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Nelle scorse settimane montava la febbre mediatica all’approssimarsi del Family Day, in cui una parte della società manifestava pubblicamente il proprio dissenso alle unioni civili per coppie omosessuali e all’adozione di minori consanguinei da parte di queste ultime. Il tema, come sempre accade quando si affrontano questioni etiche, è stato trasformato in pretesto per accrescere le tensioni sociali, laddove comunque la norma (costituitasi sull’uso) non fa altro che rispondere a un’esigenza di diritti proveniente da una realtà consolidata bottom up, direbbero gli amanti dei forestierismi.

suore dimenareIn tutta questa storia, un dato salta agli occhi: la moderna questione familiare è stata selvaggiamente buttata in pasto all’opinione pubblica, tale da fomentare nei singoli (e nei gruppi a cui essi dichiarano di appartenere) contrapposizioni e contrasti ideologici basati su una retorica combinatoria tanto semplice quanto feroce. Pertanto, dall’immediata pretesa di sposare una causa piuttosto che l’altra, si è diffusa la sindrome da giudice di talent, o del «sì, no, forse» tanto caro agli istituti di statistica, che fanno credere al campione di avere libertà di risposta quando invece è la domanda prestabilita a negarla a monte.

Nel vocabolario delle ultime settimane, si sono diffuse espressioni come famiglia tradizionale, antropologica, biologica, ortodossa, eterodossa, mononucleare, pansessuale, allargata, la-famiglia-non-si-tocca, dove-andremo-a-finire, sovvertiti, pervertiti, convertiti, invertiti, anche-i-trichechi-praticano-l-omosessualità, contronatura, facessero-quello-che-vogliono-ma-i-bambini-no, preti-pedofili, padri-sposati-che-vanno-a-puttane, e-allora-la-mussolini, e-allora-la-meloni, e-allora-la-franzoni, violenze-sui-minori, l-amore-non-ha-bandiere-limiti-e-confini, parla-bagnasco-che-manco-scopa, non-chiamatelo-matrimonio, invocando persino un piuttosto pittoresco (ma tutto sommato umoristico) culimonio (Vittorio Sgarbi a Virus). E molte altre di cui la memoria rimane ancora fresca e che in futuro, quando avremo fortunatamente dimenticato, diventeranno oggetto di studi per semiologi e linguisti di varia specie. Queste forme linguistiche passate in modo massiccio su televisioni e socialnetwork penetravano indisturbate nella nostra vita quotidiana e nell’immaginario comune, finendo per costituire il combustibile con cui le fazioni reciprocamente osteggianti avrebbe dato fuoco l’una all’altra (comburente l’odio).

Disorientato e affascinato da cotale ubertosa verbosità, per provare a capir meglio io stesso primo, mi proposi di grattare un poco sotto la superficie del problema a cui l’attualità con tanta urgenza ci convocava. Mi rimisi così al germe dell’intera questione: la parola, molecola, direbbe qualcuno, di una struttura di pensiero in continua e subitanea mutazione. E mi venne quasi spontaneo tornare alle radici, o più dottamente all’etimologia, per capire da quali semi in origine derivassero i frutti di cui oggi ci nutriamo, al fine di far chiarezza nella selva di allusioni e doppisensi in cui siamo stati, come popolo, ingannevolmente trascinati.

Pertanto propongo ai lettori un glossario, quasi un lessico familiare, sul quale a piacere ragionare, per dar sostanza a posizioni a volte fin troppo slegate dal modo in cui vengono espresse, e magari far procedere il dibattito oltre la forma etologica dell’invettiva.

FAMIGLIA: Secondo alcune letture, la voce famiglia deriva dall’osco *FAAMA (casa) desunto da FAAMAT (egli abita), che risponde al sanscrito DHAMA-N (residenza, abitazione stato), donde la radice DHA = FA (collocare, porre). Quindi il termine significherebbe “nucleo di persone legato a uno spazio fisico che determina appartenenza”; si pensi che il termine risulta anche conforme al greco éthos (abitudine), che deriva anch’esso dalla radice DHA-, in quanto nella casa si acquisiscono le consuetudini.

