Non capisco come si possa vivere senza fumare.
Hans Castorp
Che rapporto intercorre tra la letteratura e la sigaretta? Secondo l’autore peruviano Julio Ramon Ribeyro si tratterebbe di una relazione molto stretta, perché «gli scrittori sono stati generalmente dei grandi fumatori». Tuttavia, ciò che appare strano agli occhi di Ribeyro è il fatto «che in pochi abbiano scritto libri sul vizio di fumare», al contrario di quanto è accaduto invece per altri vizi come il gioco d’azzardo, le droghe o l’alcol.
Il primo riferimento letterario legato al tabacco (che allora però si aspirava per via nasale) lo ritroviamo nel primo atto del Don Giovanni di Molière (1682), nel passaggio in cui Sganarello, rivolgendosi allo scudiero Gusmano, afferma: «Dicano quello che vogliono Aristotele e tutta la filosofia, non c’è niente di comparabile al tabacco: è la passione delle genti oneste, e chi vive senza tabacco non è degno di vivere». Eppure è necessario risalire sino al XX secolo per trovare l’archetipo della rappresentazione letteraria del vizio di fumare. Stiamo parlando ovviamente di Italo Svevo, che in La coscienza di Zeno (1923) dedica il primo capitolo del libro proprio al fumo.
Qui Svevo racconta l’epopea da fumatore di Zeno Cosini, dagli inizi, quando da piccolo rubava i sigari lasciati a metà dal padre in giro per la casa, nonostante fumare gli facesse venire la nausea, fino al suo patetico tentativo di porre un termine a tale vizio. Zeno ricorda di aver fumato molto, in tutti i luoghi possibili, e ricorda anche le intimazioni del medico a smettere in maniera assoluta. Ma come si fa a resistere a un vuoto grande che produce un’enorme pressione su di noi? La sigaretta diviene anche un alibi, la scusa per cui non diventiamo le persone che saremmo dovute diventare, «perché legarsi al vizio è un modo comodo di vivere, credersi grande in una grandezza latente».
Nel racconto di Svevo si assiste quindi a un continuo rimando di propositi, con un senso di colpa lacerante che si risolve sono nel rinvio. Perché, in ogni caso, ci sarà tempo, sempre, per curarsi. «Assolutamente non v’era fretta» dice Zeno alla fine del capitolo, dopo aver abbandonato con largo anticipo la casa di salute del dottor Muli, dove si trovava rinchiuso per una radicale cura di disintossicazione. Seguitando così a fumare l’ultima sigaretta, o forse «le ultime mille», perché «penso che l’ultima sigaretta abbia un gusto più intenso quando è l’ultima».
Anche le altre, afferma Zeno, hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso. Per quale motivo? La ragione è semplice: l’ultima sigaretta acquista il suo sapore dal «sentimento della vittoria su se stesso e la speranza di un prossimo futuro di forza e di salute». Le altre, invece, hanno la loro importanza «perché accendendole si protesta la propria libertà e il futuro di forza e di salute permane, ma va un po’ più lontano».
Più di recente è stato il sopracitato Julio Ramon Ribeyro a immergersi fra le nebbie della questione: «Senza essere stato un fumatore precoce a partire da un certo momento la mia storia si confonde con la storia delle mie sigarette» recita l’incipit di Solo para fumadores (Solo per fumatori, La Nuova Frontiera, 2015).
Ribeyro, in questo appassionato e scanzonato monologo, tanto assurdo quanto realista, ci conduce lungo l’accidentata storia della sua dipendenza dal fumo, un periplo caratterizzato da indigenza cronica e gravi problemi di salute; problemi che lo obbligheranno addirittura a sottoporsi a una importante operazione chirurgica. Il narratore si ritrova a subire continuamente lo sguardo accusatore delle persone che lo circondano, in primis la moglie, che lo spinge in qualche modo a dire basta alla sigaretta.
Ribeyro però non smette d’interrogarsi sul perché gli uomini fumino, perché siano così attratti dalla sigaretta, forse in un tentativo disperato di relativizzare la propria dipendenza. Dopo aver messo da parte tutte le teorie di matrice freudiana, l’autore peruviano giunge a una conclusione secondo lui più che plausibile: «Degli elementi originari della natura il fuoco è l’unico di cui l’uomo non può avere esperienza diretta» senza procurarsi dolore e sofferenza, per cui ha bisogno di una mediazione per poter esperire il fuoco.
La sigaretta allora sembrerebbe rappresentare il miglior strumento di mediazione possibile tra l’uomo e il fuoco – in un’epoca di secolarizzazione in cui i riti sacri sono oramai stati abbandonati –, funzionando da rito laico capace di soddisfare quell’innato bisogno dell’uomo di entrare in contatto con tutti gli elementi della natura.
