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Questa intervista di Melissa Sipin del 30 giugno 2016 è stata pubblicata in inglese su The Margins, magazine online di Asian American Writers’ Workshop ed è stata tradotta da Sara Panzavolta per Altri Animali. Ringraziamo la rivista e l’autrice per la gentile concessione.

«L’immaginazione rende le cose più reali di come sarebbero se fossero riportate dalla vita reale.» L’autrice di Famiglie ombra ci parla dello scrivere storie sulla south-south migration e di quando non fare affidamento sulle cartine geografiche.

Mia Alvar, vincitrice del PEN/Bingham Prize, si serve della sua esperienza di migrante negli Stati Uniti – e di quella della sua famiglia – come materiale per la sua prima raccolta di racconti, Famiglie ombra. Alvar racconta a Melissa R. Sipin la difficoltà di creare personaggi distanti da lei – personaggi che non appartengono alla sua generazione o che non hanno avuto la sua stessa educazione, anche se condividono con lei un simile percorso di immigrazione. Alvar spiega perché è stato difficile e soprattutto importante evitare di stereotipare questi personaggi e come ha lavorato per rimanere in sintonia con le loro prospettive e i loro sistemi valoriali.

Melissa Sipin: Che cosa ti ha portato a scrivere?

Mia Alvar: Ho cominciato a scrivere abbastanza presto, quando ero nelle Filippine, dove sono nata. All’epoca era una sorta di gioco. Questo era prima di internet, per cui ogni volta che leggevo una storia o una poesia o un libro provavo a imitarli, era un modo per allungare la vita del libro, per tirarne fuori qualcosa di più. Immagino che quello che mi ha portato a scrivere sia la stessa cosa che spinge le persone a scrivere fan fiction.

Per molto tempo ho pensato di voler diventare una poetessa. L’insegnante a cui ero più legata alle superiori era un poeta e questa è stata la mia introduzione al mondo letterario. È stato durante il mio ultimo anno al college che ho cominciato seriamente a scrivere fiction o perlomeno a pensarci.
Sono stata nelle Filippine per la prima volta in dieci anni per vedere mia nonna che stava male, e probabilmente sul punto di morire. Mentre ero lì tenevo un diario – giusto immagini ed esperienze che catturavano la mia attenzione e mi erano estranee dopo tanto tempo che ero fuori, in particolare riguardo alla morte e a come è affrontata nelle Filippine. E quando sono tornata a Boston per il mio ultimo anno di superiori, stavano uscendo un mucchio di raccolte di racconti vibranti e all’avanguardia ambientate nelle comunità di immigrati. Drown (A picco) di Junot Diaz era una di queste. Leggerlo mentre mi stavo tirando fuori da questo viaggio mi ha fatto pensare per la prima volta alla storia e alle esperienze della mia famiglia come materiale, mi ha fatto pensare alle raccolte di racconti – delle quali a quel punto mi ero bella che innamorata – e mi ha fatto venire voglia di provare a scrivere.

«Famiglie Ombra», Racconti edizioni, traduzione di Gioia Guerzoni, illustrazioni di Elisa Talentino

«Famiglie Ombra», Racconti edizioni, 2017, traduzione di Gioia Guerzoni, illustrazioni di Elisa Talentino

Parlaci un po’ del processo di scrittura del libro. Quello che cerco di fare io, di solito, è provare a adattare un romanzo alla forma del racconto. Ci provo, ma ci metto dentro troppe cose. I tuoi libri sono come novellas sotto forma di racconti, quasi come le opere di Alice Munro – sei capace di catturare una vita intera in un’immagine. Com’è stato provare a mettere insieme la raccolta e provare a vedere quali collegamenti si creavano tra i racconti, come comunicavano tra loro?

Mi fa piacere che la pensi in questo modo riguardo ai racconti perché sono come te – nei miei workshop MFA consegnavo storie di trenta-trentacinque pagine mentre gli altri studenti venivano fuori con quelle bellissime storie condensate in dieci pagine. Ho sempre avuto questo feedback alla scuola di specializzazione: «Sei sicura che sia un racconto?». «Forse dovresti semplicemente esplorarlo più a fondo e ammettere che stai lavorando a un romanzo.» Ma a essere sincera non c’era nessuna idea tra i nove racconti che suonasse come «Ok, questo è proprio quello a cui voglio lavorare escludendo tutto il resto». È lo stesso motivo per cui mi sono innamorata delle raccolte di racconti la prima volta. Amo l’idea di introdurmi in un territorio o una comunità da angolazioni e prospettive diverse, invece di una narrativa epica, unilaterale.

