Eusebius Schnell chiude la libreria alle diciannove e trenta.
Non un minuto prima. Non uno dopo. Cascasse il mondo.
La signora Schnell ne è sempre stata certa, e questa convinzione non discende dalla propria fiducia nel marito, cementata da quasi quarant’anni di matrimonio. La signora Schnell, per la precisione Octavia Brehme in Schnell, ha sempre detto che per un uomo non va mai messa la mano sul fuoco. Senza alcuna eccezione. A tutte le femmine di qualsiasi grado di parentela della propria famiglia, la signora Schnell ha tramandato questo ammonimento. In realtà si è sempre raccomandata anche con me, che sono la cameriera di casa Schnell da quasi diciassette anni, e nonostante io ne abbia trentasette e non sia sposata. O forse proprio per questo. Non esiste in tutta Böhlen, seimila e rotte anime nel circondario di Lipsia, un uomo minimamente piacente, minimamente benestante e intelligente, interessato alla sottoscritta. Ma questi sono affari miei. Il motivo per cui la signora Schnell è certa che suo marito chiuda la libreria alle diciannove e trenta in punto, ogni giorno eccetto la domenica, è uno soltanto: un giovedì di qualche tempo prima, incaricò suo nipote Augustus di un compito. Difficile ricordarsi del mese, perché è tutto un fiume, la vita, di fatti, anche piccoli, che si accavallano come salmoni in risalita, che uno poi li confonde, e i giorni sembrano tutti uguali, proprio come i salmoni che vanno a riprodursi in acqua dolce, con la loro faccia appuntita. A ogni modo, un giovedì di qualche tempo prima, chiese ad Augustus, di ritorno dalla lezione con il maestro Zoytan, visto che allora ancora studiava violino, di fermarsi a spiare lo zio Eusebius. Una pura formalità, così la definì. Doveva essere inverno, a ben pensarci, perché quando rincasò, Augustus si lamentò del freddo preso accovacciato come un cane randagio dietro i bidoni dell’immondizia. Lo disse mentre gli servivo la zuppa di patate e porri, e visto che era così infreddolito, la signora Schnell aveva consentito che servissi al ragazzo due mestoli di zuppa, invece che uno soltanto, come d’abitudine. Fra una cucchiaiata e l’altra, Augustus confermò che lo zio aveva abbassato la serranda precisamente alle diciannove e trenta. Ma restando dentro. Ecco quello che la signora Schnell non si spiegava. Se suo marito Eusebius chiudeva la libreria tutte le sere, eccetto la domenica, alle diciannove e trenta, perché rincasava mai prima delle ventuno? Cosa faceva al chiuso della propria libreria? Il mistero stava tutto qui. Non me lo spiegavo nemmeno io: nessuno chiede mai la mia opinione, ma non significa che non ne abbia una. La signora Schnell non temeva che suo marito intrattenesse una relazione extraconiugale, per il semplice fatto che non era minimamente interessata a proseguire una relazione sessuale con il signor Schnell, come non lo era stata mai se non a fini procreativi, e se lui riteneva di dover sfogare i propri bassi istinti, aveva la sua benedizione. La signora Schnell era semplicemente curiosa, perché è una donna così, meticolosa e curiosa. Anche tirchia, se posso permettermi, e a dimostrazione di ciò dirò soltanto che il suo concetto di lauta ricompensa per il servigio ottenuto dal nipote Augustus fu la pera più grossa fra tutte quelle che erano nel cesto della frutta in mezzo al tavolo. Augustus è così abituato che non si sorprende più. Nemmeno quella volta ci restò male. Aprire la bocca del resto non gli conviene mai, povero ragazzo, considerato che la signora Schnell gli rinfaccia sempre che sua madre, la sorella della signora Schnell, non è stata capace di mantenerlo e sarebbe finito a fare la fame sotto i ponti, se non fosse stato per la sua generosità. Sono convinta che Augustus pensi di farla ugualmente, la fame, perché non c’è da ingrassare con i pranzi e le cene che la signora mi ordina di mettere in tavola.