Alla fine di questa strampalata storia, sembra che Ribeyro abbia vinto la propria dipendenza. Ma veniamo a scoprire che non è proprio così. Difatti il racconto si conclude con l’autore che, dalla sua casa di Capri, da dove scrive, mette un punto finale al racconto, perché – asserisce – «ho finito le sigarette. E devo scendere in paese a comprarle».
«Io ero bravo a fumare, ero uno dei migliori. Io fumavo benissimo»: è lo scrittore cileno protagonista del racconto di Alejandro Zambra a parlare (I miei documenti, Sellerio, 2015). Zeno e Ribeyro sono i suoi modelli e tenterà di imitarli, in modo inconcludente, nello sforzo di smetterla con le sigarette.
Assistiamo così a disintossicazioni più o meno riuscite, cui si alternano puntuali ricadute. Il narratore ci accompagna lungo un viaggio biografico, in cui il racconto si focalizza sulla sua vita da fumatore, della quale «le sigarette sono i segni d’interpunzione». Il suo problema principale, di cui prende coscienza come se si trattasse di una sorta di rivelazione, è che non ha mai scritto senza fumare, facendo forse propria la massima di André Gide: «Scrivere per me è un atto complementare al piacere di fumare».
E allora è probabile che scrivere fosse solo una scusa per fumare. Per cui abbandonare la sigaretta significa lasciar cadere la penna, perdere la concentrazione e l’ispirazione necessarie al narrare. Vuol dire cadere nell’infida trappola del foglio bianco. Ma non solo, anche leggere diventa difficile. Sì perché, spiega il narratore, «non è che non si riesca a leggere. Però si legge male».
Alla fine s’intravvede una nuova luce: lo scrittore cileno sembra stare meglio fisicamente, è in buona salute come mai prima; sente i sapori e gli aromi delle cose, respira e fa sport, molto sport. Ma sotto sotto è un uomo infelice, vittima di una privazione di cui non riesce a farsi una ragione, perso in un senso di vuoto foriero di spaesamento. Viene da chiedersi: ma ne vale davvero la pena? «Giacché mi fa male non fumerò più, ma prima voglio farlo per l’ultima volta. Ancora una volta. Ancora mille. Ne fumerò solo altre mille. Le ultime mille sigarette della mia vita».
Attorno alle relazioni tra scrittura e sigaretta si condensano le riflessioni dell’autore francese Pascal Hérault (La mélancholie du fumeur. Essai de tabagie littéraire, Encres vagabondes, 2010). Hérault asserisce che egli considera sia coloro che non-scrivono che coloro che non-fumano appartenenti alla stessa famiglia: quella degli estranei. Persone la cui visione del mondo potrebbe riassumersi in sole tre parole: Je m’abstiens (Io mi astengo). Anche a lui piacerebbe potersi astenere, ma si annoia talmente tanto che «una volta finita una storia non può resistere al bisogno di accenderne un’altra. Per fare diversione».
Per Hérault, come per i suoi predecessori, smettere di fumare equivale a un lutto, perché la sigaretta era la sua «compagna ideale», la sola che lo capiva e lo consolava in qualsiasi momento. Ma in un mondo in cui la lotta al tabagismo si è fatta sempre più aspra sembra inevitabile dover rinunciare a quello che era «un modo di affermare la nostra libertà».
Difatti, oggi, declama Philippe Sollers in L’Ecole du Mystère (Gallimard, 2015) «Tutti si lamentano di voi (fumatori, ndr)». Perché rappresentate un pericolo, perché intossicate il pianeta intero, «vivete come un sordo, un cieco o un handicappato grave». Perché, in definitiva, «vous êtes fous». Sì, anche perché, come sostiene la scrittrice canadese Danielle Charest (Haro sur les fumeurs. Jusqu’où ira la prohibition?, Ramsay, 2008) oggi il mondo contemporaneo considera i fumatori «al peggio, come dei criminali o degli aggressori», al meglio come dei malsani scocciatori.
Ribeyro scriveva nel 1958: «Che cosa ne sarebbe di me se non fosse stata inventata la sigaretta?». È probabile ipotizzare che Alda Merini, la quale, secondo molte testimonianze, fumava tra le sessanta e settanta sigarette al giorno, gli avrebbe risposto così: «Apro la sigaretta/Come fosse una foglia di tabacco/E aspiro avidamente/L’assenza della tua vita».
Viene quasi da chiedersi: come sarebbe stato il mondo se non fosse stata inventata la sigaretta? È probabile che sarebbe stato un mondo più sano, per certi versi migliore. E forse, in un futuro non troppo lontano, sarà la definitiva realizzazione dell’utopia salutista a risponderci in tal senso. Di certo, però, possiamo dire che sarebbe stato un mondo privato di alcune preziose trasgressioni letterarie; ma soprattutto, un mondo che avrebbe dovuto cercarsi un altro capro espiatorio altrettanto credibile. E che, agli occhi di Sganarello, non sarebbe stato degno di esistere.
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