Il processo è stato lungo. Ogni racconto partiva da un ricordo personale o da un aneddoto di famiglia o da uno stralcio di giornale o da qualcosa che avevo sentito che era capitato a qualcun altro. O certe volte era una sfida formale nel mescolare queste cose: per esempio, adoro i racconti scritti alla prima persona collettiva, così ho deciso di provare. Volevo anche sperimentare la seconda persona. Era proprio un diverso canone di ispirazioni (per ciascun racconto) e di conseguenza cercavo solitamente di leggere tutto quello che potevo in relazione a questo, sia che significasse fare ricerche sulla legge marziale nelle Filippine o provare a leggere tutti i racconti che riuscivo a trovare scritti alla seconda persona. Avevo questa convinzione: «Non posso cominciare a scrivere finché non conosco tutto».Non è molto funzionale, ma ho fatto così muovendomi avanti e indietro per molti mesi e anni. Certe volte veniva fuori una scadenza e dovevo finire una bozza e mandarla per un’application. Ma questa bozza poteva essere andata in una direzione completamente sbagliata. E dopo mi toccava ricominciare da capo e provare a rivedere il racconto da lì. Mi ha richiesto un sacco di tempo, specialmente dato che non mi riusciva di lavorare a più racconti in contemporanea. Per la maggior parte dovevo finirne uno prima di passare a quello successivo.

Qualcosa di simile a un trampolino?

Esatto, non c’era abbastanza spazio nel mio cervello per più di un racconto o un progetto. Immagino di essere una piuttosto ossessiva.

È difficile non esserlo perché questi racconti sono così intricati. Uno dei miei preferiti nella raccolta è La leggenda della dama bianca. Per il modo in cui giochi con il mito, ti appropri della voce di una modella «all American», Alice Anders, il cui legame profondo con Sabine, modella per metà bianca e per metà filippina, si trasforma in un’ossessione. In un gioco di specchi Sabine perseguita Alice dappertutto, in particolare a Manila. Lei è il personaggio cui mi sono sentita più legata e con il quale mi sono sentita davvero a casa. Immagino che sia perché sono figlia di immigrati, sono anche figlia di Los Angeles – capiamoci, ho una moltitudine di identità dentro di me (americana, filippina, donna, scrittrice ecc.). Il secondo viaggio di Alice a Manila è stato come un ritorno a casa, tornare alla terra da cui Sabine veniva ma in cui era anche straniera (quel momento particolare in cui è stata chiamata «bianca» per la sua appartenenza a due razze). Puoi parlarmi un po’ di cosa significa per te incarnare questa miriade di personalità?

Con La leggenda della dama bianca ho avuto un’esperienza simile di identificazione con Alice. Ho fatto un paio di incontri con il pubblico e una delle domande che è venuta fuori è stata: «A quale dei personaggi ti senti più vicina?» o «Qual è la cosa più vicina alla tua esperienza?». L’ultima cosa che mi sarei mai aspettata era di sentire una connessione speciale con Alice in questo racconto. È l’unico personaggio non filippino della raccolta, non mi assomiglia per niente, e non fa esattamente il mio lavoro. Ma una volta che le ho dato una voce, dopo aver finalmente trovato il tono giusto e il ritmo per lei, sono stata in grado di mettermi in relazione con lei a così tanti livelli – il dolore, la solitudine, la sfida di cavarsela in affari complicati e semplicemente di esistere come corpo femminile nel mondo.

Non ho scelto consapevolmente la prima persona per la maggior parte dei racconti. È venuta fuori da sola. Certe volte mi sono servite molte stesure per capire di chi fosse la storia, quale fosse la voce che stava venendo fuori con più forza. E poi ci sono storie che appartengono a uno specifico personaggio dall’inizio. Così tanti racconti, in particolare quelli balikbayan, sono ispirati alla tradizione orale della mia famiglia, che è sempre alla prima persona.

