La moglie aveva i capelli neri lunghi sulle spalle che non erano neanche davvero spalle quanto piuttosto braccia orizzontali.
Quando il marito tornava a casa dal lavoro, trovava sempre la moglie buttata sul divano come un sacco di patate. E, per quanto la cosa lo irritasse, non trovava mai le parole giuste per dirglielo. Temeva di ferirla o, peggio, di offenderla. Immaginava di iniziare il suo discorso proprio con: non voglio ferirti o offenderti. Ma poi sapeva che l’avrebbe ferita o offesa e rinunciava. Dopotutto, chi sopporta ogni cosa della propria moglie?
Una sera come tutte le sere, infilò le chiavi nella serratura di casa con dieci minuti di ritardo. Sapeva di essere in ritardo, aveva preso il treno sbagliato. Come sia possibile sbagliare treno dopo venti anni nello stesso ufficio, allo stesso binario, con lo stesso treno, non se lo spiegava neanche lui. Era preparato a ogni tipo di lite. Da quella pacata davanti ai piatti a quella furiosa che l’avrebbe costretto a dormire sul divano. Quando girò la chiave si aspettava di tutto. Non aveva preferenze particolari. Preferiva non urlare durante la cena ma non gli dispiaceva dormire sul divano. Era appassionato di una rivista indicibile che faceva impallidire sua moglie: Montagne. Picconi, scarpe da arrampicata, ganci, paesaggi sconfinati e altissimi sulle teste dell’umanità che ogni giorno, silenti, aspettavano solo che qualcuno li scoprisse. Li perforasse. Portasse un po’ di spazzatura a quelle altitudini. E, chissà perché, sua moglie odiava quella rivista e odiava perfino le montagne. Non che le montagne le avessero fatto qualcosa ma non le poteva proprio soffrire e vigeva una specie di tacito divieto sulla lettura della rivista.
Quella sera come tutte le sere, il marito girò la chiave nella serratura già sconfitto dalla lite che si sarebbe scatenata da lì a poco. Quando entrò, la moglie non era sul solito divano. L’iniziale smarrimento fu seguito da un piacevole stupore. Immaginò che fosse in cucina a preparare qualcosa di buono o che fosse nel letto pronta a soddisfare le sue voglie. Avanzò lentamente di qualche passo con un sorriso voglioso sulle labbra, diretto verso la camera socchiusa. Immaginò che lei l’avesse lasciata aperta per farlo spiare dentro. E lui spiava. Spiava avvicinandosi. Sentiva crescere il desiderio intorno al corpo come una specie di calore che emanava da dentro. Un’autocombustione. E più si avvicinava a quello spicchio di porta, più nel corpo scoppiavano incendi e soli, un ribollire di lava e fuoco incandescente.
Al terzo o quarto passo, il marito si accorse che la moglie (fino a poco prima immaginata lasciva sulle lenzuola di lino bianco) era caduta a terra. I capelli neri erano sparsi sul pavimento come piccoli vermi morti. Il vestito, quella specie di vestitino di iuta verde, era completamente appiattito e vuoto. Da sotto non traspariva alcun desiderio. Nessuna voluttà. Niente capezzoli. Le braccia immobili come un piccolo cristo in croce incapaci di tirarsi su. E le gambe. Ah già, niente gambe. Solo quel buco gigante in cui infilare la mano e indovinare poi i buchi delle braccia dove infilare le dita. Si chinò su di lei piegandosi sulle ginocchia. La guardò. Guardò i suoi occhi neri, quei bottoni così intensi e carichi di rimprovero. Era così accigliata. Sembrava voler dire: cosa aspetti a raccogliermi inutile avanzo umano? Che era esattamente quello che avrebbe voluto dirgli la moglie, se non fosse che lui non la raccoglieva ancora. Se ne stava lì a guardarla con i gomiti appoggiati sulle gambe e cercava di spiarle sotto la gonna. Cercava di far bagnare un po’ quel buco vuoto. Quella tana. Ma più lui la guardava con fare maniacale, più i bottoni diventavano neri e sembravano sempre più un temporale in arrivo. Così, un po’ per paura un po’ per rassegnazione, infilò la mano sinistra dentro il sacco di iuta verde e il pollice e l’indice nelle rispettive braccia. Non appena le due dita ebbero raggiunto l’estremità, le manine in feltro lo colpirono sulla testa. Con voce in falsetto, per bocca del marito, la moglie gli riversò addosso una tale scarica di umiliazioni che lui stesso decise che avrebbe dormito sul divano.
