Pensavo che sarebbe stato piuttosto facile indicare, per questa nuova rubrica di Altri Animali, la raccolta di racconti che più mi ha segnato come lettore e come autore io stesso di racconti. Ma appena mi sono messo a pensarci su, mi sono accorto che non è facile per niente – ce ne sono tante, forse non ce n’è neanche una…
Come ho amato Marsina stretta di Pirandello a sedici anni, per esempio! E La mosca, e Ciàula e Il chiodo – e che fastidio, invece, di fronte ad altre novelle che, accanto a queste, mi apparivano esagitate, cervellotiche, o cartolinesche, finte… E non ho amato allo stesso modo, in un’altra epoca della mia vita, i racconti di Kafka, di Hemingway, di Levi? Eppure di nessuno di loro potrei dire che è il mio maestro – forse ogni capolavoro ha il suo momento giusto per essere letto, ogni età ha la sua antologia ideale, i suoi punti di riferimento. Non credo nel maestro unico, sono un allievo infedele.
E perché dovrei rinunciare a quel racconto storico di Anna Banti, l’unico suo che mi si è fissato nella memoria, ambientato ai tempi delle invasioni barbariche? E a quello dolcissimo e surreale di Mercè Rodoreda, in cui la protagonista trova una piuma che sembra di seta, caduta dall’ala di un angelo? E a Una rosa per Emily di Faulkner che davo in pasto ai miei studenti quando ancora insegnavo, con pessimi risultati? (non capivano neanche di cosa parlasse: andava un po’ meglio con Edgar Allan Poe, di solito)… E ad Anna Maria Ortese? Cosa non darei per Un paio di occhiali? Tutti li voglio con me, i miei racconti, e voglio arricchire ad libitum la mia leporelliana lista, ovvero il faldone di fotocopie (più recentemente di scannerizzazioni) a cui attingo per le mie antologie scolastiche.
Anziché dichiarare senza tante storie un autore e un titolo e dedicare poi questo spazio a motivare la mia scelta, eccomi quindi in un labirinto di dubbi, domande, riserve, retropensieri… Queste cose, del resto, hanno un senso nella misura in cui siamo onesti, radicalmente onesti, e l’onestà è un paradosso, per uno scrittore (come per un attore, o per un artista in genere, che è un fingitore di professione). Provo a mettere un po’ d’ordine.
Boccaccio non vale, vero? E forse neanche Bandello, e Lo cunto de li cunti, per non dire del Novellino e di Maria di Francia e insomma di tutti i libri che non si leggono ma si studiano, si ammirano come preziose reliquie conservate nelle storie della letteratura. Che restino lì, i classici, grandi e piccoli: restringerò la scelta, diciamo, agli ultimi due secoli – per l’Italia, un secolo e mezzo. E tuttavia, ecco che vorrei immediatamente contraddirmi e parlare del Grasso legnaiolo, uno dei racconti più angoscianti della letteratura universale, nella mia esperienza di lettore – tanto più angosciante in quanto la vicenda, che è la storia di come il protagonista viene spinto alle soglie della pazzia, è raccontata come se fosse comica, uno scherzo tutto da ridere! Del resto, dicono, anche Kafka rideva leggendo agli amici i suoi racconti…
Ma no, restiamo agli ultimi due secoli. Una ventina di anni fa ho curato un’antologia di racconti otto-novecenteschi per il biennio delle scuole superiori. Ci sono tutti i grandi, da Flaubert a Dickens, da Čechov a García Márquez. Ricordo che, oltre a pormi il problema della lunghezza (certi racconti, come Il naso o La morte di Ivàn Il’ič, non ci stavano proprio…), mi ero divertito a smentire le definizioni che si trovano di solito nei manuali scolastici: per esempio, che il racconto al contrario del romanzo non possa costruire nel testo lo sfondo storico e sociale della vicenda, ma debba darlo per assodato (e Vanina Vanini di Stendhal, per dire? o I ventitré giorni di Fenoglio?); o che il racconto si distingua dal romanzo per la linearità della vicenda, la mancanza di intreccio, di polifonia… (Mansfield e Gadda, fra gli altri, non sarebbero d’accordo); e così via.
