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Quando il capitano Gerilleau ricevette l’ordine di recarsi con la sua nuova cannoniera, la Benjamin Constant, fino a Badama sul fiume Batemo, affluente del Guaramadema, per assistere gli abitanti contro un’invasione di formiche, sospettò che le autorità si facessero beffe di lui. La sua promozione era stata una faccenda romantica e del tutto irregolare, avendo giocato un ruolo preminente l’affetto di un’illustre dama brasiliana e gli occhi luminosi del capitano, e il «Diario» e «O Futuro» si erano dimostrati spiacevolmente irrispettosi nei loro commenti. Sospettò quindi che fosse un’ulteriore occasione per mancargli di rispetto.

Era creolo, ma la sua concezione dell’etichetta e della disciplina erano puramente portoghesi, e solo con Holroyd, l’ingegnere del Lancashire arrivato con la nave, apriva il suo cuore, anche per esercitarsi nell’uso dell’inglese, essendo la sua pronuncia molto incerta.

«È certamente» disse, «uno stratagemma per rendermi ridicolo! Cosa può fare un uomo contro le formiche? Vanno e vengono.»

«Dicono» replicò Holroyd «che queste non vanno. Quel tipo che hai chiamato Sambo…»

«Zambo, un sangue misto.»

«Sambo. Ha detto che è la gente ad andarsene!»

Il capitano fumò nervosamente. «Sono cose che succedono» disse infine. «Che sarà? Invasioni di formiche e simili, è la volontà di Dio. Ci fu un’invasione a Trinidad, di formiche che trasportano le foglie. Tutti quegli aranci, tutti quei manghi! Cosa importa? A volte un esercito di formiche ti arriva in casa, formiche guerriere, un’altra razza. Te ne vai e la ripuliscono. Poi torni e la casa è come nuova! Niente scarafaggi, niente pulci, niente larve tra le assi del pavimento.»

«Quel Sambo» disse Holroyd «dice che sono formiche diverse, queste.»

Il capitano scrollò le spalle, irritato, e concentrò la sua attenzione sulla sigaretta.

Più tardi riprese l’argomento. «Mio caro Holroyd, cosa potrò mai fare per queste maledette formiche?»

Il capitano rifletté. «È ridicolo» disse. Ma nel pomeriggio indossò l’uniforme e andò a riva, e di ritorno sulla nave fu preceduto da casse e barattoli. Holroyd sedeva sul ponte al fresco della sera, fumando e meravigliandosi del Brasile. Avevano risalito il Rio delle Amazzoni per sei giorni e si trovavano a qualche centinaio di chilometri dall’oceano. A est e a ovest non vedeva che acqua e a sud un’isoletta sabbiosa con qualche ciuffo di vegetazione. L’acqua scorreva torbida come quella di un canale, animata da coccodrilli e uccelli e alimentata da una fonte inesauribile di tronchi, e la sua vastità gli riempiva l’anima. La cittadina di Alemquer, con la sua chiesa modesta, le baracche dai tetti di paglia, le rovine scolorite di tempi più gloriosi, sembrava una nullità persa nella desolazione della natura, una monetina nel Sahara. Holroyd era giovane, era la sua prima visita nei tropici, e veniva dall’Inghilterra, dove la natura è circondata, abbandonata e prosciugata: perfettamente sottomessa. Qui aveva improvvisamente scoperto l’insignificanza dell’uomo. Per sei giorni si erano allontanati dal mare percorrendo corsi d’acqua poco frequentati, dove gli altri uomini erano rari come una farfalla rara. Un giorno si poteva avvistare una canoa, il successivo un insediamento in lontananza, e quello dopo ancora nessuno. Cominciò a percepire l’essere umano come un animale raro, con nient’altro che una stretta precaria su questa terra.