Gli disse che era un idiota.
Che solo un idiota avrebbe sbagliato treno.
Gli disse che non era capace di far niente.
Che gli si chiedeva solo di arrivare a casa in orario.
Maledisse il giorno in cui si erano conosciuti.
Che quel giorno avrebbe preferito essere usata come sacchetto per i semi dei piccioni. Il marito rimase seduto a testa bassa per tutto il tempo senza provare a reagire. Non che le parole della moglie gli fossero indifferenti ma cercava di applicare i suoi studi di psicologia alla situazione. Attribuiva la rabbia repressa della moglie al fatto che fosse tutto il giorno chiusa in casa incapace di muoversi. Le perdonava il fatto che per parlare avesse bisogno della sua voce. E che, certe volte, è difficile spiegarsi quando le parole deve metterle qualcun altro. Non è mai la stessa cosa. Per quanto somigli al concetto pensato, un’altra persona lo descriverà sempre un po’ diverso. Più fantasioso, poco fantasioso, troppo acceso, morboso. Magari stitico. E la moglie era tutto fuorché stitica. Lei era una nottata di vomito dopo una grande abbuffata, era la manciata di sabbia che si accumula nel costume a ogni risacca, era il masticare continuo del nauseante burro di noccioline spalmato sulla cheesecake alla banana. Ed era proprio così che si sentiva, il marito. Impastato. A tal punto stanco e logorato dalle umiliazioni e dalle offese che portò la moglie, appesa come uno spaventapasseri, in cucina. Il gatto era sul tavolo. La moglie ebbe da ridire anche su questo. Urlò al gatto di scendere e lo guardò con disappunto. Il marito la appoggiò sul tavolo mentre lei continuava a borbottare di peli e igiene e malattie feline. Lui aprì tutti i cassetti in cerca della scatola dei biscotti. La trovò nella credenza più in alto dove la moglie li aveva nascosti per fargli dispetto. Ma, quando tornato al tavolo la aprì, si scoprì che era stato lui a far dispetto alla moglie. Aveva trovato e mangiato tutti i biscotti e li aveva sostituiti con ago e filo. Da usare nelle occasioni di emergenza. Come quella. Prese la moglie e se la adagiò sulle gambe. Le accarezzò i capelli neri. Le promise di comprarle il balsamo. E piano piano le cucì la bocca con il filo di lana. Guardava l’ago scorrere da una parte all’altra, sopra e sotto le piccole labbra disegnate con i pennelli. Si chiese perché mai anche la moglie avesse una bocca.
Chi mai gliela aveva data?
Ma lui la cucì attento a non lasciare nessuno spazio. Da sopra a sotto, da sotto a sopra, da fuori a dentro e poi da dentro a fuori, finché non fu finita. Ci volle quasi un’ora, vuoi perché la moglie continuava a parlare vuoi perché non voleva rischiare di strappare la iuta.
Solo che, quando ebbe finito, non era come si aspettava.
La moglie era una vecchia marionetta troppo usata, con dei fili di nylon infilati nella testa e annodati da dentro in modo che sembrassero capelli. Aveva due bottoni da cappotto elegante neri lucidi che forse erano appartenuti a qualche dama importante caduta in miseria dopo la guerra. Il vestitino altro non era che degli acquarelli verdi passati con pennellate sbrigative su tutto il corpo. Le mani erano due batuffolini d’ovata ricoperti di feltro. E la bocca, la bocca era un disegno rosso cucito con ago e filo per tenerlo chiuso. Ma fu a questo punto che il marito si accorse che quella bocca, che non poteva baciarlo assaggiare le cene o respirare l’aria, non poteva neanche insultarlo. La moglie rimase zitta buttata sul tavolo di cucina. Lo guardava con due bottoni assenti. Era un pezzo di stoffa, un giocattolo per bambini. Il marito, in preda alla disperazione, la scosse per le spalle. Le gridò di parlare. La supplicò di insultarlo. Si mise in ginocchio accanto al tavolo e la pregò di non stare zitta. Ma quando vide che la moglie aveva smesso di parlargli, il marito aprì il forno dove aspettava di infornare le patate e ci infilò la testa finché il cervello non fu ben cotto.
® Tutti i diritti riservati. Azzurra De Paola 2017
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