Questo pezzo di Chiara Impellizzeri è stato originariamente pubblicato su 404: file not found.
When I was young, it seemed that life was so wonderful
A miracle, oh it was beautiful, magical. […]
But then they sent me away to teach me how to be sensible
Logical, responsible, practical.
And they showed me a world where I could be so dependable
Clinical, intellectual, cynical
Supertramp, The Logical Song
Je suis traversée par les gens, leur existences, comme une putain
A. Ernaux, Journal du dehors
È una curiosità abbastanza nota che il tedesco abbia una parola, intraducibile in italiano, per designare il sentimento di vergogna al posto dell’altro: Fremdschämen. Se siamo genericamente abituati a considerare la vergogna, l’onta, come uno dei sentimenti più narcisisticamente ripiegati verso l’interno della propria esperienza privata, chiunque sia capace di attuare i più basilari meccanismi dell’empatia umana avrà però esperito questo singolare sentimento, una sorta di vergogna proiettiva o empatica. La Fremdschämen scaturisce nel momento in cui osserviamo una terza persona mettere in imbarazzo se stessa di fronte a uno sguardo esterno. A rendere il sentimento ancor più bruciante è il fatto che, d’abitudine, il soggetto che sta ridicolizzando se stesso tende a essere all’oscuro del proprio ruolo, mentre a sua insaputa la collettività sociale lo giudica e condanna, escludendolo anche dalla conoscenza del verdetto. Potremmo quindi identificare, in questa data situazione, un triangolo di partecipanti: la vittima ignorante (tanto delle regole sociali, quanto del proprio ruolo); il gruppo sociale giudicante; il soggetto esterno, l’«osservatore», che patisce la vergogna.
In una simile situazione di Fremdschämen, specialmente interessante è il fatto che in essa l’osservatore attui un doppio meccanismo di identificazione che lo porta a provare lo stesso sentimento di vergogna per due ragioni opposte e inconciliabili. In un primo momento, infatti, l’osservatore si identifica nella vittima, nella sua ignoranza e fragilità sociale, ed esperisce così ciò che l’altro dovrebbe provare se solo avesse contezza della propria situazione. Tuttavia, è proprio il savoir-vivre dell’osservatore, la sua capacità di codificare – a differenza della vittima – le regole del comportamento sociale, ad allontanarlo dalla stessa; cosa che lo renderà, con l’imbarazzo del traditore, partecipe e complice del punto di vista degli ‘altri’, i carnefici che, con sadismo e crudeltà, stigmatizzano e ridacchiano liberi da ogni senso di colpa e di vergogna. Chi esperisce la Fremdschämen in una simile situazione si trova dunque, per un eccesso di consapevolezza, a provare vergogna al posto di tutti: vergogna per la vittima, vergogna per i carnefici, vergogna per se stesso, complice doppiogiochista delle due parti in causa.
L’ultimo romanzo di Annie Ernaux, Memoria di ragazza, può essere visto come la precisa illustrazione di tale sentimento, che la scrittrice si infligge – e infligge al suo connivente lettore in duecento pagine di cristallina scrittura. Al centro del romanzo il ricordo di un’estate del ’58 nella colonia di S., il primo rapporto sessuale, un’umiliazione pubblica e un passaggio di soglia verso il mondo adulto, tanto desiderato quanto dolorosamente fallito. Se dal racconto autobiografico di un evento così intimo e doloroso ci attenderemmo una forte attenzione alla soggettività della protagonista (come già ne La honte o L’événement) in questo romanzo Annie Ernaux separa nettamente la voce del narratore, la scrittrice del 2016 che ricorda e dice «Io», da «Lei»: «Annie D.», «La ragazza del ‘58», che decenni dopo risulta irriconoscibile e incomprensibile («da questo punto in poi non so più dire cosa passi nella testa della ragazza, perché lei agisca in quel modo»). Al centro del romanzo, preannunciata dall’epigrafe dei Supertramp, Logical Song («I know it sounds absurd but please tell me who I am») una riflessione su cosa sia l’identità, su quanto di essa sia costantemente rimodellata dall’immagine che gli altri ne rinviano, su come essa si preservi nella memoria, attraverso l’immensa distanza temporale – quasi sessant’anni dopo – che separa la scrittrice dalla se stessa del ‘58. «Sono proprio io la ragazza di quella estate?», è la domanda che aleggia nel testo. La rinuncia alla ricostruzione completa della psicologia della ragazza del ’58, attraverso ad esempio l’uso di monologhi interiori, il distanziamento, la diversa consapevolezza retrospettiva delle regole sociali – che la voce narrante conosce e il personaggio ignora – permettono all’autrice, e al lettore che riceve il racconto, di condividere il punto di vista della colonia e osservare il comportamento di Annie dall’esterno, giudicandolo assurdo, ridicolo, patetico, provando così «vergogna al posto suo».