Lo percepiva più chiaramente con il passare dei giorni, mentre si avvicinava al Batemo in compagnia del comandante, un uomo notevole che aveva in carico un grande cannone e al quale era vietato sprecare munizioni. Holroyd si applicava con impegno all’apprendimento dello spagnolo, ma ancora padroneggiava solamente il tempo presente e i sostantivi, e l’unica persona che parlava un minimo d’inglese, malissimo, era un fuochista negro. Il secondo in comando era un portoghese, da Cunha, che parlava francese, ma un francese diverso da quello che Holroyd aveva appreso a Southport, e le loro conversazioni si limitavano a scambi di cortesia e semplici considerazioni sul tempo. E il tempo, come tutto il resto in quell’incredibile nuovo mondo, non aveva un carattere umano, era caldo di notte e caldo di giorno, l’aria e persino il vento sembravano caldo vapore e portavano con sé l’odore della vegetazione marcia, e gli alligatori e gli strani uccelli, le mosche di tutti i tipi e dimensioni, i coleotteri e le formiche, i serpenti e le scimmie, sembravano chiedersi cosa ci facessero degli uomini in un’atmosfera che non recava gioia con la luce del sole o sollievo di notte. I vestiti erano intollerabili, ma toglierseli significava bruciare di giorno ed esporre più pelle alle zanzare di notte. Andando sul ponte di giorno si rimaneva accecati dal bagliore, e rimanendo sottocoperta si soffocava. Di giorno inoltre arrivavano certe mosche, estremamente intelligenti e fastidiose, che assalivano polsi e caviglie. Il capitano Gerilleau, l’unica distrazione per Holroyd da questi disagi fisici, diventò incredibilmente tedioso raccontando giorno dopo giorno della sua vita amorosa, una serie di donne anonime, come se stesse recitando il rosario. A volte suggeriva un po’ di attività sportiva, e allora sparavano agli alligatori, e raramente incontravano aggregazioni di uomini nella distesa di alberi, rimanevano per un giorno o poco più, bevevano e passavano il tempo, e una notte ballarono con ragazze creole, che trovarono lo scarno spagnolo di Holroyd, senza tempo passato e futuro, più che sufficiente ai loro scopi. Questi tuttavia non erano che rari spiragli di luce nel lungo corso grigio del fiume battuto dai rombanti motori. Una certa divinità pagana in forma di damigiana, seducente e generosa, teneva corte a poppa e, probabilmente, a prua.

Gerilleau nel frattempo veniva a sapere sempre di più sulle formiche, ogni volta che facevano una sosta, e il suo interesse per la missione crebbe.

«Sono un nuovo tipo di formiche» disse. «Dobbiamo essere… come si dice? Entomologi? Grandi. Cinque centimetri! Alcune più grandi! Ridicolo. Siamo come scimmie… spedite a raccogliere insetti… ma si stanno mangiando il paese.»

Esplose indignato: «Supponiamo che, all’improvviso, ci siano delle tensioni con l’Europa. Eccomi qua… presto ci troveremo all’altezza del Rio Negro… e il mio cannone, inutile!».

Si strinse un ginocchio e rifletté.
«Quella gente, là dove ballavano, sono scappati. Hanno perso tutto quello che avevano. Le formiche arrivano in casa loro un pomeriggio. Tutti corrono fuori. Sa, quando arrivano le formiche tutti escono e loro riempiono la casa. Se resti ti mangiano. Capisce? Be’, alla fine tornano indietro, pensano che le formiche se ne siano andate… Le formiche non se ne sono andate. Provano a entrare… il figlio. Le formiche combattono.»

«L’hanno assalito?»

«L’hanno morso. Corre subito fuori gridando. Li oltrepassa e raggiunge il fiume, si getta in acqua e affoga le formiche, sì.» Gerilleau si fermò, avvicinò gli occhi luminosi a quelli di Holroyd, gli picchiettò sul ginocchio con le nocche. «Quella notte muore, come se l’avesse morso un serpente.»

«Avvelenato, dalle formiche?»
«Chi lo sa?» Gerilleau scrollò le spalle. «Forse l’hanno ferito troppo gravemente… Quando mi sono arruolato l’ho fatto per combattere gli uomini. Queste cose, queste formiche, vanno e vengono, non è affare degli uomini.»

In seguito parlò spesso delle formiche con Holroyd, e ogni qualvolta incontravano un briciolo di umanità nella distesa di acqua, luce e alberi lontani, la conoscenza sempre migliore della lingua permetteva a quest’ultimo di riconoscere la parola saba, che veniva usata sempre più spesso.

Provava un interesse sempre maggiore per le formiche man mano che gli si avvicinavano. Gerilleau abbandonò quasi all’improvviso i suoi vecchi argomenti e cominciò a conversare con il tenente portoghese, che condivise quanto sapeva sulle formiche tagliafoglie. Gerilleau a volte riportava a Holroyd quanto gli veniva detto: gli raccontò delle piccole operaie feroci e sciamanti, delle grandi operaie che comandano le altre, di come queste raggiungano sempre il collo e mordano fino a farlo sanguinare. Gli spiegò come tagliano le foglie per fare letti di funghi, e di come le loro colonie a Caracas a volte si estendano per centinaia di metri. I tre uomini passarono due giorni interi a discutere se le formiche avessero o meno occhi. La discussione si fece pericolosamente accesa il secondo pomeriggio, e Holroyd risolse il problema andando a riva per catturare delle formiche e controllare. Ne prese vari esemplari prima di tornare, e alcuni avevano occhi e altri no. Inoltre, si chiedevano, le formiche mordono o pungono?