Il fattaccio capitò quella sera stessa. Quando il signor Schnell rincasò, fece tutto come al solito: posò il cappello sull’appendiabiti e scrollò il cappotto prima di appenderlo, come se si fosse depositata la polvere sollevata camminando. La cena lo aspettava in un cantuccio del tavolo: la signora Schnell e Augustus non lo attendono per la cena. Il signor Schnell non se ne è mai lamentato. Anche quella sera aveva sotto braccio un libro. Non lo vidi subito, perché ero nella mia stanza, come anche la signora Schnell e Augustus, che stavano già sotto le coperte sicuramente, ma ero certa che fosse così, perché non avendo nessuno con cui parlare, il signor Schnell d’abitudine si porta qualcosa da leggere desinando. Era una copia di Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne. Lo so benissimo, credetemi, come è vero che so la mano destra e quella sinistra. Una copia del 1870, per la precisione, non posso proprio dimenticarlo, perché quando udii il fracasso, le urla e il tonfo, mi precipitai nella sala da pranzo senza perdere tempo, se non quello di infilarmi la vestaglia, e vidi questa scena: la signora Schnell stesa a terra. Il volto sereno, mai visto così, pareva persino bella, ma un sottile rivolo rosso gli correva sulla fronte, e guardai bene: era proprio sangue. Accanto a lei stavano, da una parte un piatto rotto e dall’altra, in piedi, il signor Schnell, lo sguardo allucinato. Fra le mani, le pagine strappate dal libro che giaceva sul tavolo al posto del piatto. Chiesi cosa fosse successo, mentre mi accovacciavo a raccogliere il polso della signora.
E lui rispose:
«Ventimila leghe sotto i mari, la copia del 1870».
La signora non era morta. Misi il cappotto e andai a chiamare il dottor Fogts, che per mia fortuna abitava a qualche centinaia di metri da casa Schnell.
Quando tornai, insieme al dottore, a cui strada facendo, spiegai cosa era successo, seppur in debito di ossigeno, trovammo il signor Schnell esattamente nella posizione in cui l’avevo lasciato.
«Che succede, Eusebius?» chiese allarmato il dottor Fogts prestando soccorso alla signora Schnell.
Eusebius Schnell rispose: «Ventimila leghe sotto i mari, la copia del 1870».
Il dottor Fogts mi guardò. Sollevai le spalle scuotendo la testa e fu tutto il mio commento. Non si spostava, il signor Schnell, anche se era di intralcio: lo presi io, come se si trattasse di un cagnolino al guinzaglio. La signora Schnell si riprese per effetto di un boccettino che il dottor Fogts le sventolò sotto il naso, ma era come se il signor Schnell non vedesse nulla e continuava a ripetere ventimilaleghesottoimarilacopiadel1870.
Ecco perché lo so così bene e non mi posso sbagliare. Quando la signora Schnell si riebbe, contrariamente al signor Schnell, riacquistò subito lucidità, infatti inveì contro suo marito, maledicendolo.
Il signor Schnell seppe rispondere solo ventimilaleghesottoimarilacopiadel1870, ma con un tono innegabilmente più dolce, come se, ne sono certa, volesse in quel modo chiederle scusa, pur non essendo capace di altre parole. Non ci fu verso di farle cambiare idea: non ne fu capace suo nipote Augustus, che finalmente si era deciso a scendere dal letto, non ne fu capace la sottoscritta, ma nemmeno il dottor Fogts, che continuava a ripeterle che sarebbe guarita in breve tempo. La signora Schnell denunciò suo marito. Riteneva giusto che il signor Schnell pagasse. Disse proprio così. Per questo mi ritrovai nell’ufficio del commissario Otto Mekren, perché il signor Schnell doveva essere interrogato e non c’era stato verso di farlo muovere, se non grazie a me, che continuavo a spostarlo come un cagnolino al guinzaglio. Di tirargli via di mano le pagine del libro, quello no, non era riuscito neanche a me. Otto Mekren fumava la pipa: in effetti c’era così tanto fumo, che quella stanza pareva la custodia di una nuvola. Ma era un buon profumo. Ottimo, anzi. Credo sia stato quel profumo a farmi concentrare sulla figura del commissario.
