italia, un catalogo civile del Novecento italiano che puntella le cesure e i momenti cruciali della storia recente del Belpaese.
Incontro Alberto un freddo pomeriggio di gennaio alla Libreria Verso, a Milano, di lì a un’ora presenta il suo libro in quello che è ormai il salotto buono della cultura milanese.
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Partiamo dal titolo: Storie di un’altra Italia. Incontri e ritratti. Nel tuo libro individui un’Italia migliore, costruita da persone che si sono distinte per passione civile e sociale. È una minoranza.
Esiste quasi una tradizione dell’altra Italia. Gobetti, giovanissimo editore, che ha definito il fascismo «autobiografia di una nazione», parlava per i pochi che stavano dalla sua parte di un’«altra Italia». Questo innesto gobettiano si è ramificato nel Partito d’Azione, di cui nel libro si parla anche attraverso un’intervista a Mario Cancogni, che ha avuto una storia brevissima e un esito politico disastroso. Però è stato poi presente con le singole persone all’interno della storia di Italia, che è anche una storia di minoranze, di persone che hanno fatto delle cose in piccolissimi gruppi o individualmente e che però nei momenti decisivi della storia d’Italia furono presenti. L’unico vero rappresentante politico di questo gruppo è stato Ugo La Malfa, che con un partito piccolo è riuscito a contare parecchio.
Il periodo storico che hai affrontato è molto lungo, va dagli anni Venti e Trenta fino agli anni Novanta nostri. Quali pensi siano state le cesure fondamentali?
La maggior parte delle persone intervistate nel libro sono nate tra agli anni Venti e gli Anni Trenta del Novecento e questa generazione aveva un’Italia nuova da costruire perché quella precedente, dei loro padri, aveva fallito in quanto legata al fascismo. Questa generazione invece ha fatto tante cose – stiamo parlando sempre di minoranze – i cui effetti però sono ancora evidenti. I loro figli hanno fatto il Sessantotto. Non è la mia generazione, ma quella degli zii, per così dire. Le cose hanno cominciato a complicarsi lì, non tanto nel Sessantotto e nemmeno negli anni di piombo, definizione a dir poco riduttiva di quel periodo. Sono stati anni di grande partecipazione alla vita pubblica, è il momento in cui gli italiani diventano cittadini e smettono di essere sudditi. C’è un bel libro recente di Luzzatto (Dolore e furore. Una storia delle Brigate rosse, Sergio Luzzatto, Einaudi 2023) che rilegge questa fase della storia sì come anni di piombo, ma anche come anni di grande partecipazione. È in quel passaggio, tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, che il corso degli eventi ha preso una piega diversa. E quindi per me che sono nato nel ‘65, per la mia generazione, la fine degli anni universitari ha coinciso con la consapevolezza, o forse allora è stata più una sensazione, che gli anni migliori fossero appena passati. Il presente era deludente e per uno come me che ha studiato storia era più interessante guardare indietro che avanti. Dopodiché ci sono stati ulteriori passaggi: Tangentopoli e la fine della Prima repubblica – era l’epoca in cui avevo cominciato a lavorare – ma anche lì il momento in cui le cose potevano andare diversamente è stato molto breve. Quando Berlusconi vinse le elezioni nel 1994 governò soltanto un anno, ma l’inerzia della storia era ormai segnata. Si può dire che hanno fatto la differenza i momenti, tra gli anni ’70 e gli ’80 e poi tra il 1992 e il 1994 in cui le cose sembrava potessero prendere una certa direzione e invece ne hanno preso un’altra. L’esempio lampante è il Pci: per la necessità di cambiare tutto e in fretta hanno buttato via il bambino con l’acqua sporca.
Dal Pci mantieni sempre una certa distanza nel libro.