La leggenda della dama bianca in origine era scritto dal punto vista dell’attrice Claire Danes, o una versione sottilmente romanzata di lei. Alla fine degli anni ʼ90 ha girato un film a Manila chiamato Bangkok, senza ritorno. Il film è ambientato a Bangkok, ma è stato girato a Manila. Una volta ritornata a casa, Danes se n’è uscita con questa descrizione di Manila parecchio controversa, perché ha odiato il periodo che ha trascorso là. Ma ha usato questo linguaggio così surreale che per me è stato interessante, perché Manila sembra surreale sul serio e per tante ragioni, anche se ci sono modi più delicati per parlarne.

Hai ragione, Manila è la definizione stessa del surreale e della frammentarietà.

Sì. Claire Danes andava dicendo cose tipo: «Quel posto sapeva di scarafaggi» o «La gente si trascinava per strada senza braccia né gambe». Tutte quelle cose che lei aveva trovato «agghiaccianti», penso sia questa la parola che aveva usato per definire Manila. Era il suo linguaggio a essere davvero molto controverso a Manila; era stata definita persona non grata in città. Il film era stato vietato (non so se oggi lo sia ancora). Ma per me c’era qualcosa di convincente nella sua rappresentazione, anche se ho capito perché le persone si sono sentite offese. Così ho cominciato a scrivere un racconto dalla prospettiva di Claire Danes che girava questo film a Manila. Ma poi è venuto fuori che non mi interessava molto scrivere questa storia, e di conseguenza non sarebbe stato interessante per nessuno leggerla. Spostando leggermente la sua esperienza verso quella di un’altra donna bianca americana in viaggio a Manila per una ragione appena differente e ovviamente appartenente a uno status molto diverso ha reso il personaggio molto più interessante e complesso ed è stato più divertente per me scriverne.

Anche Alice è molto complicata. Il racconto riguarda la difficoltà di essere bianchi – come, pur essendo una donna completamente bianca, è sradicata a casa e anche all’estero, anche se la sua pelle ha il colore giusto.

Com’è ovvio il suo personaggio si lega e parecchio al concetto di privilegio, ma volevo che fosse un racconto piuttosto complicato proprio sul privilegio. Quando ho scritto la storia sapevo che c’era questo ribaltamento – un’americana in viaggio per le Filippine. Un lettore mi ha fatto notare in particolare che Alice è una specie di «migrante economica» al contrario, il che è interessante ed è qualcosa di cui non ero consapevole mentre scrivevo. Un altro lettore ha accennato al fatto che Alice sperimenta ciò che accade continuamente alle minoranze: le persone non sanno con certezza da dove viene, o magari pensano di saperlo, e sbagliano ogni volta – nello stesso modo in cui i filippini potrebbero essere confusi con gli asiatici dagli altri stati (per esempio). E io non volevo che fosse semplicemente la storia alla «The Ugly American» o della turista americana svampita che va a Manila. Volevo che lei fosse molto più di questo.

Anche l’inserimento nella storia del mito è così brillante. Quando penso di scrivere un racconto su Ferdinand Marcos e la legge marziale, che è storia con la esse maiuscola, finisce sempre che mi impaludo nel tentativo di raccontarla per com’è davvero andata. Inciampo su che cosa è realmente accaduto alla mia famiglia durante il regime di Marcos, e questo diventa il mio blocco dello scrittore. Ho sempre desiderato scrivere di queste cose da una certa distanza, perché quello che la mia famiglia ha sacrificato per venire in America è sempre stato circondato dal silenzio. Penso che questo sia il motivo per cui mi ha colpito la narrazione in prima persona in questo libro, perché anche nelle loro menti il silenzio fa molto rumore.