«Favorisca le sue generalità» disse al signor Schnell.
«Ventimila leghe sotto i mari, la copia del 1870», rispose.
«Nome e cognome.»
«Ventimila leghe sotto i mari, la copia del 1870.»
Il commissario Mekren mi guardò e notai che aveva interessanti occhi color nocciola. Così, inevitabilmente, lo sguardo mi fuggì alla sua mano sinistra e non posso nascondere di aver provato un gustoso sollievo nel constatare la nudità del suo anulare. Sono tuttavia sicura che non gli feci una buona impressione. Impegnata nelle suddette constatazioni, non sentii la sua domanda, e feci pressappoco la figura del signor Schnell, visto che dovette ripeterla. Finalmente risposi. Spiegai, emozionata, che il signor Schnell era così da quando lo avevo trovato in sala da pranzo, accanto alla moglie stesa per terra. Ripeteva quella frase, tutte le volte che parlava. Come se fosse la sua nuova lingua.
«Ma io lo capisco, sa?» aggiunsi.
Il commissario sorrise, ne sono certa. Impercettibilmente, ma sorrise.
Rimasi stupita vedendo fra le sue mani il libro che era stato strappato in casa Schnell. Ed è certo che ne rimase stupito anche Eusebius Schnell, perché quando lo riconobbe, allora fece cadere i fogli che tratteneva così strenuamente fra le dita, si alzò dalla sedia e si sporse oltre la scrivania, fra le scartoffie, la lampada e il portapenne, e prese il libro dalle mani del commissario.
E in quel momento Eusebius Schnell parlò. Sono convinta del fatto che lo fece come non gli era capitato mai in sessantuno anni.
Disse: «Vede, questo libro?».
Il commissario guardò il libro. Io guardai il commissario.
«È una copia della prima edizione di Ventimila leghe sotto i mari. Un meraviglioso originale…»
«Aspetti: del 1870», lo interruppe il commissario Mekren. Ho sempre adorato l’ironia nelle persone. Anche il signor Schnell sorrise. «Si avvicini, guardi che illustrazioni», disse.
Ci avvicinammo entrambi, perché ero curiosa anche io, e in effetti vidi il disegno di una balena o forse di un orca, non saprei, e posso solo dire che era bellissima, e anche il commissario annuiva colpito. Vidi pure il suo mento ben rasato con una cicatrice nel mezzo che non stava affatto male.
«Ha più di sessant’anni, una rarità. Mia moglie, povera donna, non è che non ami i libri. Mia moglie non ama nessuno. Nemmeno se stessa. Ci fosse stato un giorno, da quando la conosco, signor commissario, in cui l’abbia scoperta ad amare qualcuno. Ne sarei stato felice, mi creda, anche se si fosse trattato di un altro uomo, soltanto per poterne apprezzare l’umanità. Non è capace, povera donna. Nemmeno i suoi figli, ha amato. Li ha accuditi a dovere, non mi fraintenda, ma allo stesso modo in cui ci si può prendere cura di un servizio di bicchieri di cristallo. Qualunque cosa sia, non la si può chiamare amore. Le mentirei se le dicessi che non ci sono stato male, ma mi dica: cosa si può fare quando si scopre di non aver sposato la persona giusta?»
Eusebius Schnell si bloccò, pareva un mulo piantato. E voleva una risposta. Se devo dire la verità, io pure. E il commissario Mekren, visibilmente imbarazzato, rispose come se fosse stato lui quello dei due che aveva il dovere di fornire spiegazioni.
«Non saprei.» disse così. Se posso essere completamente sincera, mi aspettavo di più. E tuttavia, a ben pensarci, si trattò di una risposta onesta. Il signor Schnell disse:
«Esattamente così: non si sa».
Tacque. Posò il libro sulla scrivania. Sia io che il commissario restammo a guardarlo e posso mettere la mano sul fuoco, anche se si tratta di un uomo, che il commissario teneva il fiato sospeso quanto me, perché la vicenda stava prendendo entrambi.
