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La pioggia fa risuonare le imposte di un tono metallico, segno che tra poco il ghiaccio avrà la meglio. La tazza fuma di cannella: mi fa compagnia, il pensiero è fisso, battente, ripenso a quella mano. Una mano che non mi ha toccata, schiacciata, avuta. Sento ancora il ronzio della macchinetta, e vedo gli occhi svuotati dell’uomo fissare il basso soffitto dello scantinato.

Mi cullo a palpebre abbassate sul pensiero della curvatura del pollice, l’unghia è perfetta come un vetrino d’orologio e penso che forse tra tutti, lui sia quello che ha la mano sinistra migliore.

L’ho cercato in quella città, passando in rassegna tutti gli studi di tatuaggi, sostenendo improbabili colloqui dai quali chiunque sarebbe stato in grado di capire che non cercavo un disegno particolare né tantomeno uno stile.

Quando riesco a parlare con l’assistente, chiedo di poter vedere il tatuatore all’opera e se dopo aver insistito mi viene negato, di poter almeno visionare un album fotografico che contenga immagini di lui al lavoro. È necessario che sia maschio.

Ho il corpo ricoperto per il quaranta percento di tatuaggi e chi mi ha marchiato una particolare zona ha una caratteristica imprescindibile.

«Signora, si stenda sul lettino, scopra la pancia vediamo qui se il ragazzo dorme o ci vuole salutare.»

A ogni ecografia Giulio si succhiava il pollice della mano sinistra, e io piangevo di gioia e commozione nel vedere quel piccolo capolavoro che mi cresceva dentro e nonostante la mia giovane età, i mille problemi e gli studi che avrei dovuto dovuto sospendere, ero felice.

Fino al giorno in cui non lo sentii più muovere.

Il pollice della mano sinistra di Giulio: mi sveglio con questa immagine, mi addormento con questa immagine.

Il disegno lo scelgo solamente in un secondo momento dopo aver sostenuto diversi incontri con il tatuatore. Osservo attentamente il pollice, è fondamentale che sia ricurvo e che sia il sinistro. Il pollice dei bambini che lo succhiano fin dal periodo perinatale si modifica, assieme al loro palato, e più il vizio, o meglio bisogno, si protrae nel tempo, più il dito si deforma, curvandosi. È come se rivivessi, marchiata da quelle mani, qualcosa che pensavo perduto per sempre.

Il rito è più o meno sempre lo stesso: non sento nemmeno troppo dolore, impegnata come sono con il ricordo a coprire quello originario e gli occhi sempre fissi sulla mano per memorizzare tutti i singoli movimenti.

È dicembre e la città è molto fredda. Negli anni sono sorti molti studi di tatuaggi e ho facilmente individuato quello in cui voglio tatuarmi dopo essermi presentata e aver scambiato due chiacchiere con lo staff.

Mi capita di sentire la necessità di un ricordo impresso da mani straniere, una sorta di souvenir.

Vado per la prima volta, ovviamente senza sapere nulla circa il personale e trovo la serranda abbassata per metà e un secchio con dell’acqua sporca fuori dal negozio. Sul marciapiede, distesa, una scopa azzurra. Chiedo con voce timida se c’è qualcuno all’interno, mentre mi abbasso.

Vedo un’ombra spostarsi velocemente e poi un viso femminile sbucare da sotto:

«Dit moi!».

Prima di ascoltarmi la ragazza apre con forza la serranda e mi dice di entrare, fa un gesto per farmi accomodare, poi sparisce al piano interrato.

Quando il ragazzo che stava lavorando nello scantinato sale non ci vuole molto per capire che fa al caso mio. Osservo attentamente con quale mano gira le pagine del loro catalogo. La conferma mi arriva quando lascio il nome e il mio numero di telefono. Non è solo mancino.

Lui mi dice che sono giorni pieni di lavoro, e che mi richiamerà sicuramente nel pomeriggio o nella peggiore delle ipotesi la sera stessa e mi dice che in quella città i tatuaggi sono molto costosi; quella frase mi suona strana, quasi a voler preannunciare un rifiuto.

