Prima di leggere Trilobiti ero convinto che con Pancake fossimo di fronte all’ennesimo caso di sindrome Randy Rhoads. Per chi non lo sapesse, Rhoads era il chitarrista – l’ottimo chitarrista – di Ozzy Osbourne, morto giovanissimo in un assurdo incidente aereo e assurto a sempiterna gloria come guitar hero per schiere di axemen. Sì, perché Pancake gode di uno status di culto per molti versi simile presso scrittori e lettori smaliziati, e anche lui ha avuto una morte orribilmente prematura e bizzarra. In questi casi, nel caso di Rhoads sicuramente, si è mossi a compatire l’irrealizzabilità di un potenziale strappatoci troppo presto dalla morte e, magari, a sovrastimare l’effettiva qualità di quanto il defunto ci ha lasciato.
Un’altra insidia che mi spaventava è che quando uno scrittore o chiunque altro si suicida siamo inevitabilmente portati a (ri)leggere le sue opere e la sua vita sotto la luce e alla ricerca di una possibile spiegazione per il suo atto estremo. Dire che le biografie degli scrittori non viziano e non indirizzano (o peggio ancora che non dovrebbero farlo) le nostre letture dei libri mi è sempre sembrata una gran baggianata. Volenti o nolenti, mentre ascoltiamo Polly dei Nirvana, in un cantuccio della nostra mente si annida la consapevolezza che chi canta si è sparato (a meno che non siate tra i creduloni che sostengono una curiosa teoria del complotto con al centro Courtney Love e El Duce dei Mentors, in quel caso siete facilmente impressionabili e avete letto Il caso Cobain di Episch Porzioni, Chinaski edizioni), così come è molto difficile resistere alla tentazione di rileggere sotto l’unica e fuorviante chiave di lettura del suicidio tutto quello che ha scritto David Foster Wallace.
Sebbene sia complicato, forse impossibile, concentrarsi solo sul testo di Trilobiti e mettere da parte la vita e la morte (e la relativa fortuna presso those in the know) del suo autore, vale la pena di tentare e fare lo sforzo. Saremo ripagati da uno scrittore che aveva una consapevolezza ben superiore ai ventisei anni di età in cui si fermò il suo tempo.
Paragonato per il fulgore del talento cristallino a Hemingway da Joyce Carol Oates, e idolatrato da Vonnegut, Atwood, Dubus III, Tom Waits e Mark Knopfler (che ha dedicato una canzone a Una stanza per sempre, uno dei dodici racconti in questa raccolta postuma) Pancake si spara l’8 aprile del 1979. Cattolico fervente, cacciatore di cervi e scoiattoli, pescatore, generoso al limite del patologico con amici e conoscenti, taciturno, con un penchant per la rissa e le bizzarrie come quando se ne andò in giro per il campus dove studiava scimmiottando ad alta voce Jimmy Carter. Meticoloso fino all’ossessione, ebbe però il vezzo eccentrico, o forse più plausibilmente l’autoironia, di tenersi la storpiatura del suo nome per come apparve sull’Atlantic Monthly, dove invece di Dexter venne chiamato D’J.
Ripubblicato meritoriamente da minimum fax e ritradotto da Cristiana Mennella (la voce italiana di George Saunders) assieme a una breve introduzione di John Casey, una lettera dello stesso Pancake e una nota di Joyce Carol Oates, quest’edizione di Trilobiti arriva dopo la prima pubblicazione da parte di Isbn nel 2004 (la traduzione era di Ivan Tassi). Si tratta di un libro che mancava e serviva nelle librerie italiane e che gli appassionati della forma racconto o anche solo della letteratura statunitense farebbero bene a procurarsi.
