Negli ultimi anni si è andata diffondendo la tendenza a considerare la filosofia una disciplina inutile. Basta andare su Google e cercare due semplici parole: filosofia + inutile. Schiacciando invio vedrete comparire davanti ai vostri occhi una serie infinita di risultati di ricerca, che rimandano ad altrettante (utili o inutili) discussioni sull’argomento.
Non so di non sapere è un libro tanto dissacrante quanto ironico e la disciplina di cui vuol demolire la sacralità è, per l’appunto, la filosofia. Senza dubbio non stupisce che l’autore di quest’opera sia un insegnante di storia e filosofia che risponde al nome di Tony Brewer.
Nonostante Brewer affermi nelle primissime pagine del libro la totale inutilità della filosofia e la sua assoluta irrilevanza in ambito scolastico, risulta immediatamente chiaro dal taglio sarcastico della sua analisi che il fine che si è preposto non è certo quello di derubricare la filosofia a scienza davvero inservibile. Piuttosto, quel che l’autore cerca di fare è proporre tra le righe una critica ragionata dell’accettazione incondizionata di molta dogmatica filosofica, lasciandoci intendere che apprendere in modo passivo e acritico una disciplina tanto vasta, complessa e contraddittoria non è di alcuna utilità per nessuno. È vero che nel corso del libro l’autore si spende per mettere in luce le incoerenze, le pretese dogmatiche e le presunte certezze di molte delle opere più importanti della filosofia occidentale, così come è vero che non si esime dal metterne in ridicolo gli autori e i loro strani vezzi (spesso e volentieri in aperto contrasto con quanto da loro teorizzato), ma è altrettanto vero che allo stesso tempo offre uno spiraglio attraverso cui guardare se si vuole capire cosa debba e possa essere questa disciplina oggi.
Uno degli assunti di Brewer è che la filosofia, in fondo, non insegni a ragionare. O meglio, non certo più «della matematica, della fisica, del latino, del diritto, dell’arte o di qualsiasi altra materia insegnata nelle scuole italiane». Per dimostrarlo Brewer riporta alcune frasi di quel «mostro sacro di Aristotele», da cui ci aspetteremmo «genialità, intuizioni fulminanti, riflessioni sagaci, meditazioni forbite, infinito buon senso», e che invece verga frasi del tipo «giocatori di dadi e danzatori hanno le braccia corte» o «gli individui troppo scuri di carnagione sono vili, vedi gli Egiziani e gli Etiopi». Date queste premesse, si domanda Brewer sarcasticamente, come si può pretendere che Aristotele possa insegnarci a ragionare?
Muove poi una critica alla presunta coerenza dei filosofi, i quali avrebbero in larga parte «predicato bene e razzolato male», e infine all’altrettanto presunta saggezza degli stessi, i quali sarebbero invece «un ammasso sgraziato e disordinato di cellule, incessantemente impegnato a parlare male di qualcun altro» .Un intero capitolo del libro è infatti dedicato agli insulti che alcuni noti campioni della filosofia si sarebbero scambiati tra di loro. Fra i piu’ simpatici, alcuni dei quali così perfidi da lasciare a bocca aperta, troviamo quelli rivolti dal bel Kierkegaard a una delle figure più eminenti di tutta la storia della filosofia, Georg Wilhelm Friedrich Hegel, apostrofato come «sgraziato professorino», teorico di una filosofia dalla «abominevole pompa corruttrice». Ma anche Hegel a sua volta non scherza, definendo uno dei numi tutelari dell’empirismo, Bacone, un semplice «principiante», e la filosofia araba un qualcosa di cui meno ci si occupa e meglio é, visto che da questa non «vi è poi molto da cavare». Voltaire definì Rousseau un «infingardo del tutto inaffidabile», e Rousseau, sentendosi in dovere di rendere pan per focaccia, additò orgogliosamente Voltaire come un vile. Insomma, tutte lingue biforcute, questi filosofi.
Nonostante il taglio indubbiamente irridente dell’intero testo, credo che la domanda fondamentale che Brewer si pone debba essere scovata, per dirla con Nietzsche, al di là del bene e del male, e cioè scavalcando la facciata ironico-satirica che nasconde le vere intenzioni dell’autore, la cui questione fondamentale potrebbe esseree brevemente riassunta così: «In che modo si può ancora valorizzare la filosofia al giorno d’oggi?».
A una prima lettura Brewer sembra infatti polemico nei confronti di filosofi e filosofia, ma a un’analisi più approfondita del libro risulta chiaro che la critica che avanza vuole nascostamente indirizzarsi altrove, verso un approccio dogmatico e sterile alla disciplina. L’autore parla da insegnante, e il suo monito ha una componente chiaramente didattica: non infarcite i vostri allievi di nozioni inutili ma aiutateli ad apprendere criticamente la filosofia e le sue questioni, facendo in modo che non credano passivamente a tutto quanto questa propina loro.
L’ultimo capitolo del libro, intitolato senza grosse sorprese Conclusioni, lascia intendere in poche brevi righe la motivazione che ha spinto Brewer a scrivere questo libro. Qui l’autore indirizza «un’accusa» a chi ha ricostruito «negli ultimi decenni, storie filosofiche molto parziali, senza ritenere di dover divulgare piccoli nuclei tematici, presenti all’interno di grandi sistemi, deliranti o esilaranti e, talvolta, deliranti ed esilaranti. Restiamo in attesa – continua Brewer – che qualche serio e stimato studioso si decida a cimentarsi con la più facile delle imprese, ossia scrivere un testo di divulgazione filosofica di sole tre righe, che ci ricordi che possiamo conoscere i filosofi solo attraverso le loro opere, e in nessun modo con esposizioni di seconda mano».
La critica all’oscurità di certi manuali di Storia della Filosofia era già stata espressa dall’autore nel nono capitolo del libro, Spiegare la filosofia, in cui sosteneva che questi testi, il più delle volte, non fanno altro che «azzerare definitivamente i neuroni di giovani studenti impegnati ad affrontare una questione di una noia cosmica». Come un moderno Lutero, Brewer invita a porci di fronte alla filosofia con uno sguardo del tutto nuovo, diffidando di facili dogmatismi e sistemi imposti da interpretazioni a loro volta dogmatiche, pre-confezionate e discutibili, e consigliando invece di avvicinarci alla disciplina attraverso i testi stessi dei filosofi e in modo più libero, per poter finalmente valutare da soli e in maniera più efficace se questa filosofia tanto bistrattata è davvero così inutile come a prima vista potrebbe sembrare.
E se davvero dovessimo scoprire che lo è, be’… più Tony Brewer per tutti!
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