Sì, alcuni personaggi sono stati più difficili di altri, e non sempre erano come me li aspettavo. In un certo senso i personaggi che erano più simili a me, perlomeno sulla carta, erano i più difficili da conoscere. Alcuni narratori al femminile, come la ragazza che racconta Un contratto all’estero e Sally in La donna dei miracoli sono state un po’ più difficoltose. Stavo cercando di catturare una voce e una prospettiva che è un po’ il rimosso di una generazione fa. Certamente sono una privilegiata rispetto a qualcuno come mia madre, che ora conduce un’esistenza piuttosto quieta nella classe media ma è cresciuta sognando di andare in America, con tutti gli sforzi a scuola e sul lavoro volti a raggiungere questo obiettivo. È una prospettiva molto diversa da quella in cui sono cresciuta io, dove avere ambizioni artistiche o letterarie non era proprio l’ideale, ma non era neanche una cosa così fuori di testa. Sono sicura che mia madre sarebbe stata molto contenta se mi fossi iscritta a Giurisprudenza. Ma quando è stato chiaro che ero interessata a diventare una scrittrice e mi volevo laureare in Lettere, non è stato proprio come se le stessi dicendo che avevo in programma di andare nello spazio. Visto che mia madre probabilmente non avrebbe mai sognato di fare qualcosa di così poco pratico, con i suoi genitori e i suoi fratelli che dipendevano da lei fin da quando era piccola. Ma volevo avvicinarmi a delle prospettive simili a quella di mia madre senza cadere in uno stereotipo. Questa era la cosa che volevo ardentemente evitare nella raccolta: incasellare le persone in tipi umani.

C’era un altro campo del quale facevo fatica a scrivere, quando si trattava cioè di tante persone che, almeno nella vita reale, sarebbero state molto credenti, il che ha fatto di gran lunga parte della mia educazione ma non mi appartiene più. Avrei tranquillamente potuto evitare di scrivere di religione, perché non mi sento adeguata, o avrei potuto scrivere della fede della gente in un modo che la sminuisse e che li facesse sembrare superstiziosi e sciocchi. Ma per me è stato importante non averlo fatto, in particolare con Esmeralda. Mi è stato chiaro fin da subito che il suo sistema valoriale era centrale nella sua visione del mondo e rappresentava una parte importante di ciò che la faceva sentire viva e le permetteva di sopravvivere negli Stati Uniti. Quindi non è stato affatto semplice entrarci in contatto e poi in una relazione più intima. Ma spero che sia stato percepito come autentico e non come l’opera di una qualche scrittrice trentenne di New York che cerca di capire che cosa sia questa benedetta «questione cattolica».

Adoro il modo in cui usi la seconda persona come punto d’osservazione per questo racconto. Sono il tipo di persona che nei workshop ha lavorato a molti racconti scritti in seconda persona, ed è sempre una scommessa o la va o la spacca con loro. E ancor di più adoro come questo racconto si concentra su una voce che non era sotto i riflettori dei media dopo l’11 settembre. Come ti sei mossa per fare ricerca per il racconto?

Fare ricerca sulla storia dell’11 settembre non è stato così difficile perché mi circondava tutto il tempo mentre stavo finendo Esmeralda. Ci sono voluti molti anni e stesure per scrivere questo racconto. Alla fine avevo uno studio a Lower Manhattan. Il nuovo One World Trade Center veniva costruito lì vicino e tutti gli archivi di quel giorno erano facilmente accessibili; il Museo dell’11 settembre e il 9/11 Memorial avevano appena aperto. Non potevo non parlarne e avevo una sovrabbondanza di testimoni su quel giorno per le mani. Selezionare e snellire le testimonianze per aggiustarle al racconto di Esmeralda era importante. C’erano così tante storie su quella giornata che per me la cosa fondamentale era stare il più vicino possibile al punto di vista di Esmeralda, per non suonare come una voce di Wikipedia. Non sapevo sempre come venirne a capo. Ho provato a stare attenta alla scelta del tono e delle parole. Ho sempre desiderato che i miei racconti suonassero come se fosse una persona vera a raccontarli. Questo è anche il motivo per cui i miei lettori fidati e gli editor sono stati così cruciali per me nelle fasi successive. Sono stata dentro ad alcuni di questi racconti così a lungo che gli altri potevano davvero percepirli in un modo nuovo che io non potevo più raggiungere. Erano capaci di dirmi: «Qui stai spiegando troppo» oppure «Sei troppo vaga qui» o «Troppo sottile qui». La mia editor, Lexy Bloom, ha davvero un buon occhio capace di riportare sempre i grandi fatti storici a un livello famigliare, i personaggi e il loro corpo – che cosa le persone stavano realmente sentendo. La mail che Esmeralda trova sul computer di John è frutto di un suggerimento di Lexy.