Era un partito che consentiva un’alternativa possibile immaginata, ma non realizzabile. Come dire un’Italia perbene, seria, che si era concretizzata nel governo locale in Emilia e in Toscana, ma che con la Guerra fredda non sarebbe mai stata possibile a livello nazionale. Detto in altro modo, il compromesso storico si è fermato con l’assassinio di Moro. Intuite queste involuzioni, è chiaro che le forze intellettuali della mia generazione abbiano preferito occuparsi della cultura invece che della politica. Mentre invece la maggior parte delle persone intervistate o di cui scrivo nel libro appartiene alla generazione che ha avuto a che fare con la politica perché era parte necessaria dell’essere cittadino. C’è stato un impegno civile, forse non frontale, un impegno a far sì che il Paese andasse bene, o perlomeno il meglio possibile, a vegliare sulle sorti della democrazia quando era in pericolo. In premessa scrivo che oggi l’Italia ha una democrazia rappresentativa compiuta ma tocca a noi difenderla.
Una democrazia compiuta che installa le sue fondamenta sull’eterogeneità degli intellettuali che l’hanno poi plasmata nella Costituzione del ’48. Forse in modo laterale, ma sicuramente attivo, una di queste personalità che interseca anche alcuni personaggi che tu hai intervistato o di cui hai scritto è Adriano Olivetti.
Olivetti era un rappresentante di una delle tante minoranze. In Italia esistono minoranze virtuose in ambito culturale ma anche politico o religioso, come i valdesi, e che spesso non sono collegate tra loro. Ci sono quindi persone, per così dire, di collegamento. Olivetti era una di queste. In altri momenti questa funzione venne svolta dalle riviste, per esempio c’è tutta la vicenda dei «Quaderni piacentini» di Piergiorgio Bellocchio e poi Fofi con «Linea d’ombra» e «Lo straniero».
Tu come hai vissuto il periodo delle riviste?
Per il tempo dei «Piacentini» ero troppo piccolo. A «Linea d’ombra» e «Lo Straniero» ho partecipato. È stata un’esperienza bella perché invece di seguire un singolo maestro, le riviste insegnano a stare in un gruppo di persone che vogliono fare delle cose insieme. Ci sono ancora oggi dei piccoli gruppi che agiscono, riviste come «Napoli Monitor» o «Gli Asini». Una volta erano minoranze che si sentivano, oggi sono minoranze di minoranze. Però adesso ci sono i social e ci sono altre forme di aggregazione. Io collaboro con «Doppiozero» ma non c’è luogo fisico, di aggregazione, e questo un po’ mi manca.
C’è una frase nella tua introduzione, scrivi che le testimonianze vanno ascoltate. Perché il libro? Perché non un documentario?
Perché ho fatto almeno venti documentari! Per me la forma è l’intervista, io le chiamo interviste come gergo, ma spesso sono conversazioni con persone di altre generazioni, una o due prima della mia, dove è fondamentale mettersi alla pari, non in ginocchio con il microfono, ed è importante saperne abbastanza perché loro si fidino di te e a quel punto la conversazione fluisca. Poi dal parlato alla pagina scritta tutto cambia, il parlato si lavora. Un’intervista che è nel libro e a cui ho lavorato pochissimo, ma forse è quella di cui sono più orgoglioso, è quella con Nico Naldini. Eravamo alla libreria Utopia, che oggi non c’è più, a Milano. Ci siamo visti un secondo prima dell’incontro ed è stato un flusso narrativo che ho trascritto senza cambiare molto.
Come hai raccolto le tue interviste? Hai un tuo metodo? Sembra chiaro come tu abbia una predilezione per il margine.
Il libro dichiara di andare alle fonti, di non accontentarsi dei libri e di andare a conoscere le persone. Con qualcuno è nata un’amicizia dopo le interviste, con altri non si è andati oltre l’incontro singolo. Imparare si impara da tutti.
Sempre sul metodo: nel tuo libro le città hanno un ruolo fondamentale.
L’Italia è il paese delle cento città ma anche dei cento paesaggi. Paola Italia scrivendo di questo libro ha citato una lettura che ci hanno fatto fare al primo anno di università, eravamo compagni a Pavia, che è la Storia del paesaggio agrario di Emilio Serena, un libro seminale così come è stato seminale per noi leggere Storia e geografia della letteratura italiana di Carlo Dionisotti. Storia e geografia sono l’ascissa e l’ordinata di chi si occupa della cultura in Italia, almeno per me.