«Queste formiche» affermò Gerilleau dopo aver raccolto informazioni in una fattoria, «hanno grandi occhi. Non corrono intorno alla cieca come le altre. No! Si mettono negli angoli e ti osservano.»

«E pungono?» chiese Holroyd.

«Sì, pungono, e la puntura è velenosa.» Rifletté. «Non vedo cosa possano fare degli uomini contro le formiche. Vanno e vengono.»

«Ma queste non vanno.»
«Lo faranno» replicò Gerilleau.

Dopo Tamandu c’è una bassa costa lunga oltre cento chilometri priva di insediamenti, passata la quale la confluenza tra il fiume principale e il Batemo forma come un grande lago, dopodiché la foresta si avvicina, facendosi intimamente prossima. Il carattere del fiume cambia, abbondano gli ostacoli alla navigazione, e la Benjamin Constant quella notte ormeggiò assicurata a una fune, sotto le fronde degli alberi scuri. Per la prima volta dopo giorni godettero di un po’ di fresco, e Holroyd e Gerilleau restarono fino a tardi a fumare sigari e a godersi la deliziosa sensazione. La mente di Gerilleau era invasa dalle formiche e da quello che erano in grado fare. Decise di dormire, infine, coricandosi su un materasso sul ponte, un uomo terribilmente perplesso, le sue ultime parole, quando sembrava già addormentato, furono pronunciate con un accenno di disperazione: «Cosa si può fare contro delle formiche? Tutta la faccenda è assurda».

Holroyd rimase da solo, a grattarsi i polsi tormentati dagli insetti e a riflettere.

Seduto sulla murata ascoltò i lievi mutamenti nel respiro di Gerilleau finché questo non fu profondamente addormentato, poi l’incresparsi dell’acqua attirò la sua attenzione e rinnovò quel senso di immensità che continuava a crescere in lui da quando avevano lasciato Pará e iniziato a risalire il fiume. C’era una sola luce accesa sulla nave, e all’inizio si sentiva ancora una sommessa conversazione a poppa, poi silenzio. Gli occhi di Holroyd passarono dal profilo nero della cannoniera alla riva, fino ai neri misteri della foresta, illuminata di tanto in tanto da una lucciola, e costantemente percorsa da un mormorio di attività aliene e misteriose.

Era l’inumana immensità di quella terra a sconvolgerlo e opprimerlo. Sapeva che nei cieli non c’era traccia d’uomo, le stelle non erano che puntini nell’incredibile vastità dello spazio, sapeva che l’oceano era enorme e indomabile, ma in Inghilterra pensava alla terra come al dominio dell’uomo. E in Inghilterra in effetti lo è: tutto ciò che è selvatico vive in sofferenza, cresce in cattività, ovunque le strade, le staccionate e la sicurezza più assoluta fanno da padrone. Anche negli atlanti la terra appartiene all’uomo, colorata per illustrarne la proprietà, in contrasto con il blu universale e indipendente del mare. Holroyd aveva dato per scontato che un giorno, ovunque sulla terra, avrebbero prevalso i campi arati e coltivati, i tram e le strade, una sicurezza ordinata. Ma ora ne dubitava.

Quella foresta era interminabile, aveva l’aria di essere invincibile, e l’uomo sembrava al più un intruso raro e passeggero. Si viaggiava per chilometri attraverso la lotta silenziosa e immobile inscenata da alberi giganteschi, rampicanti soffocanti, fiori risoluti, e ovunque l’alligatore, la tartaruga e un’infinita varietà di uccelli e insetti sembravano al loro posto, insostituibili… ma l’uomo, l’uomo al massimo conquistava un appiglio in radure rancorose, combatteva la vegetazione, le bestie e gli insetti per il minimo spazio, cadeva preda di serpenti, insetti e malattie, e veniva trascinato via. In molti posti lungo il fiume era stato evidentemente respinto, e questo o quel tratto di riva, deserto, conservava il nome di una casa, e qua e là muri bianchi in rovina e una torre distrutta ribadivano il concetto. Il puma e il giaguaro erano i padroni di quel luogo…

Oppure erano altri i veri padroni?

In pochi chilometri di quella foresta dovevano esserci più formiche che uomini in tutto il mondo! Questa parve a Holroyd un’idea completamente nuova. Dopo qualche migliaio di anni l’uomo era emerso dalla barbarie per entrare in una fase di civilizzazione che l’aveva fatto sentire il signore del futuro e il padrone della terra! Ma cosa impediva alle formiche di evolversi allo stesso modo? Le formiche che vivevano in piccole comunità di qualche migliaio di individui non facevano alcuno sforzo contro il resto del mondo. Ma possedevano un linguaggio, un’intelligenza! Perché avrebbero dovuto fermarsi, al contrario degli uomini? E se avessero cominciato a raccogliere conoscenza, come gli uomini avevano fatto con libri e registri, a usare armi, a formare imperi, a sostenere guerre pianificate e organizzate?

