Silence è un film pensato. Si vede, si sente. In gestazione per trent’anni, Scorsese ha avuto tempo di lavorarlo di cesello, di figurarsi scene, scorci, volti. Anche il ritmo, lontanissimo dal precedente The Wolf of Wall Street, ha una vena contemplativa. In questo pensare lento, cadenzato, le immagini guadagnano valore, forza iconica; Scorsese getta via la maschera del distacco ironico e indossa il velo sottile, dubbioso, angosciato della fede. Ma, come nella storia di Jordan Belfort non era veramente il mondo della finanza che il regista voleva mettere a nudo, anche qui il suo sguardo si perde su quel velo cercando in realtà di penetrarlo. E sotto, c’è solo l’uomo.
La storia di Padre Rodrigues, l’ottimo Andrew Garfield, è la storia di un uomo. La fede, poco più che un pretesto, è la facciata, l’armatura che si deve scontrare col mondo e col diverso per mettere alla prova la propria resistenza.
Partenza col compagno Francisco Garupe (un Adam Driver che riesce ad imprimere al suo personaggio una disarmante e sincera ottusità) alla ricerca del mentore Padre Ferreira (Liam Neeson), gesuita salpato per il Giappone con lo scopo di portare il verbo di Dio. Un giapponese dalla fede incerta, Kichijiro (personaggio, interpretato da Yobuke Kubozuka, che da solo meriterebbe pagine di approfondimento) fa loro da guida. Ma il Giappone non è una terra facile. Tra scogliere, foreste, paludi, è un luogo inospitale, soprattutto per i cristiani. Il loro credo è perseguitato, i discepoli torturati e uccisi nei modi più atroci. Costretti a nascondersi, a celebrare i riti di notte, a venerare di nascosto i padri cristiani che giungono da lontano per aiutarli a capire la loro fede. Una nuova epoca di martiri in un mondo altro, che non li odia ma solo giudica il loro pensiero inadatto a convivere con l’identità che si porta dietro da millenni.
Ma la fede di Padre Rodrigues è malleabile, flessibile. Si adatta al mondo circostante. Negli occhi del suo compagno Francisco si colgono incredulità e ammirazione. Le loro sono due strade diverse. Quella di chi vede nella fede una legge, e di chi invece quella fede la interiorizza credendo che la verità sia nel profondo e non nell’immagine. Nel momento in cui Rodrigues arriva a consigliare ai cristiani giapponesi di abiurare Cristo e la Madonna, di insozzare le immagini sacre, Scorsese apre un colossale abisso: quello tra dogma e idea. Perché l’idea è segno di pensiero, di critica, di apertura, di identità. E Francisco, che condanna il gesto, non è nessuno; è un libro stampato, parole memorizzate, attaccamento morboso, angosciato alla certezza dell’immagine. Quello che maschera è la paura che il mondo non sia come crede, e per combattere questo terrore non può che chiudersi immobile in quello che sa. Padre Rodrigues invece osserva, elabora, comprende. Capisce che un’idea si deve adattare alla realtà, e, accettando questo, intraprende un cammino. Da qui in poi il film diventa il percorso di un uomo; lo si segue in quella sua idea, forte perché non dogmatica, sicura perché aperta, almeno fino a quando non si scontra con una certezza parimenti forte ma di segno opposto.
Pensiamoci: quante volte ci sarà capitato di discutere con qualcuno con una posizione opposta alla nostra? Amici davanti a una birra, un collega, il/la proprio/a partner. C’è sempre – notate? – chi sembra avere in mano una certezza in più; non necessariamente vera, ma più sbandierata, come se sottesa ci fosse l’idea che ci sia un’unica posizione possibile. Ecco, davanti a queste persone si aprono due possibilità. O cediamo, allineandoci con quella certezza, oppure la combattiamo. L’allinearsi è quella grande intuizione alleniana di Zelig. Uomo senza identità, fluido senza forma o volontà, aggrappato alla vana speranza di esserci, che però non riconosce in se stesso ma deve cercare nell’altro. Combattere la certezza, invece, è un processo diverso: ti cambia interiormente. Stranamente, nell’andare contro un dogma, non possiamo far altro che rendere granitiche le nostre idee. Ingessate, pesanti, chiuse. È cosa umana: contro un muro oppongo un muro, contro un dogma un altro dogma. È il prezzo di volere aver ragione.
Ed è questa la parte dell’uomo che Scorsese riesce a cogliere con precisione: l’irrigidimento di un’idea di fronte a un’opposizione, la catabasi di quell’anima che si ostina ad aggrapparsi a una giustizia univoca. La fede di Padre Rodrigues, nell’incontro con la crudeltà ragionata dell’inquisitore Inoue, perde forza. Diventa asettica, incolpibile, immortale. Disumana. Davanti alle torture inflitte ai cristiani, Rodrigues continua a rifiutarsi di abiurare. Si chiude in una visione della fede superiore, fatta di sofferenza e purificazione. La sua identità si cementifica, si mette il paraocchi, fa finta che la realtà non esista. Qualcuno potrebbe dire: Non è coerente; fino a prima istigava i cristiani a ritrattare, mentre adesso li lascia morire perché non vuole farlo. Ed è così. Rodrigues non è coerente; Scorsese lo è, proprio nel cogliere questa incoerenza con crudele realismo, capendo che non esiste un uomo che non muti costantemente la propria identità nel confronto con l’altro.
Il film potrebbe fermarsi qui, mostrarci la discesa di un uomo dalla realtà a un mondo ideale, chiuso in se stesso e per questo ottuso e imprendibile. Ma Scorsese va oltre. Porta il percorso al suo compimento, il personaggio alla completa maturazione. Dall’incontro con Padre Ferreira (a Neeson bastano due parole e due sguardi per rendere la complessità interiore del suo personaggio… chapeau!) Rodrigues si trasforma. Anzi, torna a essere se stesso. Capisce che quell’identità fluida che possedeva prima di scontrarsi con la realtà può esistere anche in simbiosi con la realtà stessa. Anche davanti ad azioni che sembrano negarla, anche davanti all’abiura e alla conversione. C’è un senso di mascheramento sociale che è necessaria maturazione per proteggere il vero sé. Ricalca Pirandello, negandolo: se questo faceva della maschera l’unica cosa conoscibile di se stessi, per Scorsese c’è una verità di sé che si può – e deve – conoscere. Nel suo percorso circolare, Rodrigues capisce che l’identità non è una cosa che puoi esprimere, ma solo intuire, fare tua internamente. Nel momento in cui esce, nel momento in cui provi a spiegare chi sei, a mostrarlo, tutto perde senso e s’irrigidisce nella stretta gabbia delle parole. E lì si può intuire il senso vero dell’uomo, la sua più precisa identità; l’innominabile somiglianza con lo sfuggente volto di Dio.
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