Elvis Malaj è il primo autore italiano di Racconti edizioni e il numero tredici del catalogo. È albanese. O perlomeno lo è di nascita: ha studiato in Italia e ha fatto propria la lezione di Svevo e Pirandello, scrive in italiano ed è – come si definisce da sé – «un autodidatta della letteratura». Con una voce di un candore a cui le nostre orecchie hanno smesso di credere, Dal tuo terrazzo si vede casa mia mette in scena lo smarrimento e l’inadeguatezza di ragazzi e ragazze di paesi diversi alle prese con la prima volta o con il primo giorno di scuola, che poi forse è un po’ la stessa cosa, a qualsiasi latitudine. Il tutto scritto in una prosa che sembra semplice, ma non lo è.
Malaj è nato a Malësi e Madhe in Albania nel 1990. A quindici anni si è trasferito ad Alessandria con la famiglia e oggi vive e lavora a Padova. È stato finalista al concorso 8×8, e ha pubblicato racconti su effe e nella rassegna stampa di Oblique.
«Per quanto ci si possa sforzare, nessun italiano potrà mai scrivere questa storia. Qui c’è un mondo nuovo, qualcosa che fino a una decina di anni fa non esisteva e che solo adesso qualcuno sta iniziando a raccontare. Leggendolo, ho improvvisamente avvertito la distanza tra quanto viene scritto e pubblicato dagli italiani da sempre e questo racconto – e ho provato a immaginare come sarà la letteratura italiana tra venti o trent’anni, e poi ho provato a domandarmi come vorrei che fosse, e ho iniziato a sperare che le opere di Malaj non siano un caso isolato, che esista, o che inizi a formarsi, una letteratura nuova, piena di contaminazioni, dove non è diversa la lingua, o l’intenzione, o la struttura, ma la materia stessa di cui si compone.»
Le parole di Paolo Zardi a proposito di uno dei racconti di Dal tuo terrazzo si vede casa mia punteggiano la superficie di una materia fin qui inesplorata o quasi. Per dirla con Thomas Bernhard «il linguaggio non serve quando si tratta di dire la verità, di comunicare qualcosa, il linguaggio permette a chi scrive soltanto l’approssimazione all’oggetto, il linguaggio non riproduce che un’autenticità contraffatta, un quadro spaventosamente deformato, sebbene chi scrive si dia un gran da fare, le parole calpestano e deformano tutto, e sulla carta trasformano la verità assoluta in menzogna». Se quindi la letteratura è deformazione bisogna valutare l’ampiezza del piano, il punto di ripresa e la profondità di campo tanto per cominciare. Ed è qui – in questa ipotesi di sguardo – che le scelte espressive determinanti l’estetica della letteratura di Malaj e le conseguenti implicazioni comunicative si sostanziano di qualcosa di originale.
Un gioco di sguardi e di luci evidente fin dal primo racconto della raccolta, Vorrei essere albanese, in cui ci si può perdere come in una stanza degli specchi per poi ridestarsi inalando un raki amaro e ironico. Oppure come in La Carriola dove il punto di vista passa da quello di un bambino a quello degli adulti.
«Il giorno del funerale era nuvoloso ma non pioveva. Per Marash era un giorno come un altro, se non per il fatto che al suo risveglio aveva trovato il cortile pieno di persone, tutti vestiti di nero e le facce cupe, e il gatto disorientato. Invece di stare in mezzo a quella gente che fumava e piangeva, Marash aveva preferito andare a giocare.
Ci misero più di una settimana ad accorgersi che aveva smesso di parlare. Il padre gli aveva chiesto se era stato lui a prendere il suo orologio da polso, perché a Marash pia ceva molto curiosare, soprattutto smontare le cose e vedere cosa c’era dentro e, ricevendo come risposta silenzio, aveva supposto che l’avesse preso lui, che l’avesse rotto o l’avesse perso, ma che non voleva dirlo, e così l’aveva sgridato.
Nemmeno Marash sapeva di non essere più in grado di parlare – dalla morte della mamma non aveva detto più una parola, ma semplicemente perché non aveva niente da dire. Quando il padre gli aveva chiesto dell’orologio lui voleva rispondere, però le parole non gli uscivano, non si formavano proprio nella bocca, come se il fiato non fosse più in grado di collaborare. Aveva provato a tirarle fuori con forza, ma nel momento in cui la prima sillaba prendeva forma, veniva invaso da un’ondata di tristezza che lo pietrificava. Marash non capiva cosa gli succedeva, sapeva solo quant’era brutta quella paura che gli pesava addosso. Il padre l’aveva portato dal medico.
Per il resto tutto era rimasto come prima. La mattina Marash andava a scuola, prima delle due tornava a casa, faceva i compiti, nel pomeriggio giocava a pallone eccetera eccetera. Ai suoi amici sembrava non importare niente che non parlava, solo i grandi si preoccupavano, e a volte si arrabbiavano.»
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