Il New York Times nella recensione del tuo libro ha detto che la tua prosa richiama una sorta di «turismo da poltrona»: «Certamente una scrittrice con doti incantevoli, Alvar ci permette di girare il mondo in lungo e in largo di nuovo e di nuovo ancora». E mi è piaciuto molto quello che hai risposto nella tua intervista a Electric Literature: «Una cosa del libro che mi ha preoccupato un po’ prima della pubblicazione è stata la definizione di “turismo da poltrona”. L’idea che il mio sia un buon libro da leggere se vuoi vedere le Filippine senza andartene da Brooklyn…Per carità…».

Per quanto mi riguarda, Manila, New York, il Bahrein erano luoghi dell’immaginario – avevano una controparte nella realtà ma erano stati reinventati per adattarsi alla storia. Puoi parlarmi più approfonditamente del pericolo del cosiddetto «turismo da poltrona» e anche del potere dell’immaginazione? Io, in particolare per chi è cresciuto circondato dal silenzio, ho sempre percepito un po’ di disforia, come se fossi sempre dislocata o senza ormeggi… Ma quando ho scritto, in particolare fiction, ho finalmente trovato una «casa» nella quale mi sentivo bene. Una «casa», immagino, uno spazio in cui sentirmi al sicuro. Quello che sto cercando di dire è che nelle tue storie mi sono sentita a casa.

È strano, non appena mi sono scontrata in maniera così dura contro l’idea di leggere libri come forma di «turismo da poltrona», stavo leggendo Night at the Fiestas di Kirstin Valdez Quade. È una raccolta di racconti ambientati principalmente nel New Mexico, e mentre li stavo leggendo e me li stavo godendo, continuavo a pensare:«Non sono mai stata nel sud ovest degli Stati Uniti! Sto imparando così tante cose sul New Mexico!». [Ride… Ndr]

E ho realizzato come fosse ipocrita da parte mia essere così sprezzante riguardo al «turismo da poltrona» perché penso che faccia parte dell’istinto umano e ogni lettore lo fa in qualche modo, nel momento in cui riconosce di stare scoprendo una geografia nuova, o un mestiere, o un gruppo di persone. Capisco meglio questa propensione adesso rispetto a prima e penso che vada bene finché la gente si ricorda che si parla di fiction. Ma sono stata un po’ in ansia per questo perché nei miei libri c’è così tanto che è stato inventato. Ho avuto bisogno di questa libertà per scrivere di queste persone e di questi luoghi. Rischiavo di diventare matta certe volte quando provavo a catturare qualcosa esattamente com’era nella vita reale, finché ripetevo a me stessa: «Sono una scrittrice di fiction. Non c’è bisogno di dare di matto per questo!».

Posso semplicemente cambiare il nome dei posti, e creare questo mondo che forse assomiglia a una qualche periferia di Manila, un mondo nel quale chi è cresciuto nelle periferie di Manila possa riconoscersi, ma non è fedele a una cartina o alla vita reale di qualcuno. Con più scrittori parlo più mi rendo conto di quanto questo sia comune. Ero in una giuria con Boris Fishman e Sara Novic. Stavamo parlando di letteratura della diaspora e Sara ha detto che per il suo romanzo Girl at War aveva provato certe volte a descrivere qualcosa com’era esattamente nella vita reale e le persone nei suoi incontri dicevano: «Questo non sarà mica successo sul serio!». Mentre alcune cose che aveva inventato di sana pianta erano state accolte senza proteste. Per me è davvero interessante che questo accada durante il processo di scrittura, ed è qualcosa di speciale che riguarda solo la fiction. L’immaginazione può rendere le cose più reali di come sarebbero se fossero semplicemente riportate dalla vita reale.

Giusto. E ho adorato come questo libro soddisfa il desiderio di persone come me– un’immigrata filippina – e forse di molti altri lavoratori filippini all’estero, che vivono dappertutto: ci sono filippini in Nigeria, Qatar, Francia, Nepal, Australia, Dubai. Ho come la sensazione profonda che la gente stesse aspettando un libro che mostra loro una cosa come 10 milioni di filippini che vivono l’esperienza della diaspora. Non mi riferisco necessariamente al peso di rappresentare queste persone, ma a quello che Toni Morrison ha detto quando ha scritto L’occhio più azzurro: «Ho scritto il mio primo romanzo perché volevo leggerlo». Famiglie ombra mi ha regalato lo stesso intimo desiderio di «sentirmi a casa».