Memoria di ragazza, abbiamo detto, è il racconto di un’estate del 1958, quando la ragazzina che un tempo si chiamava Annie Duchesne esce per la prima volta dai confini tanto sicuri quanto disprezzati di Yvetot per lavorare come animatrice nella colonia vacanza di S. Si tratta di un momento centrale dell’adolescenza di Annie poiché per la prima volta la ragazza si trova a vivere da sola nel mondo esterno, libera dalla sorveglianza degli adulti. Quando il racconto inizia Annie D. appare un’adolescente inconsueta per il suo ambiente e dalla solida personalità. Figlia di commercianti piccolo borghesi, a Yvetot spicca per la sua cultura (legge Gide e I fiori del male), per la proprietà di linguaggio e l’eleganza dei suoi temi, per i gusti moderni e ricercati (ascolta Brassens e The Golden Gate Quartet), per le idee spregiudicate (tende a dubitare dell’esistenza di Dio, pur continuando ad andare a messa). A Yvetot frequenta un collegio femminile cattolico, i ragazzi può vederli solo dall’altro lato de marciapiede, eppure sogna un’avventura amorosa: il suo diario dell’epoca è coperto di citazioni brevi da Flaubert, Stendhal o Gide sul desiderio e il possesso.
Si direbbe uno spirito cittadino e infatti la ragazza spera di trovare nella colonia di S. l’élite dei suoi emancipati consimili, ragazzi e ragazze chic, che studiano nelle scuole magistrali della città (Rouen, non certo Parigi) per diventare maestre di scuola elementare. Eppure, se il suo carattere la rende eccezionale a Yvetot, facendo di lei una piccola snob di campagna, nella nuova piccola società della colonia, in cui i suoi bei temi scolastici sono sconosciuti e le sue letture irrilevanti, Annie non riesce a imporsi. Al contrario, mostra ben presto di essere un’insipida paesanotta: non ha portato un giradischi, non ha vinili notevoli da mostrare, all’alimentari dell’angolo compra il cioccolato e non bottiglie di whisky – ciò che è peggio, l’alcol la disgusta – non sa flirtare spavaldamente con i ragazzi come le sue compagne. Insomma, è un’insignificante educanda che non conosce nulla della coolness di città.
La prima settimana, durante una festicciola, Annie si trova a ballare con H., il sorvegliante in capo, più grande di lei di soli cinque anni: lei ha 17 anni, lui 22, ma con la sua esperienza sembra appartenere già al mondo degli uomini veri. La scena è rapidissima: i due ballano, si baciano, lui la trascina fuori, si struscia contro di lei, premendogli l’erezione addosso, poi propone di rientrare in camera. La ragazza lo segue ciecamente, con poco tempo per pensare – ma anche con poco repertorio immaginativo a disposizione per capire cosa stia succedendo: «a quel punto lei pensa ancora che passeranno il tempo a baciarsi e toccarsi attraverso i vestiti sopra il letto». Una volta in camera, continua a obbedire senza batter ciglio a ognuno degli ordini che riceve. Il sesso è rapidissimo, lui non riesce a penetrarla, lei si scusa di esser vergine. Infine le accarezza la testa, la spinge in giù, non chiede ma significa.
Il seguito si svolge come un film a luci rosse in cui l’attrice è fuori tempo, senza sapere cosa fare perché non sa cosa sta per accadere. È lui l’unico padrone della situazone, costantemente in anticipo di una mossa. La spinge in giù, verso il basso ventre, la bocca sul cazzo. Subito dopo riceve la deflagrazione di un flotto di sperma che le schizza fin nelle narici. Non son passati più di cinque minuti da quando sono entrati in camera. (Memoria di ragazza, p. 62)
Seguono quindi chiacchiere più intime, abbracciati a letto: «È diventata una relazione normale». Lui le racconta da dove viene, cosa fa, le dice che ha una fidanzata e che si sposeranno; poi va via.
