Con più di quattrocento pagine Il testamento, romanzo dell’autrice svedese Nina Wähä – ex musicista adesso editor ormai alla sua terza pubblicazione –, riesce a dipingere con uno stile raffinato e con metodo chirurgico tutte le sfaccettature del patriarcato. Può sembrare una descrizione molto generica del romanzo, ma questo è: il manuale del patriarca perfetto. O anche: come distruggere una famiglia e creare traumi lunghi generazioni. Tradotto da Stefania Forlani e pubblicato nella collana Cielo Stellato di Carbonio Editore, questa saga famigliare mescola i toni della fiaba, del thriller e le atmosfere di uno spettacolo teatrale. Chi si troverà tra le mani il volume non potrà fare a meno di divorarlo pagina dopo pagina, senza neanche rendersi conto che, benché stiamo ancora attendendo l’omicidio che ci viene promesso sia nella quarta sia nelle prime righe del romanzo stesso, già ci siamo dimenticati del fattaccio, e che semplicemente stiamo in qualche modo assistendo a bocca aperta a tutte le vicende e le disgrazie della famiglia di Pentti.
È proprio Pentti il patriarca di cui sopra, accompagnato nella storia dalla moglie cinquantenne Siri e da ben dodici figli (o quattordici, se si contano anche quelli deceduti da bambini).
La famiglia di agricoltori vive nella valle del fiume Torne, un luogo di confine situato tra la Finlandia e la Svezia. Nel momento in cui ci viene promesso che assisteremo a un omicidio siamo negli anni Ottanta e alcuni dei figli della coppia si sono allontanati da casa, oppure vivono addirittura a Stoccolma, dove si sono trasferiti per lavoro. Nella capitale vive per esempio Annie, la sorella maggiore adesso incinta, suo fratello Laurie, omosessuale che teme ovviamente il giudizio della famiglia. Poco lontano dalla vecchia casa in cui è cresciuto abita invece Esko, il fratello maggiore, marito e padre, che progetta di rilevare e migliorare l’azienda di famiglia.
I personaggi sono molti e ognuna delle figlie e dei figli della coppia intreccia relazioni, innesca eventi e nasconde passioni e segreti. È proprio uno dei bambini più piccoli di nome Arto che in qualche modo dà il via alla catena di azioni che condurrà all’omicidio finale. Come in una qualsiasi fiaba, infatti, il piccolo cade in un’enorme tinozza di rame contenente acqua bollente, in cui Siri come da tradizione, ogni Vigilia di Natale lava le tende e tessuti vari. Se Siri ed Annie corrono immediatamente ai ripari, cercando di salvare Arto e chiamando i soccorsi, è interessante notare cosa fanno gli altri uomini della famiglia. Onni, il figlio più piccolo, assiste senza parole a ciò che vede, mentre Annie copre di neve il corpo ustionato di Arto in attesa dell’ambulanza. Hirvo, il fratello adolescente che si rifugia nei boschi, non dice una parola, sembra quasi imbarazzato dall’evento, muto di fronte a tanta vulnerabilità. E su tutti Pentti, che si trova in un capanno vicino e sa bene cosa è appena accaduto: non fa niente, non si affaccia neanche a guardare.
Pentti si paleserà solo la sera, quando ormai il resto della famiglia è a tavola e in qualche modo festeggia che tutto si sia risolto più o meno per il meglio. Il suo arrivo cambia drasticamente l’atmosfera.
«Stelle di Natale, biscotti e brioche allo zafferano. Erano nel bel mezzo del lavoro, quando si aprì la porta della cucina ed entrò Pentti.
L’atmosfera in casa cambiò, la temperatura calò, non solo perché Pentti aveva aperto la porta al gelo esterno, ma anche perché incuteva a quasi tutti i suoi figli uno strano timore, era il suo segno distintivo.
“Siamo al completo, vedo” fu la prima cosa che disse squadrando i figli, sporchi di farina e con le guance rosee. Erano felici, e la cosa sembrava dargli molto fastidio.»
La routine, gli oggetti della vita quotidiana, il cibo, sono elementi centrali nel romanzo di Wähä. In primo luogo perché qualsiasi cosa sembra esistere per poter essere guastata dalla presenza di Pentti. Una tavola imbandita, l’atmosfera di festa. Le passioni o i mestieri che i figli portano avanti, nei più piccoli dettagli. Annie pensa infatti alla sua famiglia come al re dei ratti:
«Il loro era un legame forte, a volte sembrava fisico. Come se fossero uniti, se non da cordoni ombelicali, da qualcos’altro, da altre catene forti e invisibili. Come un re dei ratti, quel groviglio di code di topi che si ritrovano intrecciati contro la propria volontà. E loro vivevano così, fianco a fianco, mai soli, sempre uniti.»
Il re dei ratti esce di nuovo dalla fiaba e non è altro che una creatura del folklore (perlopiù nordico) formata proprio da un insieme di ratti aggrovigliati tramite le code, proprio come nell’immagine di Annie, un fenomeno che può davvero accadere in natura, malgrado abbia ovviamente le note della leggenda urbana. Simbolicamente il Rattenkönig rappresenta un despota capace di asservire una moltitudine.