Gli tornarono alla mente notizie che Gerilleau aveva raccolto riguardo le formiche a cui si stavano avvicinando. Usavano un veleno simile a quello dei serpenti, obbedivano a dei comandanti come le formiche tagliafoglie, erano carnivore e, dove arrivavano, lì rimanevano.

La foresta era molto calma. L’acqua si frangeva incessantemente contro lo scafo. Intorno alla lanterna sopra di lui vorticava un turbine silenzioso di falene fantasma.

Gerilleau si agitò nel buio e sospirò. «Cosa si può mai fare?» mormorò, e voltatosi tornò di nuovo in silenzio.

Il ronzio di una zanzara scosse Holroyd da riflessioni che stavano diventando sinistre.

II.

Il giorno seguente venne a sapere che si trovavano a non più di quaranta chilometri da Badama, e il suo interesse per le rive del fiume crebbe. Saliva sul ponte ogni volta che gli si presentava l’opportunità di esaminare i dintorni. Non vedeva alcun segno della presenza umana, se non una casa in rovina invasa dalla vegetazione e la facciata macchiata di verde del monastero di Moj, abbandonato da tempo, con un albero che si protendeva dallo spazio vuoto di una finestra e grandi rampicanti drappeggiati sui portali. Diversi sciami di strane farfalle gialle con ali semitrasparenti attraversarono il fiume quella mattina, e molte si posarono sulla nave e vennero uccise dall’equipaggio. Fu verso il pomeriggio che si imbatterono nella cuberta abbandonata.

Inizialmente non sembrava alla deriva: entrambe le vele erano spiegate e flosce nella calma del pomeriggio, e c’era un uomo seduto a prua a fianco dei remi. Un altro sembrava stesse dormendo a faccia in giù su quelle specie di ponti longitudinali che si trovano al centro di queste grandi canoe. Fu però subito evidente, dal modo in cui il timone oscillava fuori controllo e da come la barca venne trasportata dalla corrente sulla rotta della cannoniera, che c’era qualcosa che non andava. Gerilleau la osservò attraverso un binocolo, e fu incuriosito dallo strano colore sul volto dell’uomo seduto, sembrava rubicondo, ma privo di naso… accovacciato piuttosto che seduto, e più il capitano lo osservava, meno voleva guardarlo, meno gli risultava facile posare il binocolo.

Alla fine ci riuscì e andò a chiamare Holroyd. Tornò quindi indietro per chiamare l’equipaggio della cuberta. Chiamò finché l’imbarcazione sfilò loro accanto e videro chiaramente che il suo nome era Santa Rosa.

Passata la cannoniera ed entrata nella sua scia, la cuberta beccheggiò leggermente, e all’improvviso l’uomo accovacciato crollò come se tutte le articolazioni avessero ceduto contemporaneamente. Gli cadde il cappello e non fu piacevole vedergli la testa. Il corpo rotolò dietro il parapetto, nascosto alla vista.

«Caramba!» gridò Gerilleau, e si rivolse subito a Holroyd, che si trovava sulla scala tra i ponti. «L’ha visto?» gli chiese.

«Morto!» disse Holroyd. «Sì. Dovrebbe mandare una scialuppa a bordo. C’è qualcosa che non va.»

«Ha… ha per caso visto la faccia?»

«Com’era?»

«Era… ah! Non ho parole.» Il capitano si voltò improvvisamente trasformandosi in un ufficiale attivo e stridente.

La cannoniera virò, posizionandosi parallelamente alla rotta della canoa, e fu calata la scialuppa con il tenente da Cunha e tre marinai. La curiosità del capitano lo spinse quindi ad avvicinare la nave all’altra imbarcazione mentre il tenente si avvicinava alla canoa, così che il ponte e la stiva della Santa Rosa erano del tutto visibili a Holroyd.

Vedeva ora che l’equipaggio del vascello consisteva nei due morti, e nonostante non potesse scorgerne i volti, dedusse, osservando la carne logora delle mani, che erano stati vittime di un qualche eccezionale processo di decomposizione. Per un attimo si concentrò sui due misterioso mucchi di vestiti sudici e membra inerti, poi spostò la sua attenzione verso la stiva aperta piena di tronchi e casse a prua, quindi verso poppa, dove la piccola cabina spalancata era inspiegabilmente vuota. Si accorse a quel punto che le assi del ponte di mezzo erano disseminate di puntini neri in movimento.

