Ho preso i calzini che piacciono a lui.
Blu, lunghi, filo di scozia, scelti dopo un’attenta analisi di tutti i modelli esposti nel settore uomo, un piccolo angolo poco frequentato se non da donne che scelgono la biancheria per mariti e figli. Loro sono più rapide, sanno già cosa prendere o non ci fanno caso, in fondo sono solo calze. Non per me. Se non trovo quelle giuste Marcello si irrita, viene meno la liturgia, dice.
«Solo questo?» mi chiede la commessa.
«Sì».
«Vuole una busta? Abbiamo solo queste cartonate. Sono un po’ grandi…».
«Non c’è bisogno, grazie».
Prendo lo scontrino e mi allontano con i calzini sul polso come un venditore ambulante. Mi infilo nel camerino di soppiatto; mi accuccio sullo sgabello e, a gesti nervosi, prima stacco i cartoncini e poi sfilo via le scarpe e i calzini bianchi – Marcello li detesta. Infilo le calze appena acquistate fin sotto il ginocchio. Il tessuto pregiato avvolge con precisione i polpacci. Tiro ancora un po’ e lascio scattare l’elastico sulla pelle. Perfetto. La pensione scelta da Marcello si nasconde in un vecchio palazzo ad angolo. Nessuna insegna. Al citofono la riconosco dal nome: Hotel Piper. Sul ballatoio del terzo piano, dove sono le camere, spunta la testa bionda di una donna. Tiene gli occhi sbarrati.
«Buongiorno. Desidera?», chiede con fare professionale.
«Una matrimoniale per una sosta, se è possibile». La formula funziona sempre. Stringo comunque i denti.
«Quante ore?».
«Non più di due, credo».
«La 24», mi dice allungando le chiavi.
La moquette del corridoio è pulita, rilascia un odore stantio. I piedi affondano senza far rumore.
Sono arrivato, scrivo a Marcello. La stanza è in buono stato. Non ci sono macchie di umido o squallide carte da parati. Ci sono un armadio con la specchiera – a lui piacerà –, uno sgabello e una piccola scrivania. I nostri incontri non hanno più nulla di trasgressivo ormai, è tutto molto prevedibile. Lui parla di ritualità ma a me sembra solo uno spreco di tempo: assecondare i gusti di un altro e non i miei. Non riesce a nominare le sue ossessioni e allora le riveste di accorgimenti. Guai a parlare di fetish, si offende. Spogliati fin dove sai, leggo sullo schermo del mio cellulare. Abbasso le tapparelle e accendo l’abat-jour. Nell’alone di luce proiettato sul letto mi svesto, attento a non smuovere i calzini quando sfilo via i pantaloni. Li sfioro; sono caldi. Marcello non è tipo da intimo usato, scarpe vecchie e piedi nudi. È un perfezionista, o forse soltanto un ipocrita. Conto fino a dieci: se non arriva mi rivesto e me ne vado. Dal corridoio sento il suono dei suoi passi. Si fermano davanti la porta. Anche io mi fermo in attesa mentre un piede struscia sul letto, inavvertito come la coda di un felino.
Mi ha lasciato a metà strada. Sua figlia ha le prove della recita di fine anno e da qui alla tangenziale è un passo.
«È stato bello», mi rifila Marcello mentre scendo dalla sua auto. Ormai è finito il periodo in cui il rispetto regolava le nostre vite già incasinate per conto loro. Prima era un continuo scusarsi per ogni cosa; io ero disposto ad assecondare qualsiasi sua nuova richiesta e lui non mi gettava addosso le frustrazioni di una vita. Sfogavamo tutto nei nostri incontri clandestini. Da qualche tempo, però, Marcello non si trattiene e un paio di volte gli è anche sfuggito il nome di sua moglie.
