Paolo Cognetti ha esordito come narratore nel 2004 all’interno dell’antologia La qualità dell’aria, curata da Nicola Lagioia e Christian Raimo. Successivamente ha pubblicato con minimum fax due raccolte di racconti: Manuale per ragazze di successo nel 2004 e Una cosa piccola che sta per esplodere nel 2007. Ancora edito dalla casa editrice romana Sofia si veste sempre di nero, romanzo del 2012 finalista al Premio Strega dell’anno successivo, nel 2017 finalmente vince lo Strega con Le otto montagne (recensito qui).
Oltre a una serie di documentari sulla letteratura americana, nel 2010 è uscito New York è una finestra senza tende (Laterza) e Tutte le mie preghiere guardano verso ovest (EDT) nel 2014. Tra le passioni di Paolo Cognetti non ci sono solo letteratura e scrittura ma anche la montagna, dove trascorre alcuni mesi dell’anno. Da questa esperienza nasce un diario, Il ragazzo selvatico, del 2013. Nel 2014 è uscito per minimum fax A pesca nelle pozze più profonde, una meditazione sull’arte di scrivere racconti. È del 2015 invece New York Stories, raccolta antologica di racconti curata da Paolo Cognetti e pubblicata da Einaudi.
Come si conciliano nella tua vita, privata e soprattutto di scrittore, due orizzonti così diversi: il panorama urbano di New York Stories e le montagne dell’Himalaya nepalese che hai scalato?
Sono i miei due amori di viaggiatore. È una fortuna che possiamo amare cose molto diverse tra loro. Se ci penso, me la spiego così: io sono nato e cresciuto a Milano e ho passato in montagna tutte le estati della mia infanzia. Da sempre mi divido tra questi due mondi. La città è una casa per me, un luogo da cui mi sento accolto, dove dormo tranquillo la notte. A New York ho trovato la mia città ideale perché sono intriso della cultura che l’ha creata (occidentale, novecentesca, libertaria), per tutti gli scrittori americani che amo, per lo spirito che si respira lì e per la bellezza commovente di certi luoghi. La montagna invece è il fuori, è il bosco che si vede dalla finestra. Un amore che ha a che fare con il senso di scoperta, di immersione nella vita selvatica, di felicità del corpo. In città invecchio, in montagna torno bambino. Sia in città che in montagna cammino molto e sto molto da solo. Da scrittore, cerco di raccontarle entrambe meglio che posso.
Come nasce l’operazione New York Stories e in che rapporto metteresti questa tua selezione di racconti con gli altri tuoi due libri su New York?
Einaudi pubblica da diversi anni queste antologie a tema, e io da gran lettore di racconti le ho tutte. A un certo punto mi è venuta voglia di curarne una su New York – una città che frequento come viaggiatore da una dozzina d’anni, e come lettore da molto di più. Mi sono dato delle regole: dovevano essere racconti (e non brani di romanzo) e percorrere tutto il Novecento, in modo che uno leggendo il libro potesse fare un viaggio nella città attraverso il secolo. Dovevano esserci scrittori famosi, come Fitzgerald, Capote, Cheever, DeLillo, e altri sconosciuti in Italia, come le voci dell’immigrazione portoricana o afroamericana. Per come la vedo io, questa antologia è un proseguimento del mio lavoro su New York e sta bene con gli altri miei libri, spero anche quelli che scriverò in futuro. Qui c’è la materia prima, gli scrittori che ho letto e che mi hanno portato laggiù, quelli a cui penso quando cammino per le strade. Tutto parte da loro.
Nelle tue parole New York è una città in cui provare a farcela, una città fatta dagli immigrati e dalla working class, una città che ha incarnato profondamente i valori e gli ideali del secolo passato. Cos’è cambiato? New York è ancora il centro del mondo o l’asse si è spostato altrove?
Qualcosa è cambiato: New York non è più un porto ma una fortezza, oggi non accoglie ma esclude. Chi non ha i soldi, chi non ha il visto, chi non ha studiato, chi non ha già un lavoro. Oggi a New York emigrano i laureati e i figli dei ricchi, che ne fanno una città sempre più borghese. I valori e gli ideali che incarnava nel secolo passato (la possibilità di emigrare, lavorare, ottenere libertà politica e dignità sociale, rifarsi una vita) sono andati insieme al Novecento: New York continua a rappresentarli per i poveri del mondo? Non mi pare. Lo scontro, o l’incontro, dove avviene in questi anni? Non a New York. Non so dirti dove si stia spostando il centro, ma mi sembra che l’Europa sia di nuovo un gran crocevia di popoli ultimamente e che l’America da questi flussi si sia parecchio isolata.