L’America di Pancake è un’America di serie b, defilata, non è quella delle due coste né quella del Midwest. Siamo negli Appalachi, uno spicchio della terra del latte e del miele immerso in un tempo immobile, geologico – quello dei fossili del titolo appunto – in cui la vita vale poco o nulla. Il motore delle storie di Pancake sembra essere proprio il paesaggio rurale in cui si muovono i suoi personaggi. Le grandi città sono un miraggio sfocato e distante migliaia di miglia e la grande storia, come la guerra in Vietnam, passa altrove e quando passa, nel tempo dei trilobiti in cui l’estinzione è la costante, si tratta quasi solo di una breve seccatura. Anzi, come in La mia salvezza, uno dei racconti più belli della raccolta, le New York, le Chicago con la loro magia fasulla corrompono l’aria e i giovani con qualche aspirazione delle varie Rock Camp del West Virginia, li attirano a sé e li risputano fuori senza tanti complimenti. Sono un richiamo di sirena impossibile da evitare per chi lavora a una pompa di benzina o è sepolto nelle profondità di una miniera.
I protagonisti sono sempre intrappolati tra l’impossibilità di fuga, di lasciarsi alle spalle la vita agra di questi paesotti incastonati in valli punteggiate da miniere, e l’impossibilità anche di rimanere, di piegarsi alle trite regole e consuetudini della vita nel West Virginia. Il movimento è spesso dettato da personaggi che sono ai margini. Magari perché sono outsider e non aderiscono alle pratiche brutali della comunità agreste e maschilista come in Cacciatori di volpi. Spesso e quasi programmaticamente i suoi protagonisti sono orfani di padre eppure solo con mille impacci si risolvono ad andarsene dalla terra natia sulla loro Chevrolet Impala del ’66. «Non gli hanno insegnato a stare al mondo» e ciononostante devono e magari vogliono vivere in quel mondo e a quel modo.
Oppure, come in Trilobiti, sono addolorati dal cambiamento che sembra si stia per abbattere sulle loro vite e riluttanti ad abbandonare la terra e la fattoria in cui sono cresciuti, malgrado l’esempio vivente che altrove si può stare – una ragazza dal passato che torna dopo il college, irrimediabilmente mutata nell’animo. Allora la ricerca di trilobiti è un modo di manifestare la vicinanza carnale, fisica, con la propria terra e la propria storia, per quanto avare di soddisfazioni esse siano. La fattoria è improduttiva da quando il padre è morto, nonostante la buona volontà del figlio che vuole cristallizzare un tempo e una stagione, quella di un amore che non tornerà più.
O ancora il minatore di Valle che non si accontenta più, che vuole scioperare per ottenere più soldi, per trattenere a sé Sally, la moglie insoddisfatta che finirà per stancarsi delle sue promesse e ingaggiare un’altra relazione parimenti senza speranza.
Insomma, tutto è nel rapporto tra gli uomini e il loro ambiente, è lì che si giocano i destini dei racconti di Pancake: lasciare o restare, fuggire o rimanere. A chi queste maglie stanno strette e a chi vi trova la sua unica dimensione possibile, tutti sembrano muoversi come intrappolati in una morsa.
I fiumi e le miniere uccidono e dànno da mangiare. I boschi sono teatro di cacce grottesche, sbronze colossali e camerateschi coming of age. I campi, le officine, le macchine: tutto sembra il frutto di un lavoro sudato e che abbrutisce. E se la lingua di Pancake può apparire tesa e senza troppi ricami, l’autore conosce e domina ogni aspetto del suo paesaggio: sa come si chiamano gli strumenti di lavoro, conosce il nome degli alberi, dei fossili, la geografia minuta del West Virginia. È una scrittura affinata e nitida, in cui traluce il perfezionismo del suo autore e la determinazione granitica dell’autodidatta ambizioso.
Tra risse in bettole di quart’ordine per ammazzare i fine settimana, cottarelle per cassiere sfiorite e litrate di caffè, combattimenti di galli, incontri di boxe clandestina che vanno prevedibilmente a finire male, il mondo di Pancake è quello della working class americana.
Eppure, eppure, nelle dodici storie di Trilobiti c’è anche qualcosa in più oltre a quest’essere tutt’uno con la materia narrata, questo farsi carbone macchina ferro strumento e fondersi con il paesaggio desolato da parte del suo autore, quasi fosse – non a caso se pensiamo alla sua fede – una vocazione, una missione. Nella voce di Pancake si nasconde una malinconia di fondo su cui non mi riesce di puntare il dito, che sfugge alle categorie biografiche e non, e in tutte le sue pagine aleggia un’accettazione cupa e affatto inconsapevole del proprio destino e del senso della fine, propria e di tutte le cose.
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