«The short story is not minimalist, it is rococo. I feel in absolute control. It is like writing chamber music rather than symphonies.»
Basterebbe questa frase a causare infarti plurimi a buona parte dei docenti di un qualsiasi corso di scrittura creativa. Le parole di Angela Carter, riportate da Helen Simpson, sono apparse sulle pagine del Guardian nel giugno del 2006 in un articolo dedicato all’antologia di racconti The bloody chamber (La camera di sangue, traduzione di Barbara Lanati per Feltrinelli).
Nel medesimo pezzo, Simpson, che del libro ha curato l’introduzione per Vintage Publishing, definisce la Carter una scrittrice «dissidente», per l’approccio radicale alla rielaborazione letteraria.
È indubbio che la scrittrice britannica sia riuscita a fare breccia nell’immaginario collettivo per le tematiche controverse affrontate nel suo percorso narrativo mai avido di incesti, torbide ambiguità sessuali ed esplosioni di lussuria sospesa sul filo tra conturbante e osceno; sarebbe però un grave torto relegare l’autrice nel ruolo di raffinata provocatrice dedita a strumentalizzare innocue provocazioni e occultarle dietro una cappa tessuta con elaborati drappeggi linguistici.
Una raccolta come La camera di sangue, ma anche Fuochi d’artificio o Fantasmi americani, ha con il genere gotico, ma sarebbe più corretto dire con tutto il fantastico, un dialogo controverso, malfermo, instabile. Si tratta di narrazioni simili a pietre preziose raccolte sulla strada di un sentiero, del quale la stessa autrice ignora l’esatta destinazione, frutto di un debordante ragionamento sulle potenzialità del raccontare.
«The Gothic castle itself, that formidable place, ruinous yet an effective prison, phantasmagorically shifting its outline as ever new vaults extended from their labyrinths, scene of solitary wanderings, cut off from light and human contact, of unformulated menace and the terror of the living dead – this hold, with all its hundred names, now looms to investigators as the symbol of a neurosis; they see it as the gigantic symbol of anxiety, the dread of oppression and of the abyss, the response of the… insecurity of disturbed times.»
Lo scrive Herbert Read, nell’introduzione a The Gothic Flame, un saggio di Devendra Varma sulla storia del romanzo gotico in Inghilterra. In queste poche righe si evidenzia chiaramente come, nel genere in questione, esiste un collegamento diretto tra la vita interiore dei personaggi, i sentimenti, le sensazioni e il mondo esterno; l’ambientazione si plasma sul calco psichico, in un processo nel quale i protagonisti si configurano, al contempo, come elementi attivi e passivi.
Insondabili foreste o labirintici castelli si impongono come luoghi misteriosi, la cui sola presenza basta a instillare inquietudine ma, in quanto riflessi dei personaggi del racconto, subiscono a loro volta un influsso reattivo in modo che lo scenario gotico destabilizzi i personaggi della narrazione e a sua volta si modifichi in base alle loro emozioni. Il conseguente senso di estraniazione è dato dal fatto che, nel maggior numero dei casi, i personaggi non si rendono conto di essere costretti in un tale meccanismo, mentre al lettore è concessa la possibilità di riconoscere la relazione, grazie alla sua posizione privilegiata.
Carter, stregata dal diabolico gioco gotico, porta alle estreme conseguenze il procedimento: il quinto racconto di Camera di sangue, La bambina di neve (The snow child), si apre con un conte e una contessa che cavalcano fianco a fianco; il conte, affascinato prima dal candore della neve, poi dal rosso vermiglio del sangue all’interno di un alveo e infine dal piumaggio nero di un corvo esprime ad alta voce il desiderio di possedere una figlia che racchiuda in sé tali caratteristiche: poco dopo una bambina dalla pelle di neve, bocca rossa e capelli neri si manifesta di fronte alla coppia. Modellata dalla volontà del conte e partorita, presumibilmente dalla natura stessa, l’apparizione si rende subito invisa alla contessa, rósa dalla gelosia.
