Spesso Virginia Woolf è stata letta e studiata attraverso la lente del suo suicidio. Addirittura diversi critici si sono preoccupati di discutere del suo presunto disturbo mentale, relegando così la sua figura di scrittrice – ma soprattutto di donna – sotto l’ascia della depressione e del bipolarismo. Minimizzare però la sua cifra letteraria nonché la sua persona all’annegamento nel fiume Ouse nel 1941 pecca di un’importante considerazione: Virginia Woolf non è il suo suicidio.
Questo è quanto Liliana Rampello, curatrice di Virginia Woolf e i suoi contemporanei (il Saggiatore 2017), fin da subito mette in chiaro, evidenziando inoltre che ciò non vuol dire che la morte e la vita di Woolf non possano coesistere: tutto sta nell’angolatura da cui la si vuole guardare. Se considerassimo Virginia Woolf non più solo in base al suo suicidio ma alla luce della sua intera esistenza, la storia della sua vita si dispiegherebbe dinanzi a noi nel modo più esaustivo, perché «è la vita a essere estrema, non la morte, è la vita che contiene la morte, il suo senso più vero, non viceversa» come precisa la curatrice. Ed è proprio questa la consapevolezza a cui giungiamo una volta letto Virginia Woolf e i suoi contemporanei.
Si badi bene: in questo saggio Rampello non reinterpreta Woolf, altrimenti il testo in questione non sarebbe altro che una nuova chiave di lettura. Al contrario l’ha voluta ricordare – il che è ben differente dall’arte dell’ermeneutica – con la sua «joie de vivre», ma soprattutto con la sua umanità, restituendoci un ritratto diverso solo perché non siamo stati abituati a vederlo.
La studiosa fa questo raccogliendo le voci di tredici donne e quattordici uomini che ci hanno lasciato «un’immagine-ricordo di lei». In fondo, ognuno di noi porta con sé un’infinita ricchezza di relazioni, diventando così un punto di intersezione di connessioni che coesistono e agiscono su e in noi. Nessuno può sottrarsi al maturare della propria esperienza individuale, perché questa finisce sempre per far parte di un’esperienza collettiva. Nessuno può evitarlo, tanto meno Virginia Woolf.
Questo saggio è infatti un «gioco di specchi», riflessi di ricordi e aneddoti che amici e parenti hanno riportato sulla scrittrice a seguito del suo suicidio. Le persone riunite in questa antologia hanno conosciuto la scrittrice inglese in periodi differenti della sua vita ed è stato diverso anche il tipo di relazione che hanno intrattenuto con lei: c’è John Lehmann, che ha lavorato per i Woolf dal 1930 come manager della loro casa editrice Hogarth Press; c’è Louie Mayer, che ha vissuto la quotidianità di Leonard e Virginia in veste di cuoca per ben trentasei anni; c’è Duncan Grant, che ha fatto parte del famoso gruppo di Bloomsbury; c’è Clive Bell, che ha sposato la sorella di Woolf, Vanessa; e c’è la cara amica Vita Sackville-West. Si tratta quindi di testimonianze speciali perché particolari sono i ricordi che affiorano da queste lettere.
Ciononostante si può indubbiamente affermare, come dichiara Rampello stessa, che il minimo comun denominatore di ognuna di queste è un profondo «affetto»; persino in quei pochi casi in cui non sono mancate delle opinioni dai toni un po’ pungenti, ma in cui comunque l’indubbia grandezza di Woolf non viene messa in discussione. Leggiamo anche un genuino rispetto e un’autentica stima non tanto giustificati dalla cifra letteraria della scrittrice quanto dalla sua semplice persona «con una testa e un cuore» che ricercava, sia nella vita sia nelle sue opere, il significato dell’esistenza stessa. Affetto, rispetto e stima che si concretizzano in particolar modo nello sfatare il mito di una Virginia Woolf infelice, pazza, presuntuosa e vulnerabile.
«Non era neppure necessario conoscerla intimamente» sottolinea Vita Sackville-West, per dimostrare che non era nulla di tutto ciò. E in effetti questo ce lo testimonia Rosamond Lehmann, sorella del sopracitato John, che pur avendo incontrato Woolf poche volte, ammette che sì, «ebbe la sua parte di dolori» ma questi erano «sopportati con coraggio e altruismo. È importante affermarlo alla luce delle sgradevoli leggende che sono cresciute intorno alla sua morte: l’idea di lei come di una squilibrata, di una che non riusciva ad affrontare la vita e che vi ha messo fine per isterica autocommiserazione. No. Visse all’ombra della paura della pazzia, ma era perfettamente sana di mente.» Anche Clive Bell rifiuta di dare adito a questa leggenda, che definisce una «sciocca caricatura» e anzi aggiunge: «Lasciatemi dire una volta per tutte che era l’essere umano più allegro che io abbia mai conosciuto e uno dei più amabili».