Spiego che non c’è nessun problema e scelgo il disegno che voglio sul braccio destro, dove c’è ancora un po’ di posto; si incastra alla perfezione, ma soprattutto quelle mani sono perfette. Il costo mi sembra onesto come le dita lunghe e forti, le unghie regolari, e il pollice con la perfetta curvatura come se si esibisse in un tuffo carpiato all’indietro. Un’onda perfetta, come solo la bocca negli anni sa scolpire.

Esco dallo studio con il biglietto da visita in mano, e sento in lontananza la serranda che tocca la soletta di marmo adiacente al marciapiede. Avrebbero riaperto dopo le pulizie, verso le ore sedici.

Torno nell’appartamento che ho preso in affitto per qualche giorno, accendo la tv. Penso a come sarà, al dolore, al rumore e al tipo di macchinetta a bobina che il tatuatore sceglierà per quel tipo di tatuaggio. Ogni tatuatore impugna la macchinetta in modi che risultano impercettibilmente differenti a occhi non esperti; per me la posizione del pollice è fondamentale. Sono stesa sul divano davanti a immagini che scorrono su uno schermo nell’attesa che la mia pellicola diventi realtà.

Alle ore venti la chiamata non è ancora arrivata, decido di provare a chiamare pensando che abbiano perso il mio numero o se ne siano scordati. Dopotutto non sarei mai diventata una loro cliente, vista la distanza, né sarebbe stato un gran lavoro e guadagno per l’artista.

La segretaria mi spiega che Victor, questo è il suo nome, sta lavorando e che mi richiamerà certamente a lavoro terminato, verso le ventidue.

Alle ventidue ancora nessuna chiamata.

Passo la notte tra le mie miserie e domande di ogni genere, mi dico che passerò il giorno dopo chiedendo spiegazioni.

La mattina seguente mi sveglio certa che la questione, divenuta ragione di vita, si risolverà. La serranda è sollevata ma la porta chiusa quindi premo il pulsante del citofono. La porta si apre, entro. Attendo in piedi con una certa ansia, e mi dondolo sulle gambe. Sento dei rumori provenire dal piano di sotto e poi una voce.

«Get down!» dice l’uomo, in un inglese sporco.

Scendo.

Otto gradini, pianerottolo, cinque gradini, e altri tre ancora, odore di stantio, poca luce artificiale, evidentemente le disposizioni igienico sanitarie e ambientali sono differenti da quelle italiane.

Victor mi saluta e si scusa dicendomi che mi avrebbe richiamata e che non può più tatuarmi perché non ha tempo e ha lavori che si accavallano; mi propone il numero di un amico che lavora a pochi isolati da lì

Lui mi sta liquidando, mentre finge di riordinare quello che non ha nemmeno la parvenza di uno studio in cui ha da poco iniziato un lavoro, e noto su un tavolino due bottiglie di birra aperte e bevute per metà.

Mi sento rifiutata, e nel giro di pochi minuti la rabbia mi gonfia le tempie; lo guardo fisso, lui biascica parole simili a scuse che fatico a capire.

Quando ho la certezza del rifiuto prendo il fermaporta e lo colpisco alla nuca; lui cade in avanti. Fatico a girare il suo corpo steso sul pavimento, gli apro la bocca e accendo la macchinetta a bobina; gliela infilo spingendola fino alla gola. È stata lasciata sul tavolo probabilmente qualche ora prima ancora attaccata all’alimentatore. Uso il pesante sasso fermaporta sullo switch a pedale, ormai so come far funzionare il tutto.

Sul divano, scalza, scossa ma sollevata, accendo la tv e vedo immagini di un luogo familiare, l’ambulanza, la gente che si fa intervistare, sconvolta soprattutto dal fatto che alla vittima manchi il pollice della mano sinistra mentre piove forte.

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