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Terzo appuntamento con Corsa allo Strega, rubrica dedicata alla cinquina finalista al Premio Strega e organizzata in collaborazione con la Scuola del libro. Il contributo di oggi è a cura di Beatrice La Tella e Chiara Orfini.

 

È con il suo secondo romanzo che Nadia Terranova approda alla cinquina del Premio Strega. Addio fantasmi ha già fatto parlare di sé – è attualmente in corso di traduzione in tredici paesi – e la scrittura della sua autrice ha conquistato le lodi di un pilastro della letteratura come Annie Ernaux, che ne ha sottolineato precisione e sensibilità.

La storia, autobiografica solo nelle premesse, è quella di Ida Laquidara, messinese d’origine e romana d’adozione, di ritorno alla sua città natale. A richiamarla sull’isola è la madre, per un motivo di origine pratica: il tetto della casa di famiglia crolla a causa delle infiltrazioni, occorre ristrutturarlo per poi mettere in vendita l’appartamento, potrebbe Ida gentilmente scegliere «cosa tenere e cosa buttare» tra gli oggetti che le appartengono? L’espediente che apre la narrazione è immediato, la banalità del quotidiano, ma sin da subito si intuisce in modo limpido quanto quel viaggio di ritorno sia per la protagonista indesiderato, quasi temuto, e quanto quella banalità non sia tale, ma rechi in sé qualcosa di «terribile». La casa in questione non è infatti un nido di bambina ma un luogo cupo, segnato dall’abbandono. È il posto da cui il padre di Ida, uomo tormentato e depresso, è scomparso senza lasciarsi dietro altro che qualche lampo, un orario preciso e cristallizzato – «le sei e sedici per sempre» –, uno spazzolino blu, uno sbuffo di dentifricio; mentre la voragine tra una madre e una figlia ormai sole comincia a spalancarsi e farsi negli anni sempre più invalicabile.

L’unico modo per rimettere insieme la figura paterna, e con essa ridefinire anche i propri contorni, è procedere per gradi. Così il romanzo si sviluppa in tre parti distinte e identificative, seguendo il percorso psicologico e di crescita della protagonista: il nome, un’invocazione mai pronunciata mutatasi in tabù; il corpo, una fisicità scomparsa che trasforma per paradosso la concretezza del materiale in ciò che Ida percepisce come meno reale – «Se succede al corpo, non è successo davvero», dice una Ida adolescente che si approccia per la prima volta al sesso, nella sua complessa educazione sentimentale –; infine la voce, il momento del confronto finale, del dialogo rimandato e perturbante in cui il familiare è anche estraneo, due poli che si negano a vicenda e allo stesso tempo si fondono tra loro, in cui l’unico riconoscimento possibile è un perdono e insieme un’autoassoluzione.

Il nostos della protagonista intreccia il gioco della memoria, «il gioco più puro che abbiamo», con un presente che arranca, trattenuto dal peso di un lutto negato, dalla violenza di un addio impossibile e dagli argini faticosamente costruiti per impedire a tanto dolore di rivelarsi e straripare. Mura che lentamente hanno reso Ida cieca alla sofferenza altrui, ma anche spettrale, a tratti meno reale delle sue ossessioni, mura che, come il tetto sfasciato di casa Laquidara, cercano di trattenere un male liquido e insinuante, estesosi ad una vita intera. Armandosi di tutto il coraggio che serve per guarire dalla propria infanzia, Ida riapre suo malgrado una conversazione che credeva interrotta e che si gioca su ricordi che si fanno sogni, persone che diventano specchi, luoghi che si mutano in simboli, oggetti che si convertono in amuleti.

E allora Ida e sua madre si sdoppiano in Nikos e suo padre, i due operai che lavorano alla ristrutturazione, guardiani anch’essi delle loro ferite, e casa Laquidara si riflette nella Casa del Puparo, che dalle rovine distilla un’inattesa e luminosa bellezza. Ida adulta guarda dritto negli occhi di Ida bambina e poi di Ida adolescente, nel meccanismo alternato delle età che rintoccano dall’orologio astronomico del duomo di Messina.

Quello di Ida e dei personaggi che le orbitano intorno è un percorso catartico, da tragedia greca, in cui le colpe dei padri infestano i figli e l’acqua dello Stretto è l’unica capace di lavarle via, l’unica custode possibile.

Addio fantasmi è un libro di incastri, composto da corrispondenze ponderate e da un’altissima carica simbolica, che commuovono perché riescono a conciliarsi miracolosamente con una spontaneità disarmante, una sincerità profonda della quale si può soltanto essere grati.

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