A me pare che questi fattori – brevità, linearità, bidimensionalità – siano importanti, ma non decisivi. E che la definizione migliore di racconto sia ancora quella di Elsa Morante: un momento di realtà, cioè un frammento della visione del mondo dell’autore (quella visione che solo nel romanzo o nella raccolta di racconti può emergere nella sua interezza).
Ecco che mi contraddico di nuovo: ho parlato bene dell’antologia, adesso mi viene voglia di elogiare i libri di racconti che nascono da un progetto compatto, come i Dublinesi, i Racconti romani, Marcovaldo, e non da un semplice impacchettamento editoriale di testi nati autonomamente, come i volumi di Maupassant, Čechov, Pirandello… Non riesco a decidermi: amo i progetti, gli schemi, i grafici e le griglie, ma nello stesso tempo invidio chi sa mettersi a raccontare senza tante premesse e riesce a dire se stesso anche in uno scritto d’occasione, apparentemente estemporaneo. E quando finalmente mi metto a scrivere, in effetti, anche per me ogni racconto è un mondo sé, il libro di cui farà parte scompare di fronte alla realtà individuale dei personaggi, delle loro singole vicende, dei loro pensieri… E dunque?
Dunque, niente. Sono punto e a capo. Forse il problema è che non amo le classifiche. (Le antologie sono altra cosa. Sbaglia chi, fidando troppo nella filologia, associa a queste raccolte di fiori l’idea di perfezione. L’antologia non è una schidionata di capolavori, ma un invito al viaggio, la descrizione di un panorama, con i suoi alti e bassi. Nessun giardino, se non è di plastica, è fatto di fiori perfetti, anzi direi che è vivo proprio perché ha le rose in boccio e quelle passe, o se vogliamo ha le rose e ha i cardi.) Non amo le classifiche, in particolare quelle letterarie – i dieci libri dell’anno, l’albo d’oro dei premi Nobel, il romanzo italiano più importante del Novecento, per carità… – e da qui la difficoltà a dichiarare il libro di racconti che per me sta al primo posto in una sottintesa classifica di valore.
Le classifiche dei più venduti, in fondo, mi paiono quasi innocue. Propagandano (uso la parola a ragion veduta) l’idea che Giorgio Faletti, per dire, siccome ha il nome stampato su un parallelepipedo di carta, zappetti nello stesso campo di Alessandro Manzoni. Che equivale a dire, con rispetto parlando, che l’uovo appena scodellato, caldo caldo, dall’umile gallina si possa mettere nel piatto o nella padella insieme a ciò che esce dallo stesso medesimo orifizio della stessa medesima gallina – ed è però materia di tutt’altra natura…
Ma da queste rozzezze (delle classifiche di vendita, dico) è facile difendersi, chi abbia un po’ di esperienza. Nella mia libreria tengo Paul Celan e tengo Tex Willer. E rivendico il diritto di passare dall’uno all’altro nella stessa giornata, seduto nella stessa poltrona – senza confonderli. Chi non riesce a immaginare Ungaretti e Simenon sullo stesso comodino, peggio per lui. Chi ascolta solo Bach e il Buranello – io sono più ricco, conosco anche gli Abba e Celentano. E come farei a riconoscere l’alta cucina dal fast food, se non potessi assaggiare entrambi? Nella mia testa, Il muro di Sartre sta accanto alle invenzioni paranoiche di Dick e Rosso Malpelo di Verga al Capo Rosso di O. Henry e al suo riscatto – perché no? (Il problema si pone per chi l’esperienza non ce l’ha: se il mio ciabattino, delibata la Gazzetta, potesse perdersi nella lettura di Zanzotto, il mondo sarebbe un posto migliore. Lavoro anche per questo, nel mio piccolissimo.)
Ma non è di questo che dobbiamo preoccuparci, credo. Sono le classifiche di qualità. Non i dieci più venduti, ma i dieci migliori. Quelli consigliati dall’esperto sul settimanale per casalinghe o dalla youtuber di successo. I dodici finalisti, o sette, o tre, del premio letterario Girolamo Cavenaghi di Cernusco Lombardone, fra cui la giuria sceglie il vincitore – la medaglia d’oro. Perché il messaggio è sempre lo stesso delle classifiche dei più venduti, ma più sottile, più perfido: il mondo è competitivo, il mercato concorrenziale, la vita lotta, struggle, c’è la giungla, là fuori, ragazzi, eccetera.