La nobile sposa tenta di liberarsi della bambina gettando nella neve un guanto e successivamente una spilla di diamanti nel ghiaccio e ordinandole di andarli a recuperare; entrambe le volte il conte revoca le direttive della sua signora per proteggere la neonata creatura ed entrambe le volte le ricche vesti che adornano la contessa si involano magicamente sul corpo della piccola, lasciando la donna nuda.
La situazione degenera d’improvviso: in prossimità di un cespuglio di rose la bambina, per compiacere un desiderio della donna e nel tentativo di coglierne una, si punge e trova la morte. Il conte, in lacrime, scende dal cavallo e violenta il corpo esanime dell’infante sotto lo sguardo compiaciuto della sposa; concluso l’amplesso, il cadavere si scioglie, ritornando allo stato originale di neve; i vestiti ricompaiono addosso alla contessa; infine il conte raccoglie l’esiziale rosa da terra e la offre alla compagna che, accettandola, si punge.
Poche centinaia di battute, un calco non immediatamente riconoscibile (la fiaba di Biancaneve) in cui è racchiuso un coacervo simbolico magmatico dove è facile smarrirsi. Nella prima immagine si presentano due figure classiche della fiaba, un Conte e una Contessa. Tuttavia giungendo alla conclusione si capisce quanto sia erroneo parlare di ruoli in un simile contesto: l’equivalenza tra mondo esterno e personaggi, nella Bambina di neve, è totale; ogni principio logico di causa-effetto è volutamente ignorato e sono le pulsioni stesse a regolare le dinamiche della narrazione. A sorprendere è il fatto che le pulsioni non sono fissate in un costrutto statico, non si incarnano in dei personaggi, ma vengono trattate come un flusso perpetuo, informe, in cui tutto può diventare il suo contrario.
Più che una riflessione strettamente legata alle problematiche di genere, si nota un interesse per le potenzialità della lingua, in particolare se al servizio del linguaggio fiabesco: scomponendo e ricomponendo ossessivamente le strutture fiabesche, Carter edifica e distrugge mondi con un pugno di parole, mettendo in scena lo spettro delle emozioni umane su un ipotetico palco dalla scenografia liquida.
Non si vuole così disarmare il testo dalla sua carica ideologica, la Carter resta infatti scrittrice dissidente, ma piuttosto constatare quanto in lei il gotico diventi strumento per sondare i limiti delle narrazioni.
Si tratta di un approccio peculiare e differente da altre riscritture fiabesche, anche di qualità: in The Sleeper and the spindle (in Italia, La regina nel bosco per Mondadori), un racconto di Neil Gaiman, pubblicato all’interno della raccolta Trigger Warning del 2014, uscito poi anche in volume unico arricchito dalle illustrazioni di Chris Riddell, si racconta con indubbio estro una versione alternativa della Bella addormentata: in questo caso al posto del principe troviamo Biancaneve nel ruolo dell’eroe, accompagnata dai nani come aiutanti; tuttavia la dormiente non è più riconducibile alla consueta funzione di madamigella in difficoltà e al suo posto viene inserita una strega che attraverso un arcano, per la riuscita del quale è costretta a dormire un sonno lungo anni, riesce a rubare a una ragazza la giovinezza.
Quello che compie Gaiman è un riuscito ribaltamento dei ruoli: figure originariamente passive, sia positive che negative, diventano agenti dell’azione spiazzando il lettore avvezzo alla versione classica.
Anche se apparentemente le due scritture sembrerebbero simili, in realtà gli intenti perseguiti da Carter e Gaiman differiscono radicalmente: se il secondo, pur operando un radicale stravolgimento del canovaccio, mantiene intatte le costituenti fiabesche, – con tanto di morale esplicitata nel finale e sintetizzata nella formula si può sempre scegliere, come invito a forgiarsi una propria personale storia – la prima dà al suo discorso un carattere meno definito, aprendo scorci problematici mediante immagini narrative.
Del resto, è stata proprio la Carter a dire «I feel in absolute control» parlando dei suoi racconti e probabilmente non abbiamo nessun diritto di metterlo in dubbio; anche se, una volta varcata la soglia del suo immaginario, è difficile riuscire a concepire qualcosa di meno controllato di tutte quelle pagine vergate con inchiostro rosso scuro, un rosso sangue.
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