La confidenza è mala creanza, mi dico mentre attraverso via Salvator Rosa. Il pomeriggio qui è un inferno, sembra la parodia di una capitale del sud est asiatico: motorini che guizzano come pesci, apecar, autobus roventi; una bolgia di smog, grida, e motori. Taglio la strada a un motorino e arrivo al marciapiede con un salto legnoso. Almeno casa mia si trova in un vicolo cieco, all’ultimo piano e con i doppi vetri alle finestre. La vita in città per me si divide tra l’inferno delle strade e l’eremo della mia stanza. Lo sporco che c’è fuori non lo porto dentro, al massimo me ne libero subito all’ingresso; poi ci pensa Marianna a mettere su una lavatrice.
Anche oggi è venuta di pomeriggio. Dopo due giorni di ferie adesso ha una montagna di roba da stirare. È entrata in cucina reggendo l’asse e ha fatto sloggiare me e i ragazzi in salone. Anche qui, dopo essersi guardati attorno, non hanno perso quell’espressione avvilita che hanno tutti i liceali costretti alle lezioni private. Devono tradurre dieci frasi dal latino all’italiano. Siamo ancora alla seconda. Dalla cucina arrivano sbuffi di vapore. È Marianna che stira le ultime camicie, poi le porterà in camera di mio padre per poi appenderle alle grucce, nell’odore dell’intimità assoluta. L’abbiamo assunta da pochi mesi. È una donna alta, bionda, macedone. Un viso austero, non si direbbe che va in giro a pulire case. Come domestica è perfetta. Due volte a settimana viene a mettere ordine, a far cambiare l’aria e insomma a non far morire me e mio padre sommersi dalla spazzatura e dalla polvere. Ma la sua totale discrezione, insieme con l’efficienza del suo lavoro, non mi convince del tutto, anzi alimenta in me sospetti di ogni tipo. Spesso mi ritrovo a immaginare una bella scenata, magari scopro che ha rubato qualcosa, e posso finalmente cacciarla via a calci. Queste sono sciocchezze ma da quando mio padre ha preso a riaccompagnarla a casa in macchina la sera non posso reprimere la più evidente delle illazioni: uno vedovo, l’altra zitella; non è così difficile pensare che in quei tragitti in macchina possa nascere qualcosa. Lui può fare quello che vuole, mi ripeto, anche se è stato irritante quel passaggio ingiustificato dal Lei al Tu; ma a Marianna non lo permetto. È già troppo che infili le mie mutande sporche nella lavatrice. I ragazzi intanto sfogliano con poca convinzione le pagine del dizionario, una a una. Gli iPhone vibrano senza sosta.
Marianna sbuca dalla cucina con una serie di camicie appese all’indice.
Al centro della mano, ripiegati e infilati uno dentro l’altro, i miei calzini nuovi.
«Ragazzi torno subito. Sbrigatevi che mancano venti minuti e siete ancora a metà».
Mi alzo e con l’andatura decisa che posso permettermi solo in casa mi piazzo di fronte a Marianna.
«Scusi», la richiamo, «i calzini non sono del dottore. Se non le spiace», le dico facendomi largo nella stanza.
Apro il cassetto e tiro fuori il mio paio di filo di scozia. Glieli mostro per bene facendoli oscillare davanti ai suoi occhi e vado a metterli nel mio cassetto dandole le spalle.
A trent’anni non si vede un euro e mi tocca gironzolare per la città a dare ripetizioni di latino a domicilio. All’università lavoro solo grazie a un inutile titolo di cultore della materia e un assegno, per ora, è fuori discussione. A furia di fare avanti e indietro su corso Vittorio Emanuele mi si è formata una verruca sotto l’alluce. La podologa ha detto che ci vorrà un mese di trattamento per toglierla via. La macchina di Marcello mi aspetta a due passi dall’ambulatorio. È parcheggiata male, come sul punto di scappare da una rapina.
«Mia moglie ha trovato un tuo messaggio. Crede abbia un’altra», mi saluta così.
«Tu dille che si sbaglia. Che poi è la verità».
Marcello esita con le mani sul volante. Pulite e belle, come la fede all’anulare destro.