Non riusciva a distoglierne lo sguardo. Si stavano tutti allontanando dall’uomo caduto in un modo che, l’immagine gli occorse involontariamente, ricordava la folla che si disperdeva dopo una corrida.

Si accorse che Gerilleau l’aveva raggiunto. «Capo» gli disse «ha con sé il binocolo? Riesce a mettere a fuoco quelle assi?»

Gerilleau ci provò, borbottò e gli passò il binocolo.

L’inglese osservò per un momento. «Sono formiche» disse passandogli il binocolo ora a fuoco.

Aveva visto una moltitudine di grandi formiche nere, molto simili alle comuni formiche eccetto per le dimensioni e per il fatto che alcune delle più grandi indossavano una specie di indumento grigio. Ma il tempo a disposizione fu troppo breve per osservare i particolari, visto che il tenente da Cunha spuntò oltre la fiancata della cuberta.

«Deve salire a bordo» gli disse Gerilleau.

Il tenente obiettò che l’imbarcazione era piena di formiche.

«Ha gli stivali» replicò Gerilleau.

Il tenente cambiò discorso. «Come sono morti questi uomini?» chiese.

Il capitano si lanciò in una serie di ipotesi che Holroyd non riusciva a seguire, e i due uomini cominciarono a discutere con sempre maggiore veemenza. Holroyd riprese le sue osservazioni con il binocolo, concentrandosi prima sulle formiche, quindi sul corpo al centro della barca.

Mi ha descritto le formiche nel dettaglio.

Dice che erano le più grosse che avesse mai visto, nere, e che si muovevano con fermo proposito, molto diverso dalla casualità meccanica della formica comune. Circa una ogni venti era molto più grande dei suoi simili, con una testa particolarmente grande. Queste gli ricordarono immediatamente le operaie capo che si dice comandino le formiche tagliafoglie. Come loro sembravano infatti dirigere e coordinare i movimenti delle altre. Si ergevano rizzando il corpo in maniera singolare, come se stessero usando in qualche modo le zampe anteriori. Holroyd aveva inoltre l’impressione, ma era troppo lontano per poter verificare, che entrambi i tipi di formiche indossassero dell’equipaggiamento, oggetti fissati sul corpo con fasce bianche e brillanti, come fili di metallo…

Interruppe l’osservazione di scatto, accorgendosi che la discussione tra il capitano e il suo sottoposto si era fatta violenta.

«È il suo dovere salire a bordo» disse il capitano. «Sono i miei ordini.»

Il tenente sembrava sul punto di rifiutare. La testa di uno dei marinai mulatti apparve accanto alla sua.

«Credo che siano stati uccisi dalle formiche» disse improvvisamente Holroyd in inglese.

Il capitano esplose di rabbia. Non rispose a Holroyd. «Ti ho ordinato di salire a bordo» gridò in portoghese al tenente. «Se non sali a bordo immediatamente sarà ammutinamento, ammutinamento e codardia! Dov’è il coraggio che dovrebbe animarci? Ti farò mettere in catene, ti farò sparare come a un cane.» Si lanciò in un fiume di improperi e maledizioni mentre si spostava avanti e indietro. Scuoteva i pugni, si comportava come se avesse perso completamente il controllo, mentre il tenente, pallido e immobile, lo osservava. L’equipaggio si fece avanti sbalordito.

All’improvviso, in un momento di silenzio, il tenente prese una decisione eroica, salutò militarmente e salì a bordo della cuberta.

«Ah!» esclamò Gerilleau prima di zittirsi. Holroyd vide le formiche che si ritiravano dinnanzi agli stivali di da Cunha. Il portoghese si avvicinò lentamente all’uomo caduto, si chinò, esitante, lo afferrò per la giacca e lo voltò. Un fiume nero sciamò dai vestiti dell’uomo, e da Cunha indietreggiò velocemente, pestando i piedi due o tre volte.

Holroyd sollevò il binocolo. Vide le formiche sparse attorno all’invasore, fare qualcosa che non aveva mai visto fare prima. Non avevano niente dei movimenti casuali della formica comune: lo stavano guardando, come una folla di uomini potrebbe guardare un mostro gigante che li ha dispersi.

«Com’è morto?» gridò il capitano.

Holroyd capì il portoghese dire che il corpo era troppo consumato per poterlo stabilire.

«Cosa c’è a prua?» chiese Gerilleau.