Oggi?
Un po’ è ancora così. C’è un ambiente romano che è diverso da quello milanese. A Firenze da molti anni non c’è niente o quasi niente ma se una libreria come Todo Modo riesce a suscitare un piccolo festival vuol dire che un humus c’è. L’humus è sempre locale: in questo caso è Pitti, che fa da aggregatore. Senza Pitti non si farebbe nulla. A Bari, a Napoli e a Palermo ci sono delle piccole cose ma non plasmano un ambiente, non durano, e c’è questo fenomeno tutto italiano che racconta Annamaria Ortese nell’ultimo capitolo di Il mare non bagna Napoli in cui c’è la descrizione del gruppo intellettuale attorno alla rivista «Sud», di fatto quattro gatti che litigano tra loro, che è una caratteristica tutta italiana, e fanno morire quel che poco di prezioso che avevano creato. Ma la geografia conta e i luoghi contano. Per dire Gianni Celati, che a me come scrittore non interessa, ha fatto scuola e oggi c’è un gruppo di scrittori che usa una lingua parlata di derivazione celatiana che è un pezzo di cultura identificabile.
Milano, come dice il mio amico Paolo Bacilieri, è una città che ne contiene tante altre, che integra, mentre, per dire Torino, non integra, come sai (ridiamo). E quindi a Milano c’è un movimento naturale che è indotto dall’arrivo di persone da fuori, non solo dall’Italia, che creano qualcosa. Nella cultura di cui mi occupo io, che è legata alla parola scritta, non tanto, ma il Salone del mobile o la design week, come dicono adesso, porta a Milano quattrocento mila persone: è un carnevale da un certo punto di vista, ma è qualcosa che non lascia le cose come le trova.
In un certo senso il tuo stile credo rifugga da una categoria definita. Quando ho letto il tuo libro sapevo di non aver letto un romanzo, ma neanche un saggio, non avevo letto un libro di intrattenimento o uno di aneddoti. Quali sono i tuoi maestri di stile?
Io non ho dei modelli di scrittura, ho dei modelli negativi che sono quelli troppo accademici o troppo gergali. Mi è sempre piaciuta la scrittura di Bellocchio per il modo molto piano ma profondo in cui faceva la critica letteraria. Oppure l’Arbasino degli anni Sessanta o Settanta era geniale perché aveva questo tono da conversazione che non saprei rifare, ma che ti dava un’altra chiave per raccontare certe cose. Poi Orwell letto in inglese o Camus in francese, ma soprattutto Orwell, sono persone che partendo da casi piccoli poi ingrandiscono l’inquadratura. Un altro grandissimo esempio, anche se ha una qualità di scrittura per me irraggiungibile, è Elena Croce. I suoi libri sono dei libri memorialistici apparentemente minori ma che sanno raccontare una società intellettuale. È quella che i tedeschi chiamano Kulturkritik. In Italia non ci sono molti esempi. Mi piace cambiare da libro a libro. Faccio fatica a incasellarmi in qualcosa. Ho letto tanto, non tantissimo, su argomenti diversi e vale sempre il famoso only connect di E.M. Foster, creare collegamenti tra letteratura, situazioni, culture. Nel libro ho messo anche in modo affettuoso ma anche dimostrativo un pezzo su Clay Regazzoni, il pilota di Formula Uno, perché penso che anche di sport si possa scrivere come si scrive di cultura in generale.
Cosa accomuna i tuoi maestri?
La non appartenenza al Partito comunista, partito per cui votavano ma di cui non si sentivano di far parte. In questo genere di sostegno c’era una disciplina. Era necessario avere un senso di appartenenza che anch’io in fondo non ho mai avuto. L’appartenenza significa avere delle regole e una disciplina. L’appartenenza è spesso verticale, anche se esiste quella meravigliosa parola «compagno, compagna», mentre il gruppo è orizzontale.
E da chi hai imparato di più?