I protagonisti dei tuoi racconti sono per lo più donne. Ricordiamo un blurb su di uno dei tuoi libri che parlava della tua capacità «diabolica» di entrare nella mente femminile. Che è sicuramente una delle sfide più difficili da affrontare in letteratura: adottare lo sguardo dell’altro sesso. Come si riesce a rendere la prospettiva femminile in modo così efficace?
Non esiste la mente femminile. E non c’è nessuno sguardo dell’altro sesso. C’è lo sguardo dell’altro e basta. Entrare nella testa di una donna mi è difficile tanto quanto entrare nella tua, Leonardo: mica perché siamo entrambi uomini io ti capisco meglio. La verità è che le mie donne mi assomigliano, sono esseri umani simili a me, non faccio fatica a dar loro pensieri e parole. Farei invece enorme fatica con un personaggio che mi è lontano culturalmente, nato in un altro paese, con un’altra religione, altri modelli famigliari e sociali. Tutta questa teoria del maschile e femminile in letteratura è ridicola e la respingo con forza.
Le tue storie sono colme di immagini letterarie che sembrano il cuore del tuo stile di scrittura. Se questa affermazione è corretta puoi raccontarci come crei un’immagine?
Penso di avere una predilezione per la vista. Preferisco la fotografia alla musica, per dire. Non ho orecchio per i dialoghi e infatti mi costano sempre molto lavoro, e mi lasciano insoddisfatto. Ma mentre un racconto prende forma vedo le scene, anzi direi che per me la scrittura nasce da lì. Non è che creo un’immagine, è il contrario: vedo un’immagine e poi mi metto a descriverla a parole.
In A pesca nelle pozze più profonde affermi che mettersi all’ascolto è un’attitudine indispensabile allo scrittore per raccontare una storia, molto più che prendere la parola. Qual è stato il momento in cui credi di aver cominciato a dare ascolto?
Sembrerebbe in contraddizione con quello che ho appena detto, ma in quel testo parlavo di un’attitudine a ricevere, ad accogliere, ad assorbire, a dimenticarsi di sé e dedicarsi a per un po’ a qualcuno che non sono io. Parlavo della scrittura come un atto di compassione e, in definitiva, d’amore per un altro. Succede quando scriviamo dei nostri genitori per esempio. Abbiamo passato tanti di quegli anni a osservarli e ascoltarli, raccogliere materiale senza rendercene conto, e scrivere di loro è come mettersi lì e fare ordine in questo archivio, cercare di dare un senso ai frammenti che possediamo, capire un po’ queste persone misteriose che sono o erano mia madre e mio padre.
Sempre nello stesso libro edito da minimum fax parli di una «stanza chiusa» o «buco nero». Il luogo del non raccontato, del non risolto a cui uno scrittore attinge e attorno al quale gravita tutta la sua scrittura. Qual è la tua «stanza chiusa»?
Se te la aprissi non sarebbe più chiusa, non credi? Quella parte del lavoro spetta a te.
A proposito di una storia che si sta formando nella mente, hai detto: «presto o tardi mi ritrovo nel luogo per cui passano tutti miei i racconti». Senti la paura di declinare in vari modi sempre la stessa storia?
Sì, un po’ sì. Anche per questo ho una seconda forma di scrittura in cui mi dedico ai luoghi. L’ho usata per New York e l’ho usata per la montagna, si potrebbe forse chiamare narrativa di viaggio ma è in sostanza una scrittura d’osservazione. È il viaggio, lo sguardo tutto teso a ciò che è esterno a me. Quest’altra scrittura mi piace molto e la trovo liberatoria quando le mie storie cominciano a darmi un senso di claustrofobia.
Esiste nel rapporto coi tuoi personaggi qualcosa di paragonabile al Bad Ray e Good Ray di Carver, cioè un atteggiamento magnanimo oppure feroce nei confronti dei protagonisti delle tue storie?
No, non sono mai stato feroce. Non ho avuto la vita di Carver, che era la fonte della sua ferocia. Mi è successo qualcosa del genere quando ho fatto pugilato: al primo incontro, dopo un anno di allenamenti, mi sono accorto che la persona davanti a me aveva addosso una rabbia e una voglia di spaccarmi la faccia che io non avevo, perciò era meglio cambiare sport, trovarne uno in cui la rabbia non c’entrasse (mi sono poi dato al kayak). Potrei essere feroce, forse, il giorno in cui metto in scena davvero me stesso, lì sì che sarebbe il caso di picchiare duro: ma con i miei personaggi no, a loro voglio solo un gran bene.
Perché hai scelto di scrivere racconti? Cosa ti offre la forma breve che non trovi nel romanzo?
Un’estrema libertà di scrivere come voglio. Di sperimentare voci e strutture narrative, di cambiare stile, di fregarmene della storia e abbandonarmi alla scrittura. Di buttare via tutto e ricominciare daccapo. E pure di darci un taglio quando pare a me.
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