La ragazza del ’58 non ha nessuno strumento per interpretare la situazione: come non ha abbastanza malizia per capire che agli occhi di H. lei è una ragazza qualunque, non capisce nemmeno come «si deve» (o non si deve) parlare di quella esperienza e spiattella tutto subito alla sua compagna di stanza. Ciò che è peggio, non conosce le regole del desiderio triangolare, non possiede la maestria dello snobismo e della vanità: cede a H. in cinque minuti, senza corteggiamento, senza resistenza; lo perderà con un commento involontariamente offensivo; gli correrà dietro davanti a tutti, mostrando i suoi sentimenti senza filtri, in modo ingenuo e patetico, rinnovando l’umiliazione; più la sua immagine si degrada agli occhi degli altri, più lei appare indesiderabile per H. Senza accorgersi della direzione che stanno prendendo gli eventi, Annie diventa la puttana della colonia, la ragazza facile, che tutti provano a farsi, con la complicità delle altre, più scaltrite, compagne. Ne seguirà un’estate di bullismo e progressivo isolamento le cui conseguenze continueranno tacitamente negli anni successivi, in un tentativo di redenzione e purificazione che sfiora il disturbo psichiatrico, guidato dal desiderio di essere all’altezza di H.
Prima della colonia, la «brava studentessa» Annie D. non avrebbe potuto immaginare che, in un altro milieu, la sua colpa maggiore potesse essere l’ignoranza propria ai «ridicoli». La colonia di S. invece funziona come una micro-comunità immersa in un tempo sospeso, in cui si entra vergini, senza una storia e un passato noto agli altri, e in cui l’immagine sociale di ciascuno è rimodellata dalle azioni svolte all’interno dei suoi confini. Oltrepassata la soglia della colonia, dunque, non solo Annie D. non è mai stata la ragazza brillante di Yvetot, che nessuno lì ha mai conosciuto; per S. lei da sempre è, per sempre sarà la «putain sur les bords» del gruppo.
Il momento del sesso si configura allora come un violento rito di passaggio, un’esperienza del limite rivelatoria: confrontato a essa il soggetto si lacera, si annulla nella volontà dell’altro. «Non riesco a trovare nella mia memoria nessun sentimento, men che meno un pensiero. La ragazza assiste a ciò che le accade e che soltanto un’ora prima non avrebbe mai pensato di vivere, tutto qui» (p. 63). L’ingenuità che porterà Annie a mettersi in ridicolo davanti alla colonia è la stessa che la conduce ad acconsentire a qualcosa che non conosce, in un misto di desiderio selvaggio di esperienza, fiducia in un potere superiore (perché H. è più grande e sa più di lei, ma anche perché H. è un uomo) e rassegnazione spassionata e comprensiva alla «indiscutibile legge maschile» che «prima o poi le sarebbe toccato subire».
Potrebbe alzarsi, accendere la luce, dirgli di rivestirti e andarsene. O essere lei a rivestirsi, piantarlo lì e tornarsene alla festa. Avrebbe potuto. Io so che non ci ha neanche pensato. È come se fosse stato troppo tardi per tornare indietro, come se le cose dovessero ormai seguire il loro corso. Come se non avesse il diritto di abbandonare quell’uomo nello stato che lei provoca in lui. Di abbandonarlo con quel desiderio furioso che ha di lei. Non può immaginare che lui non l’abbia scelta – eletta – tra tutte le altre. (Memoria di ragazza, p.62)
Eppure, per quanto la scena di sesso sia violenta e disturbante, essa non è – ancora – uno stupro: a esser rappresentata è piuttosto la zona grigia del desiderio che si crea tra ignoranza e consenso prima, tra coazione a ripetere e tentativo di dominare gli eventi dopo. La rivelazione di questo primo rapporto consiste nella scoperta che l’«assenza a se stessi» propria della «sottomissione», la perdita di controllo e potere, era una delle possibilità, a un certo punto persino volute e ricercate, del percorso – «I know it sounds absurd/ But please tell me who I am». Si tratta, pertanto, della sottomissione intesa nella sua forma più sporca e confusa, priva dell’erotismo alla Histoire d’O., dei rituali del sadomasochismo cosciente: «lo sconcerto del reale che permette giusto di dirsi “È a me che sta succedendo questo?”, non fosse che un me, un io, in questa circostanza non c’è più o non è già più lo stesso”» (p. 10). Per questo Annie D. cercherà fino alla fine di replicare quella prima esperienza: «notte subita contro notte scelta», in un tentativo di soddisfare il desiderio, annullarsi, ridiventare padrona dell’evento.