Da Stajano si imparano tantissime cose, anche come muoversi tatticamente nella cultura. Stajano, per esempio, non si può definire un marginale, ha scritto sui grandi giornali, ha lavorato in RAI, ha venduto 400.000 mila copie del Sovversivo, ma non è mai stato dalla parte della maggioranza.
Tra i ritratti mi ha colpito quello di Roberto Cerati. Come si fa un uomo così?
Un uomo così inventa la sua professione. La figura del direttore commerciale di una casa editrice di cultura non esisteva. Cerati è arrivato molto giovane in Einaudi e ha incontrato degli uomini straordinari. Era un uomo capace soprattutto di ascoltare. Ha fatto in tempo a conoscere Pavese e ha imparato molto da Calvino e soprattutto da Giulio Einaudi che era un genio, comunque la si metta. Cerati è stato in grado di creare una rete di rapporti capillare la cui cifra era mettersi alla pari con tutti, così come Einaudi era un sovrano che guardava tutti dall’alto in basso. Forse proprio questo modo di Cerati di mettersi sullo stesso piano del suo interlocutore ha fatto sì che intuisse il grande cambiamento sociale degli anni Sessanta, un momento storico in cui le persone cominciano a guadagnare e a pensare al futuro. Famiglie che si costruiscono una casa e i cui figli vanno a scuola e che ora hanno la possibilità di andare oltre alle scuole medie, di andare al liceo fino all’università. Università significa che c’è un pubblico nuovo che ha bisogno di libri nuovi. Cerati questa cosa la capisce istintivamente, facendo quello che oggi con un’espressione orribile si dice andare sul territorio. Quella cosa che lui diceva sempre e che vale ancora oggi, e cioè che se vai in un posto piccolo, non so, prendi Novara, scegli una libreria e la coltivi, poi le altre librerie di quella città vedranno che i tuoi libri sono richiesti e verranno a chiederteli. Questo modo di fare vale, nonostante tutto, nonostante Amazon, ancora oggi. Andare in giro nelle librerie, parlare e raccontare quello che fai ma anche ascoltare quello che ti dicono i librai che sono un tramite importantissimo tra te e il lettore.
L’idea è che lui non vendesse i libri. Nel tuo ritratto si vede che si aggira nella libreria Hoepli e controlla che ci siano le novità ma non interviene con i librai. Quell’understatement, questo modo di fare le cose, da dove arriva?
Quel modo era suo, ma era anche di una generazione che ha fatto la guerra, anche se lui non ha partecipato direttamente. Se vedi tutti i giorni quelle persone lì qualcosa impari. C’è una frase di Italo Calvino che non ho messo nel libro ed è riferita da Davico Bonino, altro einaudiano, che dice che l’unica pedagogia in cui Calvino credeva, e di cui si scusava molto perché era contro tutti i modelli vigenti, era la pedagogia oppressiva. Bastonate (ride) finché le cose non venivano inculcate.
Da Cerati, passaggio obbligato su Einaudi.
Di Giulio Einaudi non c’è un ritratto diretto nel libro e ancora oggi non esiste una biografia. A me è capitato di incontrarlo un po’ di volte, ho lavorato qualche mese in casa editrice. Nel libro ci sono dei ritratti laterali, Einaudi è raccontato dal fratello Roberto: io ero andato per chiedergli di Mattioli ma mi ha raccontato tanto anche di Giulio. A Einaudi avevo dedicato un libro intervista che si chiama Una stanza all’Einaudi (Luca Baranelli, Francesco Ciafaloni, a cura di Alberto Saibene, Quodlibet 2013) che era un altro sguardo dal basso perché la figura di Giulio Einaudi viene discussa sempre in modo polarizzato. Su di sé ha fatto due libri, uno con Severino Cesari, secondo me bello, e uno che si chiama Frammenti di memoria, per me brutto, anche se l’ha ristampato nottetempo per ragioni ‘parentali’. I miei sono piccoli contributi in attesa che qualcuno scriva una biografia di Einaudi, ma non sarò io a farlo.
Usciamo dal mondo dell’editoria. Occupiamoci di arte: c’è una storia che mi è molto piaciuta: Giuseppe e Giovanna Panza, tra New York e Varese.
