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Si sente spesso dire che nell’era dell’informazione l’ignoranza sia una scelta; è una frase ben costruita, che sembra muovere da salde premesse a ovvie conclusioni. Quanto alle premesse, in effetti è fuori luogo affermare che oggigiorno reperire informazioni sia difficoltoso: televisione, giornale, internet e radio sono assopiti nel nostro smartphone, solo in attesa di essere risvegliati. L’istruzione, inoltre, non è più un bene elitario da quasi un secolo: le riforme sulla scuola dell’obbligo (a partire dall’istituzione dell’obbligo fino alla terza media) succedutesi negli anni hanno contribuito ad abbattere, salvo tristi eccezioni, le barriere sociali che si ponevano tra le masse e la cultura; l’istituzione di agevolazioni per le fasce meno abbienti e in particolare per i più meritevoli hanno permesso di scollegare la possibilità di continuare a studiare dallo stato economico familiare.

È quindi vero, verrebbe da dire, che con queste premesse e con tutte le diverse strade percorribili l’ignoranza è oggi una scelta. Sì, in parte è vero: c’è chi trova la felicità nella più totale ignoranza, scelta non apprezzabile ma che tuttavia dev’essere pazientemente rispettata. Tuttavia, bisogna fare i conti con una distinzione terminologica fondamentale che inerisce il problema: la distinzione tra la facilità di accedere alla conoscenza, e conoscere. Il primo aspetto coincide con quel traguardo sociale di cui sopra s’è fatto breve accenno; è pertanto una condizione storica, legata strettamente al progresso di una tecnologia che dalla stampa di Gutenberg è giunta all’ipertesto informatizzato; è qualcosa, in altre parole, che non dipende da noi in senso stretto. L’altra è invece una disposizione dell’animo, direbbero gli antichi, e credo dipenda solo dal singolo individuo.

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Ora, chi scrive è colto dal leggerissimo sospetto che tale distinzione, lungi dal restare un puro capriccio verbale, trovi spazio anche nella realtà, e in modo massiccio. Nonostante esista di fatto un comodo accesso alla conoscenza, quest’ultima non si esaurisce nella possibilità di linkare, cliccare, postare, cambiare canale, andare in edicola o in libreria; magari. Purtroppo, nell’era dell’informazione, conoscere vuole ancora dire faticare, accettare l’accademia, seguire corsi, studiare quando si registrano trenta gradi all’ombra e i beati vanno al mare; e dato che al progresso tecnologico che tanto ha facilitato l’accesso alla conoscenza non sembra essere corrisposta un’equivalente facilità nell’atto di conoscere, la frenesia della quotidianeità fa sì che nessuno possa essere esperto di tutto e quindi parlare di tutto in modo pertinente. Per questo e altri motivi ancora esiste la mediazione dell’informazione, per gettare un ponte, quanto più possibile, tra quello che chiamerò generalmente il cittadino e un fatto esterno alla cultura di base, intesa come l’insieme di conoscenze che si presuppone lo studente abbia acquisito e consolidato dopo il diploma.

Chissà, forse un giorno esisterà quello spinotto che inserito dietro la testa ci farà dire, nel giro di qualche minuto, «conosco il kung-fu!»; il problema è che quel giorno non è ancora giunto. Riferiamoci perciò agli esempi maestri di vita, affinché aiutino a descrivere questo problema di cui finora si è parlato solo in teoria.

Trentun mesi fa una notizia scosse il mondo: l’ebola era tornata a mietere vittime nel cuore dell’Africa, dove centri epidemici sembravano aumentare senza misura. Per chi non è medico o biologo, la parola ebola rinvia all’idea di un nemico invisibile simile a quei mali che decimarono la popolazione europea in un passato non lontano; simile anche, per certi versi, alle calamità naturali, alle carestie e siccità, insomma, agli avvenimenti ciclici che per milioni di anni hanno ridistribuito l’ordine demografico. Tuttavia, appena ventinove mesi fa, la notizia relativa all’ebola venne rinvenuta abbandonata e morta, senza particolari segni di violenza; chi si fosse dato la pena di svolgere un’autopsia ne avrebbe decretato il decesso per obsolescenza, silente malattia che affligge notizie di ogni età e sesso.

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«Be’» potrebbe rispondere l’interlocutore, «se l’epidemia è stata evitata è ovvio che non se ne parli più! Il cronista aveva il dovere di informare del pericolo. Ora le notizie sono altre». No, non esiste: le notizie non sono tutte uguali. L’attenzione data loro dai media dev’essere pesata bene: se veramente è sussistito, come in effetti è sussistito almeno in Africa, il rischio di un’epidemia (che poi fortunatamente grazie all’intervento del personale sanitario addetto non si è concretizzato), non può avvenire che l’approfondimento mediatico scompaia improvvisamente. Ragion d’essere dell’informazione è che chi informa educa ai fatti, e chi viene informato riceve educazione; e l’esigenza di continue news del cittadino, abilmente recepita dai professionisti dei media, non dovrebbe corrompere questo rapporto gerarchico e trasformarsi in istigazione alla novità tramite scandali costruiti, allarmismo o sensazionalismo.