Il tenente fece qualche passo avanti e cominciò a riferire in portoghese. Si fermò all’improvviso per scacciare qualcosa dalla gamba. Fece degli strani movimenti, come se cercasse di schiacciare qualcosa di invisibile e si affrettò verso la murata. Riprese quindi il controllo, si voltò e si avviò verso la stiva, si arrampicò sul ponte di prua, da dove si manovrano i remi, si chinò sul secondo uomo, gemette rumorosamente e si diresse a poppa verso la cabina con movimenti rigidi. Si voltò per conversare con il capitano, con toni freddi e rispettosi da parte di entrambi, in aperto contrasto con la rabbia e gli insulti di poco prima. Holroyd afferrò solo frammenti dello scambio.

Tornò al binocolo e fu sorpreso di osservare che le formiche erano sparite da tutte le superfici esposte del ponte. Si volse verso le zone in ombra, e gli sembrò che fossero affollate di occhi attenti.

La cuberta, era chiaro, era abbandonata, ma le formiche erano troppo numerose per far salire a bordo degli uomini, per i quali sarebbe stato impossibile sedersi o dormire: doveva essere trainata. Il tenente prese una cima e la fissò, mentre gli uomini sulla scialuppa lo aiutavano. Holroyd perlustrò la canoa con il binocolo.

Fu colpito sempre più dal gran quantitativo di attività, seppur minuta e furtiva, in corso sul ponte. Osservò che un certo numero di formiche giganti, grandi quasi cinque centimetri e recanti degli oggetti dalla strana forma per cui non riusciva a immaginare un impiego, si stava muovendo in fretta da un riparo all’altro. Non si muovevano in colonna attraverso spazi esposti alla luce, ma in file aperte e distanziate, stranamente simili agli scatti della moderna fanteria quando avanza sotto il fuoco nemico. Alcune si stavano rifugiando sotto i vestiti del morto e una massa si andava riunendo sul lato che da Cunha avrebbe raggiunto a breve.

Holroyd non le vide attaccare il tenente mentre questo tornava, ma non aveva dubbi che si trattasse di un assalto coordinato. All’improvviso il tenente urlava e lanciava maledizioni mentre si colpiva le gambe. «Mi hanno punto!» gridò a Gerilleau, sul volto un’espressione di odio e biasimo.

Poi svanì oltre la murata, si calò nella scialuppa e si tuffò immediatamente nel fiume. Holroyd udì il tonfo nell’acqua.

I tre uomini sulla scialuppa lo issarono a bordo e quella notte morì.

III.

Holroyd e il capitano uscirono dalla cabina in cui era steso il corpo gonfio e contorto del tenente, e da poppa osservarono insieme il sinistro vascello trainato dalla cannoniera. Era una notte cupa e afosa, con il solo bagliore dei lampi a illuminarla. La cuberta, un vago triangolo nero, ondeggiava nella scia della nave, le vele flosce, mentre il fumo della nave, percorso di tanto in tanto da scintille, ne avvolgeva gli alberi.

La mente di Gerilleau correva sulle parole poco gentili che il tenente aveva usato nei suoi confronti durante l’ultimo accesso di febbre.

«Dice che l’ho ucciso io» protestò. «È semplicemente assurdo, qualcuno doveva salire a bordo. Dovremmo fuggire da queste maledette formiche a ogni occasione?»

Holroyd rimase in silenzio. Stava pensando agli scatti disciplinati delle piccole forme nere sul ponte illuminato dal sole.

«Toccava a lui andare» continuò Gerilleau. «È morto mentre faceva il suo dovere. Cos’ha da lamentarsi? Ucciso! Ma il pover’uomo era… come si dice? Delirante. Non era sano di mente. Il veleno l’ha fatto gonfiare… mh.»

Rimasero a lungo in silenzio.

«Affonderemo la canoa. La bruceremo.»

«E poi?»

La domanda irritò Gerilleau. Drizzò le spalle allargando le braccia. «Cosa si può fare?» chiese, la voce trasformata in uno squittio irritato.

«In ogni caso» riprese rancoroso «le brucerò vive! Tutte le formiche su quella cuberta!»

Holroyd non aveva intenzione di proseguire la conversazione. Il distante ululato delle scimmie urlatrici riempì l’aria afosa della notte con il loro suono inquietante, rafforzato da un deprimente clamore di rane mentre la cannoniera si avvicinava alle misteriose rive scure.

