Le cornacchie affermano che una sola cornacchia potrebbe distruggere il cielo. Questo è indubbio, ma non prova nulla contro il cielo, poiché i cieli significano appunto: impossibilità di cornacchie.
(Franz Kafka, Aforismi di Zürau)
Ciò che cerco non è una scusa per la mia vita, ma il contrario di una scusa: l’espiazione. Mi coglie infine il pensiero che qualsiasi consolazione la quale non tenga conto della mia libertà è ingannevole, non è che l’immagine riflessa della mia disperazione. Quando infatti la mia disperazione dice: abbandonati allo sconforto, perché il giorno è racchiuso tra due notti, la falsa consolazione urla: spera, perché la notte è racchiusa tra due giorni.
(Stig Dagerman, Il nostro bisogno di consolazione)
A quel che dicono i bambini non si deve certo dare gran peso, ma i bambini sono pericolosi perché non hanno il buon senso di tenersi per sé la verità.
(Stig Dagerman, Uomini di carattere, in I giochi della notte)
Ingiustamente dimenticato o perfino ignorato dal canone europeo, lo svedese Stig Dagerman (1923-1954) è uno di quegli autori che ha reso letteratura la sua disperazione esistenziale. Il nostro bisogno di consolazione, quasi un manifesto della poetica di questo scrittore, si presenta come una disillusa e lapidaria analisi delle precarietà proprie dell’uomo contemporaneo, uscito esangue dal secondo conflitto mondiale (significativo a tale proposito il nostro inclusivo del titolo), oltre che un lucido pensiero sulla dimensione del sacro.
Negli anni Cinquanta del secolo scorso gli uomini incominciarono a scoprire la statistica e il nucleare, la violenza strutturale degli uomini che si sposava con i progressi omicidi dell’industria bellica, l’impossibilità per l’individuo di partecipare al corso della storia a cui fa da contraltare il numero sconosciuto e inconoscibile dei morti durante le guerre, il dolore silenzioso di chi resta. Questa impotenza entra anche nelle due raccolte di racconti edite da Iperborea, Il viaggiatore (1991) e I giochi della notte (1996). Già dalla quarta di copertina della prima raccolta leggiamo che la grande tragedia dei piccoli uomini si incarna nella quotidianità delle loro vite private. Coevo all’esperienza degli esistenzialisti francesi, affine per certi versi a Camus, con le puerili e tradite speranze dei bambini spesso al centro della sua narrazione, come per esempio in Perché i bambini devono ubbidire? (1953) e nel suo Bambino bruciato (1948), Dagerman sembra porsi appena prima del nichilismo distruttivo e creativo di quel tempo letterario e filosofico.
In un breve saggio posto alla fine della raccolta, Goffredo Fofi scrive che «Dagerman racconta di bambini e di adolescenti, di giovanissimi. Racconta di ciò che conosce, proietta nei suoi personaggi la sua esperienza, travasa nelle narrazioni i suoi impulsi, i suoi dolori e le sue rabbie». (Il viaggiatore, p.142).
I suoi racconti infatti sono popolati da personaggi atipici e contemporaneamente esemplari di una determinata temperie culturale. Le idee politiche dell’autore, anarchico ma più profondamente alla ricerca di una libertà, emergono in filigrana quasi ovunque tra le pagine di Il viaggiatore. La povertà costituisce uno dei temi più cari e ricorda l’ideale dell’ostrica teorizzato da Verga, secondo cui alla scalata sociale bisognerebbe preferire la coltivazione del proprio ambiente umano. Disillusione, impotenze, affetti mancati e mancanze affettive, amori falliti, ricerche impossibili, conoscenze interrotte, crudeltà insensate, innocenze perdute, colpe, debolezze, violenze sono solamente alcuni dei temi che Dagerman tratta scrivendo.
Lascio sogni immutabili e relazioni instabili. Lascio una promettente carriera che mi ha procurato disprezzo per me stesso e unanime approvazione. Lascio una cattiva reputazione e la promessa di una ancora peggiore. Lascio qualche centinaia di migliaia di parole, alcune scritte con piacere, la maggior parte per noia e per soldi. Lascio una situazione economica miserabile, un’attitudine vacillante rispetto ai grandi interrogativi del nostro tempo, un dubbio usato ma di buona qualità e la speranza di una liberazione. Porterò con me nel viaggio un’inutile conoscenza del globo terrestre, una lettura superficiale dei filosofi e, terza cosa, un desiderio di annientamento e una speranza di liberazione. Porterò inoltre un mazzo di carte, una macchina da scrivere e un amore infelice per la gioventù europea. Porterò infine con me la visione di una lapide, relitto abbandonato nel deserto o nel fondo del mare, con questa epigrafe: QUI RIPOSA/ UNO SCRITTORE SVEDESE / CADUTO PER NIENTE/ SUA COLPA FU L’INNOCENZA/ DIMENTICATELO SPESSO.
I giochi della notte, racconto che dà il titolo all’altra raccolta più o meno simultanea dell’autore svedese, si apre con una scena apparentemente onirica che richiama ancora una volta il tema dell’infanzia:
«Certe sere, quando la madre piange nella sua stanza e sulle scale risuonano soltanto passi sconosciuti, Ake inventa un gioco cui si abbandona invece di piangere». (I giochi della notte)
I temi di I giochi della notte (1947) sono analoghi a quelli di Il viaggiatore, anche se l’atmosfera scandinava, più che altrove, fa sì che il contesto entri in sinergia con l’umanità dei personaggi. Lo sconosciuto racconta l’incomunicabilità di due amanti e la loro reazione di fronte a vecchie fotografie, Nevischio ritorna sulle gravose responsabilità affibbiate a un bambino dietro cui si nasconde un adulto precoce e acerbo. Uomini di carattere, forse il racconto più riuscito, inscena la teatralità di certe relazioni e le ambiguità intrinseche al dialogo con l’altro: quel finale, «e riprendere a dormire», sancisce la definitiva resa della parola al silenzio.
Dalla postfazione a questo volume, a cura di Andrea Ghibellini, leggiamo che «quando Dagerman esamina evocando i giochi che faceva da piccolo vicino al torrente col variare delle stagioni – d’inverno lanciava sassi che si infrangevano sullo specchio gelato del fiume, a primavera tappi di sughero solcavano le acque argentate dal sole – la cadenza autobiografica si fa ancora più forte assumendo la pagina commossa di un diario perduto. Ma Dagerman è un uomo la cui vita coincide terribilmente con la propria scrittura. I libri segnano ogni passaggio della sua esistenza, sono veri e propri riti di passaggio verso l’approssimarsi della fine».
Così si chiude il racconto che apre Il viaggiatore:
Un’estate ho remato per un lord. Un lord che cercava acqua verde, un’acqua davvero verde. Non la trovammo mai, ma da quando se n’è andato ho provato ribrezzo per l’acqua che circonda le nostre isole e non sono più riuscito a togliermi dalla mente che sembrava petrolio. Un giorno ho letto che il lord si era gettato a mare mentre attraversava la Manica. Allora mi sono detto: E tu? Anche il tuo desiderio è tale da essere capace di gettarti a mare per raggiungerlo? Un’estate ho remato per un lord. Un estate e poi mai più.
Era il 1947. Sette anni dopo, trentunenne, Dagerman morì suicida.
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