«Quando si scopre di non aver sposato la persona giusta…»
Bussarono alla porta proprio in quel momento. Il signor Schnell si zittì. Un poliziotto porse un foglio al commissario: intravidi la signora Schnell, seduta nella sala d’attesa, rigida come marmo acconciato a statua. Era tornata pienamente quella che era prima del piatto in testa: un gran peccato. Il commissario firmò il foglio, il poliziotto uscì, e la porta fu richiusa. Entrambi guardammo il signor Schnell. Lui abbassò lo sguardo sulle mani e quasi si stupì di non trovarci più il libro.
«Quando si scopre di non aver sposato la persona giusta, commissario, si tira avanti lo stesso. Ecco. Non per questo si dissolvono le mancanze. E vede, i libri, a noi umani», e riprese il volume posato poco prima, «salvano la vita.»
Io sono ignorante, ma si capiva che stava parlando di se stesso.
Il commissario restò incantato come un bimbo alla fine di una storia: posso dire, anche a costo di farvi pena, che lo trovai bellissimo. Credo che quello sia stato il momento in cui, per la prima volta nella sua vita, la qui presente Berta Franziska Banshewitz si è innamorata. Invece io mi sono messa a piangere, guardando a terra le pagine strappate. Capii benissimo il signor Schnell. Il signor Schnell aveva fatto bene a spaccare il piatto in testa a sua moglie, quando gli aveva strappato le pagine di quel libro, solo perché si rifiutava di spiegare il motivo per cui tutte le sere, tra le diciannove e trenta e le ventuno, eccetto la domenica, restava chiuso dentro la sua libreria. E in quel momento io lo compresi, quel motivo. Non me lo confermò mai nessuno. Nemmeno il signor Schnell. Lo capii da sola, ma era talmente ovvio. Sono certa che lo comprese anche il commissario. Unicamente la signora Schnell ancora oggi, che tutto sembra essere tornato normale, e ha chiuso l’incresciosa faccenda nel passato come si fa con un tappeto vecchio dentro il baule di un solaio, unicamente la signora Schnell, ancora oggi, non può arrivarci.
Altrove non so, qui a Böhlen usa così: gli uomini, al termine di una giornata di lavoro, s’intrattengono in chiacchiere con i propri amici, davanti a una birra al pub. Il signor Schnell di una birra probabilmente non sente il bisogno, ma dei suoi amici sì. Perché ancora oggi, senza che la faccenda induca più alla minima curiosità la signora Schnell, si ferma nella sua libreria, tra le diciannove e trenta e le ventuno. Tutte le sere, eccetto la domenica.
Il commissario disse che la signora Schnell aveva ritirato la denuncia, stava scritto nel foglio che aveva firmato poco prima: non mi stupì, e secondo me non stupì nemmeno il signor Schnell. La signora Schnell era posseduta da quella sua missione di raddrizzare le persone, me compresa, secondo i suoi principi e gusti. La sua intenzione era stata quella di infliggere una punizione a suo marito, una punizione esemplare, per dirla alla sua maniera, non certo di farlo finire dietro le sbarre. Il commissario gli disse che era libero di tornare a casa. Il signor Schnell si chinò, raccolse le pagine e le mise con cura dentro il suo libro del 1870.
Si muoveva autonomamente, non aveva più bisogno di me. Prima di lasciare l’ufficio, il signor Schnell si rivolse a Mekren e gli disse: «Lei assomiglia a Maigret».
«Non conosco nessun Maigret, a Böhlen», rispose il commissario.
«Venga in libreria da me, al 9 di Kaspar Kerll strasse. Glielo presenterò.»
Uscimmo dall’ufficio e fu il signor Schnell a occuparsi di me, questa volta: chiuse il mio braccio fra le sue dita innocenti e mi sospinse nella sala d’attesa. La signora Schnell non c’era più. Tornammo a casa senza parole. Per quanto mi riguarda ebbi molto da pensare, su tutta quanta la storia, e trassi delle conclusioni che ovviamente terrò per me.
Devo dire tuttavia che sperai che il commissario prima o poi facesse quel salto al 9 di Kaspar Kerll strasse. Questo lo devo ammettere.
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