«Adesso dove andiamo?».
«Nel mio studio. A quest’ora non c’è nessuno. In albergo meglio se non ci andiamo più».
L’ufficio di Marcello è all’ultimo piano di un maestoso palazzo del centro storico. Sulle scale di tufo sorgono poliambulatori, associazioni culturali, abitazioni private e uffici. Nel suo c’è poca aria. Le vetrate larghe – da quell’altezza immagino si veda tutta la città – sono serrate. La luce dei neon non aiuta. C’è una gran cura per i dettagli: le poltrone, la lampada e la libreria sembrano costosi pezzi di design. Marcello intanto libera la scrivania, poggiando plichi e fascicoli sul pavimento. Li avesse almeno gettati via con foga.
«Non mi piace qui», dico guardandomi attorno. Marcello arriva alle mie spalle. Mi sfila la giacca e mi mette a sedere sulla poltrona come se fossi una marionetta. Inizia a slacciarmi la scarpa. Ha già smesso di guardarmi in volto.
Io tiro via il piede.
«Aspetta», dico.
«Cosa c’è?».
«Meglio di no».
Non è abituato a essere interrotto. Dallo stupore è passato al fastidio.
«Ho l’alluce destro fasciato. Meglio non muoverlo».
Marcello lo tira in su, come a pesarlo. Vuole valutare l’articolo difettato. Non chiede cosa ho, non vuole rovinarsi la fantasia. Lascia andare il piede nel vuoto e si rimette in piedi.
«Potevi dirmelo prima», sbuffa. Di spalle torna a riordinare le carte che ha sparso in giro.
«Forse è meglio se ci rivediamo quando stai meglio».
Le stanze vuote da sempre mi danno un senso di vertigine. Possibile che una persona si stanchi di me solo per una verruca? Non mi stupirei. Ma non mi piace essere trattato come una marchetta e appena avverto il ruolo completamente marginale che ho nella sua vita sento l’abisso sotto i miei piedi, come fossi invisibile a me stesso e agli altri, allora mi aggrappo subito alla sua caviglia slacciando obbediente i lacci delle sue scarpe da sartoria.
Sono costretto a fare la doccia con il piede avvolto in una busta di plastica. È fastidioso ma ci sto facendo l’abitudine. Mio padre ha voluto dare un’occhiata al piede. Quando gli ho detto della podologa ha riso. «Una volta si chiamavano callari, a stento avevano la terza elementare…». Ha tirato via la medicazione con fare pratico e diffidente. Non ho obiettato: sono stato abituato a fidarmi del suo parere prima di quello degli altri.
«Sì, è bella grossa», ha commentato rivolto al mio piede.
«Com’è che si attacca?», chiedo, curioso.
«Sono di origine virale. Docce, spogliatoi, piscine… dipende da che posti frequenti tu».
L’allusività è il massimo di confidenza che riesce ad avere con me. Per il resto mi tratta come fossi un suo coetaneo, un compagno di bevute, mai un momento di intimità – nemmeno a controllare se mi fossero spuntati, a dodici anni, i primi peli sotto le ascelle. Due anni fa, d’estate, mi ricoverarono in ospedale. Avevo una febbre inestinguibile, perdevo peso e vomitavo spesso. Bastarono pochi controlli: epatite A. Restai in ospedale per una settimana. Mio padre non lavorava più lì da anni ma era ancora abbastanza conosciuto, tanto da farmi avere una stanza singola, con la finestra. Quando veniva a farmi visita non mi guardava mai. Si assicurava che la stanza fosse in ordine e si lamentava con le infermiere come fosse la sua clinica. Guardava la flebo, poi mi faceva un cenno veloce con la testa prima di andare via. A seguirmi c’era uno specializzando entusiasta. Aveva una premura sconosciuta agli altri medici, le intenzioni di chi vuole cambiare le cose. Incontrò mio padre in stanza. Lui entrava e usciva quando voleva.