Questa è la famiglia come viene vista dai figli di Pentti e Siri: qualcosa che asserva, un luogo dispotico e innaturale, nato da una strana conformazione che sicuramente starebbe meglio una volta sbrogliata.
Il secondo motivo per cui la quotidianità pare centrale è il fatto che la sua messa in scena è uno degli stratagemmi che l’autrice utilizza per raccontarci le vicende della storia. Spesso si ha infatti l’impressione di non essere solo in una fiaba, ma in una rappresentazione teatrale, e che la casa in mezzo alla neve non sia una vera e propria abitazione, ma un palcoscenico. A dare adito a questa possibilità sono la lista dei personaggi all’inizio del romanzo e la frequente rottura della quarta parete in cui l’autrice stessa introduce i vari capitoli, sensazione che va ad aumentare con il progredire dei capitoli stessi:
«La polizia indaga.
I fratelli si riuniscono di nuovo. È la fine dell’estate. Una grande festa, o qualcosa del genere.
È successo qualcosa, finalmente!
Vero?»
Quello che Wähä sembra volerci dire, quasi esibendosi in un esercizio di stile, è questo: la famiglia che leggiamo è così disastrata, il padre così crudele, che potresti pensare che è tutto finto. Sembra una fiaba, o forse uno spettacolo in cui il male che un uomo può fare viene esibito fino all’esasperazione. Lo stesso delitto è un trucco da prestigiatore che Wähä utilizza per tenerci incollati alle pagine mentre, come già detto, non accade niente che possa neanche farcelo presagire. Questo è un possibile spoiler, ma credo che sia già chiaro dalle premesse che l’uccisione è quella di Pentti. Ciò che ci conduce a essa non sono però grandiose manovre, o terribili progetti. Semplicemente, la vita della famiglia procede e chiaramente lo fa per il verso sbagliato. Per Pentti non ci sono vincenti. La moglie è una fannullona, i figli degli scrocconi e degli scansafatiche. Ed è proprio nel testamento del titolo che proverà a prendersi una rivincita finale, dimostrando quanto in realtà è proprio lui lo stratega e chiaramente il vero re dei ratti. È nei suoi lasciti che Pentti arriderà alla vittoria ancora una volta, raccontando prima della sua vita e di quanto lui sia in realtà ben diverso da quello che credono:
«Voglio soltanto dire che anche se non mi menzionerete mai più, parti di me continueranno a vivere. In voi, nei vostri figli, nei figli dei vostri figli. Magari loro non lo sapranno, non lo ricorderanno, ma quello che ero io, resterà. Annidato nel profondo, come un seme in attesa di germogliare.»
Paragonandosi a un seme Pentti dimostra anche di non aver la benché minima idea del male che causa e che ha causato in vita. Crede di essere vita, o una forza che germoglia gentile, quando in realtà è oppressivo quanto la neve che circonda la casa e che vi tiene intrappolati i figli.
Altra cosa che è interessante notare è che Pentti ha sangue Sami, un popolo stanziato nelle parti settentrionali di Norvegia, Svezia e Finlandia e che viene spesso erroneamente indicato con il termine ombrello “lapponi”. Di recente il femminismo decoloniale Sami è stato oggetto di studi e discussione (interessante il libro Feminism in the Nordic Region curato da Keskinen, Stoltz e Mulinari, edito da Macmillan), andando a sottolineare come la cancellazione coloniale passi ovviamente attraverso la marginalizzazione delle identità e di come le donne Sami abbiano spesso cercato di intervenire nel sistema. Proprio negli anni in cui è ambientato il romanzo di Wähä, le donne Sami occupavano lo studio del Primo Ministro norvegese, protestando contro la costruzione della centrale idroelettrica ad Alta River.
Pentti al contrario sembra far parte proprio del tessuto rigido che non riesce a fare parte di una trama più completa, andando continuamente a sminuire tutto ciò che non fa parte del proprio privilegio.
I traumi degli uomini, i loro aspetti negativi, tendono in un sistema di questo tipo a essere continuamente giustificati. La povertà, la fatica, la vecchiaia, elementi che nel romanzo anche Siri utilizza per addomesticare in un certo modo sé stessa e i figli (ma soprattutto le figlie). Gli uomini vengono deresponsabilizzati e serve un lavoro duro per far capire a lei, ma anche agli altri personaggi, che quella situazione è totalmente sbagliata. Nel documentario Beyond Men and Masculinity (disponibile su Netflix) l’autore e terapista Terry Real chiede:
«What is healthy male power? I’ve never seen it.»
È questo l’inganno che Annie, Esko e gli altri cercano di spezzare. Non si può tramandare ciò che vuole tramandare Pentti. Non si deve. In mezzo a molte opere che mettono in bella vista questi problemi, che riflettono sui concetti di cura, piacere femminile, famiglia, il romanzo di Wähä racconta tutto quanto e lo fa in modo semplice, come se fosse un compito in cui si deve dire tutto.
La soluzione? Radicale, probabilmente. Ma a fine romanzo viene da chiedersi, altro trucco ben riuscito dell’autrice, qual è la cosa peggiore alla quale abbiamo assistito in queste quattrocento pagine se è davvero quell’omicidio ad averci fatto storcere il naso.
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