Tra le voci più decise a contestare quanto si insinuava sulla crudeltà di Woolf c’è anche quella di William Plomer, uno dei suoi autori, che liquida la questione scrivendo: «La leggenda di lei come intellettuale snob, fragile e altezzosa […] è del tutto falsa e non vale la pena di confutarla». Ma in realtà, forse perché guidato dal profondo affetto che provava, ribadirà più volte la sua posizione («Virginia Woolf era solita prendere in giro, ma non con scortesia. Difficilmente ci si prende il disturbo di deridere persone che non ci piacciono», «non ho mai notato nulla di altezzoso e snob nelle sue maniere verso gli altri», «non era assolutamente arrogante»). Come poteva, d’altronde, una persona come lei, critica prima di tutto verso se stessa e «che ha sempre vissuto il giudizio su tutto il suo lavoro con un’ansia che riusciva a placare solo dopo giorni e giorni» come scrive anche Rampello, non avere da ridire sulla superficialità altrui? Al contrario, la sua era «una totale franchezza (di critica) e un rispetto reciproco del punto di vista di ciascuno» come riconosce anche Duncan Grant.
Nessuno ha quindi negato i tormenti interiori di Virginia Woolf, come ad esempio Clive Bell, che scrive: «So tutto di quegli attacchi di nera disperazione […]. Eppure, ripeto, la sua era una natura felice e lei era felice». Semplicemente, è diversa la lettura che ne viene fatta: la tristezza che l’ha accompagnata è un elemento parziale della sua vita, e non dobbiamo classificare la sua esistenza unicamente sotto la voce della depressione o del suicidio, perché giungeremmo al ritratto di una Woolf incompleto ma soprattutto ingiusto rispetto alla vastità di ciò è stata. Spesso si commette questo errore perché vogliamo vedere – e quindi rintracciare – ciò che riteniamo essere più importante. Tuttavia, un tale modo di procedere rischierebbe di essere impreciso non solo perché arbitrario, ma anche perché osserveremmo con gli occhiali delle nostre convinzioni, nonché pregiudizi, qualcosa che non appartiene al nostro momento storico, culturale. Lo stesso T.S. Eliot, al termine della sua lettera, avanza questo dubbio – quasi di ordine epistemologico – in merito a ciò che rimarrà della personalità di Woolf: «Come può la sua posizione nella vita del suo stesso tempo essere compresa da coloro per i quali la sua epoca sarà così remota da non poter sapere neppure quanto non riescano a comprenderla?». E di questo probabilmente ne è consapevole anche Liliana Rampello riconoscendo che questo libro «solo in parte» può confermare «la magnifica leggenda del Novecento» che Woolf è stata perché, «per farla camminare al nostro fianco» e «dare valore all’unicità di un atto contro la molteplicità di un lungo agire ed essere dell’esistenza stessa», si possono solo leggere i ricordi di coloro che hanno avuto la fortuna di viverla. Ed è infatti grazie a queste voci che «comprendiamo» – come vorrebbe Eliot – di trovarci in realtà di fronte a una donna dalla «curiosità insaziabile», «rara e incantevole», con un riso quasi «contagioso», dal «godimento vivacissimo» e sempre attenta ad ascoltare e a prendere nota delle storie degli altri («voleva davvero capire la testa e i pensieri di tutti» scrive Barbara Bagenal). Era pura «gioia» dirà Elizabeth Bowen.
Le parole degli amici e conoscenti riportano in vita una Woolf diversa, o forse sarebbe meglio dire, con le parole di Rampello, «in carne e ossa», non più tinteggiata dal buio del nervosismo bensì dal bagliore dell’allegria e dove la sua sofferenza non è più la sua sola possibilità di esistenza ma una delle sue tante svariate espressioni. Infatti, sia per Stephen Spender sia per William Plomer Virginia Woolf era abitante di due mondi: il primo, quello sociale; il secondo, quello solitario. E per entrambi questi due universi «avevano pari esistenza e quindi facevano di lei una persona completa», per usare le parole di Plomer. E forse questi due mondi sono proprio quelle «due verità» di cui parla Liliana Rampello nella prefazione: quella della vita e quella del dolore che in Woolf «si tengono insieme […] e poco si capisce se l’occhio ne illumina una sola, se non si guarda con fervore ammirato alla contrastante e continua tensione fra le due, alla relazione fra due poli, uno dei quali si affaccia di continuo con la prepotenza del desiderio, il desiderio di vivere fino in fondo ogni attimo della quotidianità».
Virginia Woolf e i suoi contemporanei è quindi uno dei saggi più intimi su Virginia Woolf in cui Liliana Rampello è riuscita a fondere vita e scrittura di questa indiscutibile autrice e, senza mai giudicarla, l’ha fatta «scendere da quel piedistallo» rievocandone un’esistenza passata per molto tempo inosservata. Qui infatti non c’è alcun critico, o persino psicologo, che spiega al lettore cosa e in che modo debba vedere o leggere Woolf. Al contrario, incontriamo per la prima volta una Woolf umana. E la speranza di William Plomer per cui «molti dovranno scrivere su di lei per ridarle una qualche vita sulla carta» si è finalmente concretizzata.
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