Era il 1997 quando ho letto i racconti di Mania, di Daniele Del Giudice, appena usciti per Einaudi. Li avevo trovati prodigiosi e istintivamente ho pensato che fossero ai vertici di quanto la letteratura italiana stesse producendo in quel momento. Avevo ventisei anni, e il mio parere era parziale e simpaticamente gretto. Erano i tempi della scoperta delle voci giovani, attraverso esordi clamorosi (per successo e tirature) come quelli di Brizzi e Culicchia, Tamaro aveva venduto milioni di copie del suo Va dove ti porta il cuore, e il movimento cannibale-pulp si stava affacciando e preparandosi a diventare scena. Del Giudice, ovviamente, era al di fuori da tutte queste logiche ma proseguiva un suo percorso coerente e accompagnato da una di quelle credenziali che ti accompagnano per tutta la carriera letteraria. Ha esordito con Calvino.
Nel 2016 Einaudi ha pubblicato una raccolta di racconti di Del Giudice, di cui Mania è naturalmente parte importante e spina dorsale, e che comprende altre prose brevi dello scrittore romano, alcune edite e diciamo celebri (Il museo di Reims, per esempio) altre mai pubblicate in precedenza. Rileggendo in questa sede i racconti di Mania e altri tre/quattro vertici della produzione dello scrittore, confermo il giudizio del 1997, e rimpiango il fatto che Del Giudice non abbia scritto di più e che a causa della malattia probabilmente non leggeremo altro di lui, che Mania non sia stato insomma l´inizio di qualcosa di clamoroso, ma uno zenit, un vertice forzato.
In effetti al di là del morbo che lo ha colpito, Del Giudice non è mai stato scrittore particolarmente prolifico, né particolarmente spendibile sui prosceni letterari. Lui stesso aveva teorizzato, in premessa alla raccolta In questa luce – opera peraltro disomogenea, una congerie di racconti e saggi, non sempre centrata – una paura e una fatica dello scrivere. Questa sua ritrosia, questo suo pudore, forse anche la fatica, li si vive osservando la sua carriera, la parsimonia della produzione, che – anche quando applicata al romanzo – è sempre rimasta piuttosto stringata nelle dimensioni, e molto ricercata, levigata (nell’accezione migliore del termine) formalmente, come in una ricerca non già della perfezione, ma della giusta misura, in senso estensivo. Credo che siano proprio queste sue caratteristiche ad averlo reso scrittore particolarmente a suo agio nel breve, e penso quindi che sia finalmente un’operazione meritoria ‑ e finora passata troppo inosservata ‑ quella di pubblicarne i racconti in volume unico, con utile prefazione (da leggere rigorosamente dopo) di Tiziano Scarpa.
Questi nostri anni di politiche dello sguardo, di proliferazione di temi scientifici in letteratura, di attrazione postmoderna per le arti figurative (in tutti e i tre casi potrebbe venire in mente DeLillo, ma non solo lui) sarebbero stati forse più adatti alla voce e al modo di Del Giudice, alla sua maniera di far dialogare i personaggi con i propri sensi, e con la maniera in cui essi si relazionano con gli oggetti e i manufatti, e la percezione degli stessi.
Si torna inevitabilmente a Mania, di cui cinque su sei racconti rappresentano, insieme ad altre quattro gemme (Il museo di Reims, I mercanti del tempo, Di legno e di tela, Ritornare a sud) i momenti salienti di questa raccolta: le storie sono costruite come degli stringati ma perfettamente compiuti gialli quasi alla Dürrenmatt e sembrano avere come motore il pensiero e i sensi degli stessi personaggi, che vivono e prevedono lo spiegarsi degli eventi prima che il lettore ne venga a conoscenza. L’udito si fa deus ex machina di un crimine (prima immaginato che agito) in L’orecchio assoluto, il racconto di uno strano imbonitore/venditore di storie fa in modo di inverarsi in Come è adesso, un´ambigua esercitazione militare viene interrogata dai suoi stessi spaesati protagonisti nel mirabile Dillon bay. In Evil live a Del Giudice – in tempi di Tiscali e di collegamenti lumaca – riesce di scrivere una storia (convincente e ancora attuale) sulla Rete e sui rapporti interpersonali agli albori dell’interazione su Internet. E ancora nei Mercanti del tempo mette in piedi una sorta di mini-romanzo vagamente distopico/fantascientifico in tre atti che davvero starebbe bene nella produzione di un DeLillo, al netto delle differenze stilistiche: la visione di un mondo dove il tempo può essere oggetto di scambio e la fascinosa descrizione di una sorta di asettico supermercato dove viene venduto in varie tipologie e formati può davvero far venire in mente alcune pagine dell’ultimo Zero K dello scrittore newyorkese, il sogno tecnocratico dell’uomo, il desiderio di controllo e possesso, destinato a confrontarsi con gli inevitabili limiti di chi non potrà mai – neanche con l´ausilio delle scienze – battere la morte (perché in fondo si tratta di quello, poter disporre liberamente del tempo come mercanzia, riporta a quell’inevitabile sogno/desiderio).
Del Giudice passa per essere scrittore freddo, probabilmente per un anelito di esattezza nella sua scrittura e per il grande grado di dettaglio applicato ai temi specifici o agli oggetti di cui sopra. Alcune sezioni dei suoi racconti hanno la profondità rapida del migliore saggio divulgativo, si veda l’architettura nel bellissimo racconto Fuga, che peraltro testimonia la versatilità dello scrittore, qui alle prese con una storia napoletana dal basso come ai nostri tempi potrebbe non raccontarla Saviano. È anche questo che lo rende autore umano e umanista, oltre che capace di portare mirabilmente sulla carta gli entusiasmi della scoperta (il volo in Di legno e di tela, una spedizione polare in Ritornare a sud, in ambedue i casi i temi sono stati trattati in maniera più estensiva rispettivamente in Staccando l’ombra da terra e in Orizzonte mobile).
Senza voler sottovalutare la sua produzione romanzesca, credo che proprio da questo volume possa nascere una scoperta o ri-scoperta di Del Giudice che, a dispetto della sua riservatezza e di fasti ormai lontani, è uno di quelli destinati a rimanere nei canoni della nostra letteratura. E non certo (o non solo) da discepolo di Calvino.
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