Il picco mediatico raggiunto dalla notizia dell’ebola coincise con la vicenda del medico italiano contagiato e scemò rapidamente con la sua guarigione (novembre-dicembre 2014; l’ufficialità è arrivata il 6 gennaio 2015), ulteriore comportamento poco lungimirante da parte di un’informazione che tende a sottovalutare il pericolo di riduzionismo e banalizzazione della notizia: il calo d’attenzione e copertura del caso ebola in seguito alla guarigione dell’italiano contagiato potrebbe aver creato associazioni mentali errate, come il far coincidere la curabilità di una patologia con il suo effettivo debellamento, o con un suo più generico non rappresentare più un pericolo. Prendendo in giro una vecchia interfaccia di Facebook, il nostro status passò nel giro di pochi giorni da preparatevi all’infezione a finalmente ricomincia la cempionz, e tutto ciò nonostante venticinque mesi fa l’ebola stesse ancora uccidendo in tutti gli stati africani in cui erano situati i focolai.

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Verrebbe da domandarsi in che senso, tornando a quanto detto in apertura, vi sia stata informazione sul caso ebola, e in che grado chi non ha ottenuto conoscenza in quest’occasione l’abbia fatto per libera scelta. In casi di disastri epidemici il sistema mediatico dovrebbe farsi carico di promulgare e curare un particolare aspetto dell’educazione civica, ossia l’educazione sanitaria: questa consiste in un insieme di conoscenze costruttive che l’informazione deve veicolare attraverso i propri canali senza ricorrere a formule intimidatorie e apocalittiche votate alla spettacolarizzazione della notizia; il rischio epidemico, qualora non sia stato notato, è già di per sé una notizia che non necessita di essere pompata. Questa è l’unica strada per far comprendere al cittadino come e quanto il miglioramento delle comuni condizioni sanitarie dipenda in ultima analisi da atteggiamenti realizzati a partire dai singoli individui.

Tutto questo, non essendo accaduto, ha lasciato il telespettatore (più di ogni altro) senza informazioni omogenee: chissà quanti, leggendo queste poche righe, hanno appreso per esempio che l’epidemia in questione è stata la più mortifera della storia. Certo, una corretta e costruttiva obiezione sarebbe che tale educazione non può essere impartita dal solo mezzo televisivo, bensì, in primis, dovrebbe partire dalla scuola; ciononostante sarebbe quantomeno indicato non trattare i programmi d’informazione come quel momento del palinsesto votato a intrattenere uno spettatore trepidante per la prima serata, ovvero non uniformare ogni singolo spazio televisivo al dogma dell’audience e dell’infotainement. La tendenza all’appiattimento è globale ma l’anomalia per antonomasia, quella italiana, ha di fronte rischi maggiori, come quello, per esempio, di non riuscire a focalizzare appieno quella cosa che sta tra L’Eredità e Don Matteo: il Tg1.

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Essendo distante da noi ormai quasi due anni ed essendone stata chiarita sia l’estensione che l’intensità, il caso ebola permette di ragionare in cosa sia consistita l’informazione televisiva (che resta il principale media di riferimento in un paese vecchio come l’Italia) in termini di educazione sanitaria. Resa notizia tra le notizie, l’epidemia è stata oggetto di nauseanti e inconcludenti litigi nei talk show, contenitori in cui spesso e volentieri la complessità si trasforma in confusione e la competenza viene livellata a rango d’opinione: in questo caso, un’antitetica opinione virologica. Durante la più grande ondata migratoria del nuovo millennio, la notizia dell’epidemia in Africa è stata gettata senza grazia in un mare già agitato, stuzzicando gli sciacalli con l’odore delle pur comprensibili paure socialmente diffuse: da est arriva l’Isis, da sud arriva l’ebola. Mi sarebbe venuto da suggerire di andare tutti a nord-ovest, ma nemmeno questa paura è durata un tempo degno, scalzata dal successivo argomento-pasto con cui riempire quelli che, con una discreta faccia tosta, qualcuno definisce programmi informativi d’approfondimento.

L’educazione sanitaria, insomma, è stata ridotta a zero: eppure a ogni ora del giorno e della notte un medico, su qualche canale, spiega l’importanza di mangiare verdure, di non fumare, di mettersi la crema sotto il sole, di non fare il bagno dopo mangiato; qualche chirurgo spiega a un pubblico femminile cose d’importanza colossale tipo che la mastoplastica è un intevento importante: metti che poi non ti senti più te stessa? Metti che non ti piaci?

Che gli ascolti influenzino l’andamento di alcune notizie è fisiologico, che influenzino quello di tutte è patologico; e a proposito di patologie, speriamo che non ci sia bisogno di un’altra epidemia per capirlo.

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