Esatto! Ovviamente una delle ragioni per cui si legge fiction è perché si è in cerca di esperienze molto diverse dalla propria, ma poi, crescendo come una persona di colore che prova a diventare scrittrice, ti metti in cerca anche di persone le cui esperienze, anche se non sono esattamente come le tue, in qualche modo parlano a te. C’è stato un periodo mentre stavo crescendo in cui la mia ricerca di narrativa migrante è stata molto intensa. E qualcosa in me si risveglia sempre quando leggo una «storia di immigrazione» nella quale non si parla solo dell’asse Oriente-Occidente o peggio immigrato-scuro-di-pelle-in-America, capisci? La migrazione da est verso ovest non è l’unica che c’è stata o che va avvenendo. Ce ne sono altre e non è certo una novità recente.

Questo è il motivo per cui ho adorato che le storie nel Bahrein non fossero per forza storie di guerra! Ci sono così tanti altri motivi per cui i filippini sono migrati in Bahrein, e hanno una casa e una comunità a Manama ben salde da anni.

Vorrei leggere una raccolta sul Medio oriente da una prospettiva militare! Stiamo aspettando che la scriva tu.

[Ride… Ndr] Be’, è proprio una delle cose che sto cercando di scrivere, in particolare sui posti in cui sono andata in quanto moglie di un militare della marina.

Sono molto affascinata da come i luoghi, anche se si parte da una posizione geografica, cominciano a diventare poi ideali o immaginari per le persone. Intendo che, nel senso più ovvio, sono interessata a come questo accade a quei lavoratori e migranti filippini le cui intenzioni non sono di diventare sauditi o cittadini del Bahrein e che invece non tornano a casa dopo aver trascorso un certo periodo là o dopo aver guadagnato un po’ di soldi; e come la loro terra natia o la madrelingua cominciano a essere avvolte dal mito e dal sentimentalismo, la tensione tra l’idea che uno ha nella testa e ciò a cui effettivamente si ritorna. Questo è un po’ quello che il titolo dell’ultimo racconto In the Country [Milagros nella traduzione italiana Ndr] significa per me. Ovviamente In the Country è un ritornello in tutti i racconti: i personaggi descrivono se stessi e gli altri che partono o tornano per tutto il tempo. Ma in quel racconto in particolare, quando le cose vanno avanti, in realtà è un’invenzione, una bugia. E allo stesso modo così tante cose che pensiamo di conoscere di un posto nel corso degli anni diventano semplici invenzioni.

Mi è piaciuto molto quando hai detto che vorresti scrivere la storia dei lavoratori all’estero senza sentimentalismo, perché si sente sempre parlare della drammaticità e dei duri sacrifici e di quanto santi tendano a diventare i lavoratori fuori dal proprio paese. E qui invece li vediamo in carne e ossa, più umani.

Non è una buona idea avere una tesi o un argomento principale per un libro, ma se ne dovessi assegnare uno a questo libro sarebbe qualcosa di questo tipo. Che le persone sono molto più del lavoro che fanno o della loro nazionalità o del posto in cui sono nate o in cui vivono attualmente.

Siamo molto di più dei luoghi da cui proveniamo, e spesso questi luoghi diventano immaginari o ideali – come la città in cui sono nata, Carson, in California, che si sta lentamente gentrificando grazie allo StubHub Center. Non è più la Carson che ricordo io. Proprio il tipo di legame di cui parlavi prima: che il Bahrein, New York e Manila nei tuoi libri sono più che altro immaginari, perché lo sono nella mente dei personaggi. Qual è il prossimo? So che avevi un romanzo in programma…?

Sto lavorando molto lentamente a un romanzo che prende Milagros e segue la sua vita dopo le vicissitudini della novella omonima. Sono ancora nella fase di lettura-assemblaggio delle informazioni perché non ho idea di come si scrive un romanzo, e devo impararlo da sola.

 

* Traduzione di Sara Panzavolta

*L’immagine di copertina è un foto-ritocco prodotto dalla Redazione di Altri Animali del ritratto dell’autrice Mia Alvar realizzato da Elisa Talentino

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