A vent’anni mi ritrovo seduta intorno a un tavolino con altre dieci persone e Valeria Viganò, la maestra, che ci insegna a leggere e a scrivere: non è mai troppo tardi per imparare. La sede è quella romana di Nottetempo. Arrivo a piazza Farnese in bicicletta, ogni martedì dopo la lezione di diritto penale all’Università, e, prima di entrare nella stanzina che ci fa da scuola, mi guardo intorno, con la speranza di incrociare persone importanti a cui consegnare il mio manoscritto nel cassetto. Una volta incontro Silvia Bre, che è venuta a parlare delle sue poesie, un’altra Ginevra Bompiani, sempre elegantissima, e poi Chiara Valerio, fresca di Spiaggia libera tutti.
«Prima di scrivere, dovete imparare a leggere», ci dice Valeria mentre noi, che in realtà leggiamo da anni, non capiamo di cosa stia parlando. Parla di lettura critica, di analisi interpretativa e di tirar fuori dalle nostre letture gli strumenti per una buona scrittura.
Siamo lì pronti, con le penne in mano e il desiderio di scrivere dei nostri esorbitanti sentimenti e delle nostre paure, con l’unica speranza che qualcuno si accorga di noi e finalmente dica: eccolo il nuovo genio, il nuovo narratore del momento. Invece Valeria, calmando le nostre vivaci proiezioni, ci dà subito da leggere Legami familiari di Clarice Lispector. È questo il primo libro che affronto con l’intenzione di imparare a leggere.
Non mi tuffo con immediato entusiasmo tra le pagine ma, prima di tutto, mi chiedo: chi è Clarice?
È nata nel 1920 a Cecelnyk, in Ucraina, in uno di quei luoghi – uno shtetl – dove si dormiva per terra e senza luce. Figlia di ebrei russi, nasceva in un periodo in cui la gente era così affamata da arrivare a mangiare i propri parenti morti; sua madre fu violentata durante un progrom, suo padre era un illusionista. Con la famiglia emigrò in Brasile per sfuggire alle persecuzioni. Presto fu orfana di madre. Pubblicò il suo primo romanzo a ventitré anni e se ne parlò come del romanzo più grande che fosse mai stato scritto da una donna in lingua portoghese.
Scriveva in un hotel, cercando l’ispirazione a pochi metri da casa, poi tornava dal figlio schizofrenico.
«Ho paura di scrivere, è molto pericoloso. Chi ha tentato di farlo, lo sa… Per scrivere devo collocarmi nel vuoto.»
Ovunque si è sentita straniera: nessun legame con l’Ucraina, «su quella terra non ho letteralmente mai messo piede: mi hanno portata in braccio», amata molto in Brasile, ma definita una «forestiera».
Verso la fine dei suoi giorni scrisse «io sono tutto di voi stessi».
Le prime frasi che sottolineo in Legami familiari, sono:
«A letto a pensare, a pensare, quasi ridendo tra sé, come se fosse stata coinvolta in un intrigo. Pensare, pensare a che cosa?».
«Di colpo poi si alzò con rabbia. Ma presa da un’improvvisa vertigine si sentì sofferente e fragile nella stanza che girava, che girava…»
«Quella sera, fino al momento di riaddormentarsi, fantasticò, fantasticò, per un tempo indefinito, per poi ripiombare pesantemente nel sonno, a russare accanto al marito.»
«Quel sabato sera, un po’ troppo alticcia nella Praça Tiradentes, alticcia ma col marito a fianco a proteggerla.»
«La sua carne candida era dolce come quella di un’aragosta, le chele di un’aragosta viva che si agitano lente nell’aria.»
Mi fermo quindi a riflettere sul linguaggio della Lispector in Legami familiari, mi colpiscono le ripetizioni. Quello che ho imparato nelle migliori scuole – e cioè che non bisogna ripetere una stessa parola a breve distanza, perché mostra scarsa padronanza della lingua, generando noia nel lettore – si perde nelle parole, sempre belle, della Lispector. Le sue ripetizioni hanno il fascino della scelta, e non il cattivo sapore della distrazione; hanno il gusto di una licenza poetica e sembrano persino dettate da un desiderio sovversivo, uno sperimentalismo anti-regime. La ripetizione, infatti, genera persuasione.
Lispector è inaccessibile. Ha una scrittura raffinata, spesso poetica, ogni sua parola è una ricerca, ogni sua frase una trovata musicale, ma l’accordo richiede più ascolti per essere compreso. Non sono importanti le storie che racconta, ma il suo punto di vista. I personaggi, gli eventi, sono vaghi e annebbiati, ciò che arriva chiaramente al lettore è il disagio del quotidiano e la sensibilità estrema di chi lo percepisce.
La Lispector racconta dei cappi (i laços, poi tradotto con legami) nella vita di tutti i giorni: come un cappio è la vista per un cieco fermo alla fermata l’autobus (Amore); lo è la fame di un uomo a cui la moglie non ha preparato la colazione una mattina sola, per ribellione (Sogno ed ebbrezza di una giovane); è un cappio l’uovo di una gallina che non va più ammazzata, «mamma, mamma, non ammazzare più la gallina, ha fatto un uovo! Ci vuole bene, lei» (Una gallina); lo è il bicchiere di latte per chi se ne dimentica dopo averlo bevuto tutti i giorni (L’imitazione della rosa). Così, la Lispector individua gli strappi di un qualsiasi giorno, causati spesso da eventi senza importanza. Racconta di quando crollano le certezze senza che abbiano ragione di crollare, solo per una presa di coscienza o perché cambia qualcosa negli occhi di chi guarda.
La lettura di Legami familiari lascia il lettore confuso. La stessa autrice in postfazione ammette che certi suoi racconti le sono incomprensibili.
Le sue storie chiedono di essere interpretate e sembrano racchiudere messaggi semplici che si replicano di continuo: le grandi rivelazioni e i cambiamenti fondamentali seguono alle piccole cose; la bellezza è immorale, fa perdere di vista la realtà; chi vive bene e lontano dai problemi, propri e degli altri, vive comunque in bilico, l’equilibrio è sempre precario. In tutti i suoi racconti, la Lispector sembra voler dire attenti, perché è sottilissimo il confine tra il pieno e il vuoto, e ciò che è troppo, a volte, è come fosse niente. D’altronde, è lei stessa a sostenere che «quando c’è umorismo, è umorismo triste», che «amava il mondo, ma con repulsione», e che «quella bellezza estrema la disturbava».
Le storie della Lispector sono costruite attorno a una continua tensione emotiva e a quasi nessun fatto, a grovigli di pensieri e di malessere, a prigioni quotidiane, a minuscole, intime, ribellioni.
Dopo le lezioni a piazza Farnese, la Viganò, le persone importanti e la Lispector, quel mio ambizioso manoscritto non ha trovato futuro. Un altro, più maturo, ha avuto fortuna, ma soltanto dopo che ho imparato a leggere.
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