«Lo rimettiamo tra due giorni», spiegò. Arrivò anche il capo reparto. Salutò mio padre con affetto. Parlavano sottovoce, la concentrazione svagata di una chiacchiera tra specialisti.
«Si tratta di un’esplosione endemica. Pare sia partita da un festival… in Belgio».Il caporeparto fece un passo indietro. Mio padre guardò lo specializzando divertito, poi si volse verso di me come a cercare sostegno per la sua tesi: «Germano non le ha detto che ha mangiato dei frutti di mare andati a male?».
Io e mio padre non stiamo mai in casa. Lui si trattiene fino a tardi nel suo studio, io passo le mie giornate in biblioteca. Ho deciso di dedicarmi senza livore al convegno nazionale del professor Perotti e passo il tempo a sfogliare noiosi commenti per ultimare l’edizione critica di un petrarchista napoletano, grande vanto del nostro dipartimento. La gavetta è fondamentale, ripete mio padre. Intanto i miei amici sono tutti andati via con l’euforia della ricerca e, oltralpe, si sposano e hanno figli, mentre io sono qui ad aspettare i dipendenti della biblioteca che si sventolano con il mio modulo per il prestito; li guardo con odio. Nelle sale del palazzo Reale, come riecheggiassero ancora le note di un ballo, matricole, ricercatori, e anche qualche dipendente sfilano leggeri, scambiandosi occhiate irruenti. I giardini reali, all’uscita, sono il giusto epilogo per chi non regge più l’inseguimento. È così che ho incontrato Marcello. Incrociammo gli sguardi sotto il portico del Palazzo. Gli vidi subito la fede al dito, eppure lui insisteva, non dava scampo ai dubbi. Appena presi la strada tra le aiuole iniziò la caccia: io che guardavo furtivo e mi allontanavo e lui che mi raggiungeva mantenendo la giusta distanza. Nessuno si decideva a lasciare l’ombra dei giardini e perdersi nella folla della piazza, oltre i cancelli. Sotto i cavalli di bronzo mi arresi per primo, mi voltai e lo accolsi. Mi chiese se avessi voglia di un caffè, perché quello dei distributori faceva schifo. Offrì lui, era gentile e sfacciato: «Non è detto che se sei sposato devi agire come uno fuori di testa», mi spiegò. Fu molto chiaro. Firmammo una specie di contratto: «Ho una moglie e una figlia. Agli uomini ci ho pensato quando era troppo tardi».
Le donne, mi raccontò, l’avevano incastrato già all’età di undici anni e solo molto tempo dopo, in viaggio da solo, trovò il coraggio di entrare in un bar.
«Tua moglie lo sa?».
«Non la riguarda. È uno spazio mio».
Marcello aveva colto questa sua seconda vita come un dono e non aveva nessuna intenzione di impegnarsi oltre la gratuità con il quale gli si concedeva. Sapeva godersela. Mi passava a prendere a notte fonda, mi portava in giro per ore, a vuoto, parlava di lavoro e di politica. Poi a un certo punto si fermava e mi indicava l’albergo che aveva scelto. Bastava questo per eccitarmi.
«Dov’eri?».
«Ho accompagnato Marianna a casa».
«E perché? Mica piove».
«L’ho incontrata in strada, ero in macchina. Che ci vuole ad arrivare da qua ai Ponti Rossi?».
«Non ceni?».
Faccio no con la testa. Lui fa partire la lavastoviglie.
«Lo vuoi un goccio?», insiste. Apre il mobiletto e tira fuori una bottiglia di cherry fatto in casa. Mi porta un bicchierino in poltrona, dove mi sono seduto per rileggere la tesi di uno studente per conto del professore, e mi si piazza di fronte. «Come va il piede?».
«Bene, il trattamento fa effetto. La verruca è uscita dalla pelle e la podologa la sta limando a poco a poco».
Mi sto per abbandonare a quel po’ di amore filiale che suscita la preoccupazione per la mia salute quando esordisce: «Germa’ ti devo dire una cosa».