«Cosa si può fare?» ripeté il capitano dopo un lungo intervallo, e diventato improvvisamente attivo, selvaggio e blasfemo, decise di incendiare la Santa Rosa senza ulteriori indugi. Tutto l’equipaggio era entusiasta dell’idea e partecipò con zelo: tirarono la cima, la tagliarono, lasciarono allontanare la barca e le appiccarono il fuoco con stoppa e cherosene. Presto la cuberta scoppiettava allegramente nell’immensità della notte tropicale. Holroyd osservò il crescente bagliore giallo stagliarsi contro l’oscurità, e i lampi lividi della lamiera che andavano e venivano sopra le cime degli alberi illuminandone il profilo, mentre il fuochista stava alle sue spalle e osservava insieme a lui.

Quest’ultimo era tanto eccitato da raggiungere l’apice delle sue capacità linguistiche. «Saba fanno pop, pop» disse, quindi rise rumorosamente.

Ma Holroyd stava pensando al fatto che le creature sulla canoa avevano occhi e cervelli.

Tutta la faccenda gli apparve incredibilmente stupida e sbagliata, ma… cosa si può fare? La domanda si ripresentò con forza anche maggiore il mattino successivo, quando finalmente la cannoniera raggiunse Badama.

Il luogo, con le case e le capanne dai tetti di foglie, lo zuccherificio invaso dai rampicanti, il piccolo molo di tronchi e canne, era estremamente quieto nella calura del mattino e non mostrava segni di presenza umana. Le formiche erano troppo piccole per essere avvistate da quella distanza.

«Se ne sono andati tutti,» disse Gerilleau «ma faremo lo stesso una cosa: grideremo e fischieremo.»

Quindi Holroyd gridò e fischiò.

A quel punto il capitano fu colto da seri dubbi. «C’è una cosa che possiamo fare» disse improvvisamente. «Che cosa?» gli chiese Holroyd.

«Gridare e fischiare di nuovo.»

E così fecero.

Il capitano camminava sul ponte gesticolando tra sé. Sembrava avere molte cose per la testa. Frammenti di discorsi gli fuggivano dalle labbra. Parlava come se si stesse rivolgendo a qualche tribunale immaginario, in spagnolo o in portoghese. L’orecchio sempre più allenato alle lingue di Holroyd riuscì a cogliere qualcosa riguardo delle munizioni. Il capitano abbandonò queste elucubrazioni passando improvvisamente all’inglese. «Mio caro Holroyd!» gridò, interrompendosi subito con «Ma cosa si può fare?»

Presero la scialuppa e il binocolo e si avvicinarono per esaminare il posto. Scorsero un certo numero di grandi formiche, la cui immobilità contribuiva all’idea che li stessero osservando, disposte com’erano sul bordo della rudimentale banchina. Gerilleau provò a sparargli contro dei colpi che non ebbero alcun effetto. Holroyd sostiene di aver scorto delle strane strutture in terra svilupparsi tra le case più vicine, forse opera degli insetti conquistatori. Gli esploratori oltrepassarono il molo e si accorsero di uno scheletro umano poco distante, molto lucido e pulito, con indosso un lembo di stoffa. A quel punto si fermarono.

«Devo considerare tutte quelle vite» disse Gerilleau all’improvviso.

Holroyd si voltò a fissare il capitano, rendendosi lentamente conto che si riferiva al misto di razze poco invitante che costituiva l’equipaggio.

«Far sbarcare una squadra… è impossibile, impossibile. Verranno avvelenati, si gonfieranno, mi accuseranno e moriranno. È del tutto impossibile… se attracchiamo, devo sbarcare da solo, da solo, con stivali robusti e la mia vita nelle mie mani. Forse vivrei. O magari… potrei non sbarcare. Non lo so. Non lo so.»

Holroyd pensava che in realtà sapesse, ma non disse niente.

«Tutta la faccenda» esclamò improvvisamente Gerilleau, «è stata pensata per rendermi ridicolo. Tutta la faccenda!»

Remarono intorno e osservarono lo scheletro da vari punti di vista prima di tornare alla cannoniera. A quel punto l’indecisione di Gerilleau si fece terribile. Fece mandare i motori a regime e nel pomeriggio la nave proseguì lungo il fiume come se dovesse andare a chiedere qualcosa a qualcuno, al tramonto tornò di nuovo e fu gettata l’ancora. Una violenta tempesta scoppiò furiosamente, dopodiché la notte divenne piacevolmente fresca e calma, e tutti dormirono sul ponte. Eccetto Gerilleau, che si rigirava e mormorava. All’alba svegliò Holroyd.

«Signore!» disse Holroyd «cosa c’è adesso?»

«Ho deciso» rispose il capitano.
«Che cosa, di sbarcare?» chiese Holroyd tirandosi su.

«No!» rispose il capitano, e per un po’ rimase in silenzio. «Ho deciso» ripeté, e Holroyd manifestò segni di impazienza.

«Ebbene sì,» proseguì il capitano «sparerò con il cannone!»