PADRE: deriva dalla radice del sanscrito PA- (nutrire), e condivide l’etimo con termini come pane, pasto, pascolo, pappa etc.; nella figura del padre si evoca colui che nutre o procura il nutrimento.

MADRE: deriva dalla radice del sanscrito MA- (misurare), e sarebbe colei che misura e che ordina, che dispone la materia (sanscrito MATRA), e condivide l’etimo con mano, metro, e soprattutto mensa. Originariamente, nella famiglia indoeuropea, la madre era colei che distribuiva i pasti.

FRATELLO: deriva dalla radice del sanscrito BHAR- / BHRA- (portare, sostenere, nutrire) a cui corrisponde la voce BHRATHAR (colui che sostiene), donde anche l’inglese brother. I fratelli dunque sembraro connotarsi come coloro che si sostengono a vicenda, ma anche che sostengono gli altri membri della famiglia, in base a necessità (lavoro, età). Curioso che in sanscrito dalla stessa radice derivino le voci BHAR-TR (marito) e BHAR-YA (moglie), in quanto figure che vicendevolmente si sostengono.

ZIA/ZIO: deriverebbe dalla radice del sanscrito THE- che implica l’idea di allattare, quindi il suo significato primitivo legato all’universo femminile dovrebbe essere quello di nutrice – poi traslato anche al maschile; sussitono relazioni con la voce tetta, ovvero mammella.

GENITORE: dalla radice indoeuropea GAN- che inferisce il concetti di nascita e di generazione, con legami diretti con il parto e la fecondazione, con la discendenza e con la stirpe, condividendo l’origine con paroli quali gente, genere e genitali. Genitore è colui che dà origine.

FETO: dal sanscrito BHU- che indica nascita, secondo alcuni, imparentato con il greco physis (natura) che indica l’esistenza, ciò che è generato. Da questa radice deriva anche il greco phytos (pianta) e forse la voce figlio/figlia (i generati). Altre letture etimologiche vorrebbero che feto sia legato ancora alla radice THE-, quasi colui che è allattato, a cui si lega il latino felare (succhiare), oppure le parole fecondo, felice, femmina (in quanto colei che allatta), fino a figlio/figlia (gli allattati).

Quindi, linguisticamente la famiglia, nella sua struttura complessa, sembra scaturire nell’immaginario culturale indoeuropeo da una combinazione di ruoli che favoriscano il funzionamento della vita quotidiana. Ma soprattutto che questi ruoli siano legati a un fattore spaziale e non biologico. Anzi, il fattore biologico sembra assumere connotati meccanici svincolati dai ruoli familiari medesimi: genitore risulta diverso da padre e madre, come fratello risulta diverso da figlio. Che poi chi dia la vita abbia finito per coincidere anche con chi ricopre un ruolo definito nella famiglia, appare frutto della reiterazione di una consuetudine piuttosto che di un’investitura automatica.

Ora, l’intero discorso potrebbe sembrare come la morte della poetica familiare, degli affetti e la fine degli amori tanto idealizzati. In realtà, nulla viene tolto ai sentimenti: si mira solo a descrivere i termini entro i quali questi sentimenti si sviluppano, e che magari, per esempio, fanno percepire anche un cane o un gatto membro della famiglia medesima, pur mancando, non solo legami di sangue ma anche di specie con gli altri elementi.

E questo sarebbe ben visibile se si considerasse l’evoluzione di tale istituzione nei secoli, in base ai popoli e nel tempo. E sarebbe anche curioso comparare i termini presi in esame con quelli di altri gruppi linguistici, per cogliere in che modo la famiglia sia stata concepita in una differente fucina di idee. Così, le parole che usiamo quotidianamente sono molto più profonde di quello che ci appaiono, sedimentate nei secoli secondo le necessità reali dell’uso, e per certi versi, addirittura più rivoluzionarie nel significato di quanto noi stessi siamo pronti ad ammettere.

(*) Questo articolo è stato scritto circa dieci giorni prima delle votazioni avvenute in Parlamento.