Mi guarda dritto negli occhi, senza esitare. L’ultima volta che mi parlò in questo modo fu per parlare di mia madre.
«Dopo lo studio, a volte, mi intrattengo al bar con una signora. Beviamo un caffè, qualche volta un prosecco». Manda giù l’ultimo sorso di cherry. «Ci tengo a dirtelo io di persona perché non voglio che lo vieni a sapere in un altro modo».
Mi dà una pacca su un ginocchio e se ne va, come a dire Anche questa è fatta.
Sono rimasto in poltrona tutta la notte, a fissare la parete. Quando mi sono addormentato ho sognato di nuotare a dorso per ore, con gli occhi fissi sulla volta enorme. Nuotavo senza sosta, l’unica cosa che mi spingeva a continuare come un condannato era la paura di guardare il fondo.
La podologa ha stabilito che la verruca ormai è scomparsa. Niente più medicazioni e odore di cresofene. Ho scritto subito a Marcello: Niente ufficio. Vieni da me. Marcello è entrato in casa con circospezione, come un agente immobiliare che compila un preventivo. Si è stupito della pulizia della casa. In camera sfoglia tutti i miei libri. Vuole vedere le mie stupide e costosissime edizioni critiche. Io intanto mi sfilo le scarpe e mi stendo sul letto.
«Ha un’aria severa la tua stanza», commenta schiacciando le pagine di un mio libro, «somiglia al mio studio. Senza personalità».
«Almeno qui c’è un letto», gli faccio notare. Poi allungo le gambe e le aggancio alle sue, tirandolo verso di me.
Marcello ride, ma si tira indietro.
«Il bagno dov’è?».
«La stanza accanto».
È la prima volta che porto qualcuno in casa; c’è un’intimità mai provata in una stanza d’albergo. Spero se ne sia accorto. Sono ancora a letto quando sento un ciabattare lento avvicinarsi dal fondo del corridoio. Mi tiro su, in ascolto. Qualcuno bussa alla porta del bagno. «Posso?», chiede la voce nasale di Marianna. La porta del bagno si apre e viene fuori Marcello. La cravatta slacciata, ha gli occhi spaventati. Cerca di rimediare all’istante: «Mi scusi. Non volevo disturbare ma suo figlio sa essere insistente».
«Non è mia madre. È la signora delle pulizie», intervengo sull’uscio della porta.
Mi guardano tutti e due.
«Mi scusi», Marcello indietreggia, ma non è più spaventato. Con lo sguardo seguo Marianna che entra in bagno a posare scopa e stracci. Io resto in piedi, provando un senso di onnipotenza. Marcello, nascosto in un angolo, mi guarda con aria interrogativa.
«Che facciamo?», sussurra. Sembra divertito.
«Aspetta», gli faccio cenno con la mano.
Marianna esce dal bagno, prende l’ombrello e se ne va senza nemmeno congedarsi.
A volte ho l’impressione che stia al gioco. Quando mi vede girare in casa dopo pranzo sa che sono lì perché aspetto Marcello. A quel punto si avvicina e, come un araldo, annuncia: «Suo padre non tornerà prima delle sei». Alle sei in punto lei esce dal bagno; con un cappottino nuovo e gli orecchini cancella in un colpo solo l’odore di candeggina che si porta dietro e va via. Capita che mio padre si assenti per qualche giorno, per andare fuori città. Nello stesso periodo Marianna non viene o ha già spostato accuratamente i suoi turni. Non mi lamento. Ho la casa tutta per me.
Ce la fai per le cinque? Non c’è nessuno.
Da quando ho proposto camera mia io e Marcello abbiamo ritrovato un certo equilibrio. Qui ci intratteniamo a letto, parliamo; a volte si addormenta per qualche minuto sulle mie gambe. A vedere i lineamenti del viso così rilassati, come un bambino, mi sorprendo a pensare con lucidità a come io e lui, nonostante tutto, non siamo fatti per stare insieme.
Guai con Eleonora.