E lo fece! Lo sa il cielo cosa pensarono le formiche, ma lo fece davvero. Sparò due volte con grande solennità e cerimonia. Tutto l’equipaggio aveva le orecchie turate, e c’era fermento per essere finalmente entrati in azione. Per primo colpirono e distrussero il vecchio zuccherificio, poi abbatterono il magazzino abbandonato dietro al molo. Infine vi fu l’inevitabile reazione di Gerilleau.

«Non serve a niente» disse a Holroyd. «Non serve assolutamente a niente. A niente. Dobbiamo tornare… per ricevere istruzioni. Mi faranno un sacco di problemi per le munizioni… oh! Un sacco di problemi! Non ne ha idea, Holroyd…»

Rimase per un po’ a fissare il mondo con infinita perplessità.

«Ma cos’altro si poteva fare?» gridò.

Nel pomeriggio la nave riprese la rotta inversa lungo il fiume, e la sera una squadra seppellì il corpo del tenente sulla riva dove le formiche non erano ancora apparse.

IV.

Questa storia mi è stata riportata in modo frammentario da Holroyd non più di tre settimane fa.

Queste nuove formiche sono diventate un’ossessione per lui, ha fatto ritorno in Inghilterra con l’idea, parole sue, di «avvertire la gente» perché faccia qualcosa «prima che sia troppo tardi». Afferma che minacciano la Guyana Britannica, che si trova a meno di duemila chilometri dalla loro zona di attività attuale, e che l’Autorità coloniale dovrebbe mettersi subito all’opera. Dichiara con grande impeto: «Sono formiche intelligenti, pensa a cosa significa!».

Non c’è dubbio che si tratti di una grave infestazione, e che il governo brasiliano abbia agito saggiamente nell’offrire un premio di cinquecento sterline per chi presenti un metodo di estirpazione efficace. È anche certo che da quando sono apparse sulle colline oltre Badama, circa tre anni fa, hanno ottenuto successi straordinari. Hanno occupato l’intera sponda meridionale del Batemo, per quasi cento chilometri, cacciando completamente gli uomini, occupando piantagioni e villaggi, e assalendo e catturando almeno una nave. Si dice persino che abbiano in qualche modo attraversato la ragguardevole larghezza del Capuarana e che si siano spinte per molti chilometri verso il Rio delle Amazzoni. È indubbio che presentino capacità intellettive e un’organizzazione sociale di gran lunga superiori a quelle delle specie finora conosciute: invece di essere disperse in varie comunità, sono organizzate in quella che è a tutti gli effetti una singola nazione. Non è tuttavia questo l’aspetto più formidabile, quanto l’uso intelligente che fanno del veleno contro i nemici. Sembra che questo veleno sia molto simile a quello dei serpenti, ed è altamente probabile che lo fabbrichino loro stesse, e che gli individui più grandi ne utilizzino delle dosi in forma di cristalli aghiformi nei loro attacchi contro gli uomini.

È ovviamente molto difficile ottenere informazioni dettagliate su questi nuovi concorrenti per il dominio globale. Non ci sono testimoni della loro attività, eccetto per casi simili a quello di Holroyd, che siano sopravvissuti all’incontro. Nella regione dell’Amazzonia settentrionale circolano le leggende più incredibili sulle loro prodezze e sul loro potenziale, che non fanno che aumentare mentre il terrore della loro avanzata stimola l’immaginazione degli uomini. Si attribuisce a queste piccole e bizzarre creature non solo la capacità di utilizzare attrezzi e la conoscenza del fuoco, dei metalli e di imprese di ingegneria che sconvolgono la mente degli occidentali – non avvezzi a prodezze come quelle delle saba di Rio de Janeiro, che nel 1841 scavarono un tunnel sotto al Parahyba nel punto in cui è largo quanto il Tamigi all’altezza del London Bridge – ma anche la padronanza di un metodo di documentazione e comunicazione analogo ai nostri libri. La loro attività fino a oggi è consistita in un progressivo e costante insediamento che ha comportato il massacro o la fuga degli esseri umani dalle aree invase. Stanno aumentando velocemente di numero e Holroyd è fermamente convinto che finiranno per strappare agli uomini l’intera zona tropicale del Sudamerica.

E perché dovrebbero fermarsi lì?

Entro il 1911 circa, mantenendo il ritmo attuale, dovrebbero colpire la linea ferroviaria di Capuarana, attirando l’attenzione dei capitalisti europei.

Nel 1920 saranno a metà del corso del Rio delle Amazzoni. Pongo come limite massimo il 1950 o il 1960 per la scoperta dell’Europa.

Traduzione di Umberto Manuini

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