Panza è una persona che ho visto veramente tante volte e di cui non ho mai capito molto, ma non sono mai riuscito a parlargli. Non lo scrivo nel libro ma quando ero molto giovane e molto presuntuoso ho cercato di spiegargli l’arte americana. Gli facevo le domande, ma lui non rispondeva e allora ho cercato di fargli un’analisi sociologica dell’arte americana, ma a lui non interessava nulla perché la sua era una ricerca spirituale. È diventato un personaggio importante quasi subito, e c’è un rapporto molto stretto con la moglie con cui ha condiviso tutto. Giovanna Panza è la sorella di mio zio Federico Magnifico e quindi per me era veramente una cosa di famiglia. Sono stato fortunato, sono stato dentro o vicino a famiglie importanti, ma se non ne scrivi in un certo modo o approfondisci, poi restano solo gli aneddoti.
Sui Panza dovevo girare un documentario. Lui era già morto e allora ho fatto con Giovanna Panza una bella intervista a cui sono seguiti altri incontri ed è venuto fuori il ritratto di una donna straordinaria. Se la straordinarietà la vedi da molto vicino non te ne accorgi perché ti sembra normale.
Chiudiamo con un rimando all’attualità. C’è una frase molto bella nel tuo libro detta da Bruno Segre quando gli chiedi di Neve Shalom, la sua associazione a supporto di un villaggio cooperativo abitato da arabi palestinesi ed ebrei israeliani, e gli chiedi della sua importanza o meglio della sua capacità effettiva di cambiare le cose. Gli dici: «È una goccia nell’Oceano». Lui ti risponde con una frase preziosa: «Sì, però esiste».
Io penso a Segre tutti i giorni. Perché quanto sta succedendo a Gaza mi dà disperazione. Disperazione forse è una cosa un po’ letteraria però mi fa pensare veramente molto. Mi ha fatto molto impressione l’amico Raffaele Oriani, che si è dimesso dal «Venerdì di Repubblica» perché non si sentiva in linea col giornale, pur non occupandosi direttamente della questione palestinese. Il suo è stato un moto di coscienza e l’ho trovata una cosa così bella e così rara che però ovviamente non produrrà niente se non ci sarà un’ondata di dimissioni a seguire. E non mi pare ci sia stata. Però l’ha fatto, così come Segre ha fatto la sua associazione. Il «però esiste» è la frase, il concetto, che mi porto a casa. Segre è stato un amico ma anche un maestro. Il punto è costruire ponti, sempre. Mi viene in mente Elena Brambilla Pirelli, una donna nata in una famiglia molto facoltosa che non si è data pace fino alla fine. Restituire agli altri quanto aveva ricevuto è stata la missione della sua vita. Io ho studiato la figura del fratello, Giovanni Pirelli, ma alla fine chi mi resta di più è lei. Giovanni andava verso il prossimo, lei si è fatta prossimo. Aver incontrato tutte queste persone mi ha dato un metro di misura per comprendere il presente: se è possibile, ma è difficile, senza moralismi.
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È tardi, le persone iniziano ad arrivare per la presentazione, si accomodano sulle sedie allestite al piano superiore della libreria. L’intervista è finita quasi naturalmente dopo aver affrontato, seppur da lontano, la questione palestinese. È impossibile continuare con un tono sereno e distaccato, a tratti anche allegro. Meglio staccare e provare a distrarsi andando a salutare le persone che sono venute ad ascoltare l’evento. Dopo poco comincia l’incontro, qualche minuto più tardi mi alzo e mi avvio verso la stazione, devo tornare a Torino, la mia giornata milanese è finita. Tra un punto ristoro e un tornello i pannelli luminosi della Centrale mi accecano con le notizie del giorno, ancora Gaza, ovviamente, penso ai ponti di Segre, a me che ipocritamente spero che finisca prima possibile, con un senso di impotenza lampante. Mi incasso nelle spalle, il tabellone segna due ore di ritardo della freccia, è successo qualcosa all’altezza di Bologna. Entro in un bar per mangiare, le notizie ci saranno anche al mio ritorno.
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