Ha una moglie e una figlia e io non ho pretese: non rientra nel mio carattere. Sono solo il contrappunto di una serie di scelte sbagliate. E se pure mi faccio da parte, non posso negare che il nostro stare insieme abbia una sua dose di reale.
Puoi passare da me.
Facciamo alle 4?
Passi?
Vieni?
Allora?
Allora Marcello è venuto. E con le idee chiare. Mi ha salutato con una strizzata d’occhio, come fossi il suo nipotino. Ho provato a portarlo in camera; gli ho subito mostrato i calzini sollevando i pantaloni, ma lui mi ha detto di no. Voleva dirmelo di persona. Meglio non vedersi più. Sono giorni che non riesce a respirare. Il lavoro, Eleonora, la bambina. È stato bello, mi sono divertito, ma sono sposato, ha ripetuto, solenne.
«Sì, ma non puoi negare la mia esistenza».
«Ma no, te l’ho detto. Mi sono divertito. Magari più in là ci risentiamo».
A quel punto Marianna è spuntata da un angolo del salone, con le camicie stirate.
Marcello ha aperto la porta ed è andato via. «Arrivederci, signora». Ha sorriso come se niente fosse successo.
Ho chiuso la porta e mi sono piegato lungo il muro, la gola chiusa, un turgore al petto. Marianna è rimasta lì a guardarmi. Ha poggiato le camicie al pomello della porta e ha allungato un braccio verso di me, all’altezza della spalla.
Se ha qualcosa da dirmi mio padre preferisce farlo nei momenti più impensabili.
Siamo in ascensore quando mi dice: «Non viene più quell’amico tuo?».
Mi sistemo in un angolo dello stretto abitacolo.
«È un peccato. Ormai a casa nostra non viene più nessuno. Se non ci fosse Marianna…».
Siamo arrivati al piano terra. Ho allungato il braccio verso la porta ma non l’ho aperta. Siamo rimasti immobili per qualche secondo. In questa posizione mio padre arriva a stento alla mia spalla. Al centro della testa ha perso ancora più capelli.
«E tu che ne sai?».
Ha appoggiato la mano su mio polso. Mi ha guardato dritto negli occhi e ha detto:«Germa’ è vero che io e te abbiamo fatto scelte diverse, però non ti ho mai considerato uno stupido». A sessantanove anni mio padre fa ancora dell’astuzia un suo vanto, una certezza incrollabile e, a quanto pare, un tratto genetico. Mi viene da chiedergli se convenga davvero essere sempre più furbi degli altri, e invece dico:«Buona giornata».
«Ti serve un passaggio?», ci ha riprovato. Ma non mi faccio fregare. Cosa vorrà dirmi stavolta? Che vuole sposarla?
«No, ho bisogno di aria»
Sono arrivato in università a grandi falcate, la giacca in braccio e la mano a visiera contro una luce accecante, travolto da una nuova euforia, come avessi compiuto un viaggio spaziale, lontano anni luce dagli ultimi episodi della mia vita. Oggi hanno inizio le giornate del convegno. Tre giorni, tredici esperti a riordinare i loro discorsi sulla filologia a stampa. A me spetta un intervento di non più di dieci minuti, nel tardo pomeriggio, ad aula vuota, per intenderci. Ci sono altri ricercatori, come me. Li riconosco dalle loro giacche di lino, la barba informale e lo sguardo obbediente di chi sta aspettando un nuovo assegno. Tra questi un viso noto. È un’occhiata rapida la nostra, d’intesa, anche se non ci siamo ancora conosciuti di persona. Ha inizio il primo intervento. Ci mettiamo tutti a sedere. Appena posso lancio un’occhiata alla mia destra e lui è sempre pronto a sorridermi. Alla prima pausa caffè scatto in piedi. Lui è già seduto sulla balconata a rollare una sigaretta di tabacco. Ha i pantaloni tirati su. Indossa le mezze calze, come me.
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↔ In alto: Foto di NordWood Themes su Unsplash.
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