Un tipo di connivenza corrispondente si riproduce quindi nel rapporto con il gruppo di colleghi che la irridono e dei quali, ciononostante, Annie continua a elemosinare la compagnia, ostentando una nonchalance e un’aria di mondo che non riesce ad assumere fino in fondo o della quale non padroneggia gli effetti. Vittima vigliacca, non esiterà quindi a sua volta a partecipare agli scherzi e ai bullismi ai danni di nuovi arrivati, provando la gioia di far parte, per una volta, del gruppo dei «giocatori».
Non credo che le sia nemmeno venuta l’idea di rassegnarsi a ciò cui la dignità e il rispetto di se stessa avrebbero dovuto obbligarla, a non mischiarsi più con il gruppo e andar a dormire presto come fanno alcune sorveglianti. Non sa privarsi di ciò che, dalla sua entrata nella colonia, è una scoperta, la fascinazione di vivere tra ragazzi della stessa età, in un luogo isolato dal resto della società, sotto l’autorità lontana e distante di un pugno d’adulti.
Gli eventi dell’estate del ’58 costituiscono una prova per la protagonista perché il tipo di umiliazione in essi esperita è già, con più intensa violenza, la stessa che Annie D. dovrà subire una volta passata al campo dell’istruzione secondaria: l’ignoranza, causata da una cultura diversa, che la farà sentire sempre un gradino sotto il savoir-vivre e il savoir-faire delle sue compagne di corso a Rouen o nelle classi préparatoires di Parigi. Per dirla con il Bordieu de Gli eredi (che la Ernaux stessa ha letto e ha citato in relazione alla sua autobiografia) l’eccezionalità dell’Annie D. di Yvetot è quella di far parte di quel 20% di figli di piccoli borghesi di campagna, provenienti da un ambiente svantaggiato ma con qualche chances di continuare gli studi superiori. Eppure, una cosa è brillare a Yvetot, un’altra spiccare in mezzo a quelle ragazze che, per origine familiare e provenienza geografica, hanno da sempre una più disinvolta familiarità con la cultura – ne sono, appunto, le «eredi». La ferita narcisistica subita, non lontana dall’esperienza di S., è quella di un «declassamento dall’alto», in seguito all’entrata in un nuovo gruppo sociale superiore. Non è un caso, quindi, se proprio all’entrata del liceo di Rouen, subito dopo l’estate del ’58, la ragazza del ’58 prova per la prima volta la «vergogna al posto dell’altro»: quando una studentessa, figlia di operai, viene ripresa dalle compagne per aver usato il patois al posto del buon francese.
Si sente immersa in un’atmosfera di superiorità impalpabile che l’intimidisce […] Superiorità che si rivela ostensibilmente nella commiserazione sorridente che suscita il modo di parlare della sola figlia d’operai della classe – Colette P., borsista, il cui padre è muratore – alla quale un’alunna altezzosa rivela un giorno, con un’alzata di spalle, che «se parterrer» non esiste in francese. Lei prova vergogna per Colette, vergogna per se stessa che per lungo tempo ha detto «se parterrer».
E non è ancora un caso se il tipo di espiazione che Annie D. attua dopo S. si manifesta in una riconfigurazione totale della propria immagine sociale, volta a un controllo tanto dei simboli carnali dell’istinto e del desiderio (la bulimia e la conseguente scomparsa del sangue mestruale) che culturale: la giovane ragazza cerca di assomigliare a un modello di femminilità dura, distaccata, profondamente colta e intellettuale.
Eppure tutto sommato, al soldo del ridicolo e del disprezzo che ispira al lettore, è proprio l’incapacità di leggere la propria umiliazione iscritta negli eventi a rendere la ragazza del ’58 è un personaggio estremamente potente. Totalmente concentrata su se stessa e sulla grandezza del suo desiderio non pacificato, la piccola educanda di provincia acquisisce una statura eccezionale e appare, in modo paradossale, molto più radicale e libera delle sue coetanee.
Ma ciò che ritrovo, nell’immersione in quella estate lontana, è un desiderio immenso, informulabile, che fa apparire insignificante la buona volontà delle brave ragazze che fanno tutto, fellatio, etc.. con coscienza, i rituali sicuri dei sadomasochisti, la sessualità disinvolta di coloro che ignorano la disperazione della pelle.
Memoria di ragazza è un romanzo eccezionale, il migliore dell’autrice insieme a Il posto e Gli anni. Ed è un romanzo importante, perché nessuna aveva mai raccontato finora questo tipo di esperienza nei modi in cui Annie Ernaux è riuscita a farlo, ovvero con la lucidità, il rigore, l’implacabile voyerismo e la sobrietà linguistica di chi sa scavare nella propria ferita narcisistica senza mai cedere all’autocommiserazione.
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