E se questa fosse una malinconica presa d’atto della realtà, be’, avrei qualcosa da ridire, ma se ne potrebbe discutere; viceversa, c’è compiacimento in questa visione agonistica in cui tutto, gratta gratta, si riduce a chi vince e chi perde – chi conquista la medaglia d’oro e chi torna a casa con le pive nel sacco. Come alle Olimpiadi, la medaglia d’argento, che pure dice sei il secondo al mondo, è una condanna all’oblio, la peggiore delle sconfitte. Indicare il libro di racconti per me più importante non è forse attribuire una medaglia, una vittoria, per quanto minuscola?
Torno (e poi chiudo, prometto) alla mia esperienza di autore scolastico sempre più a disagio nei confronti della dominante ideologia del genio. Per dire, su Leopardi si fanno capitoli di 200 pagine e più, nei manuali, e si parla fin delle traduzioni che faceva da bambino per imparare il greco, povera creatura, svergolandosi la schiena. Il genio. Ma intorno, intorno al genio, il nulla: un baobab spuntato chissà come in una savana che s’incammina a diventar deserto e dove a malapena si distingue ancora qualche cespuglio, qualche minore – sempre quelli.
A me pare che il genio possa fiorire (fatemi passare queste ultime metafore arboree) solo se c’è intorno un terreno fertile: solo se c’è tutta la sperimentazione linguistica e concettuale del Duecento, dal Notaro a Guittone, da Francesco a Cavalcanti, a Forese, a Jacopone, possiamo sperare che salti fuori un Dante; se risparmiamo ai nostri virgulti la fatica di decifrare Parini e Alfieri e Foscolo e Monti e giù giù fino al Tommaseo e al Poerio e al Niccolini, col Vieusseux e lo Stella e il Giordani a interloquire nelle vicinanze, difficilmente potranno cogliere il fatto che la più lirica delle poesie liriche leopardiane non è opera di un depresso isolato, ma frutto di un lavoro collettivo, per quanto indiretto, di un dialogo, per quanto a distanza.
Sono partito dalla sabiana onestà e arrivo al gozzaniano colloquio. Ho le idee più chiare? Posso indicare almeno un nome? Faccio un elenco degli autori italiani del Novecento che per anni mi hanno accompagnato e a cui continuo regolarmente a tornare – sono quelli che ho già citato, Pirandello, Gadda, Fenoglio, Moravia, Calvino, Levi, anche Testori, stavo dimenticando Testori… Ecco, sto facendo una classifica? No, sono tutti miei maestri, tutti miei amici, avversari, vittime anche – a tutti loro ho rubato qualcosa (l’incipit del Treno ha fischiato di Pirandello; quel passo straziante dell’Adalgisa, su cui Spinazzola all’università ha fatto una lezione di un’ora, dove il narratore dice più meno tutto, già allora, era tutto finito; certe scorciatoie di Calvino negli Amori difficili e certe pesantezze in Palomar; il modo in cui Testori racconta i pensieri dei suoi ragazzi di periferia, delle sue prostitute innamorate, e dà loro profondità e spessore…). Ma perché non ne scelgo uno?
Sono un vigliacco (l’ho detto, sarò onesto fino in fondo, fino a farmi male): da un lato ho paura di non apparire abbastanza aggiornato, di essermi perso l’ultimo capolavoro della letteratura slovena, basca, curda…, di fare la figura dell’ingenuo, del dilettante; dall’altro ho paura di spararla grossa, di risultare ridicolo per eccesso di ambizione, come chi non capisce l’entità della sfida e continua a credere che i suoi cascami di adolescente stiano accanto ai versi di Leopardi o di Baudelaire…
Non avrei timore, invece, di offendere i miei colleghi scrittori facendo qualche nome di autore vivente – chi vuole offendersi trova sempre il modo per farlo, non vale la pena di preoccuparsene. Ma la verità è che il mio colloquio più vero è ed è sempre stato con i morti, che sento presenti intorno a me come i vivi, e spesso, quasi sempre, anche di più.
Rileggendo queste poche pagine prima di mandarle in stampa, mi rendo conto di aver comunque risposto alla domanda da cui ho preso le mosse, a modo mio e nella misura in cui potevo farlo. Spero che i lettori non resteranno delusi.
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